Cosa può insegnarci il modello Svedese? La spinta gentile contro la cultura dell’autoreclusione sorvegliata [di Simone D’Alessandro]

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Doppiozero 23 aprile 2020. Quando è scoppiata l’emergenza Covid-19 in occidente, le nazioni Europee hanno preso strade differenti, condizionate dai propri riferimenti etici, valoriali e culturali: paesi come l’Italia, la Spagna, la Grecia – successivamente Francia, Danimarca, Norvegia e Finlandia – hanno deciso di fare il cosiddetto lockdown, consistente nel chiudere gran parte delle attività economiche e isolare i focolai, invitando la popolazione a restare a casa, optando per un approccio morale deontologico universalista.

Si è deciso di seguire la massima universale: tratta le altre persone come fini in sé e mai come mezzi per un fine, perché ogni vita è unica e merita di essere salvata. Nel fare questo le nazioni sono state evidentemente influenzate dal dettato costituzionale, derivato dal retaggio culturale cristiano e dalla teoria morale deontologica kantiana, consistente nella volontà di prendersi cura di tutti, prescindendo da età e condizioni di salute pregresse.

Al contrario il Regno Unito ha, inizialmente, optato per un modello basato sull’analisi costi/benefici, seguendo la tradizione utilitaristica fondata su un approccio morale consequenzialista. Il suo primo ministro, ha parlato esplicitamente di immunità di gregge. La scelta dell’immunità di gregge prevede un laissez faire alla pervasività del virus e implica un numero notevole di morti e la contaminazione di almeno il 60% della popolazione britannica prima che si raggiunga l’obiettivo di immunizzazione totale.

In tal modo, si baratta il funzionamento del sistema economico – che non si arresta – con la salute dei cittadini. Weber avrebbe valutato questa scelta come coerente con l’etica protestante e calvinista alla base dello spirito capitalista. Questo tentativo anglosassone è stato repentinamente abbandonato, perché non accettato dalla collettività.

La Svezia, invece, ha proposto un modello divergente e sostanzialmente condiviso dalla cittadinanza. Ha avuto la capacità di non tornare indietro nelle sue scelte, confidando nel comportamento virtuoso dei suoi cittadini, dando indicazioni su come evitare comportamenti rischiosi, senza arrestare le attività sociali ed economiche, partendo dal presupposto che con il virus si dovrà convivere per molto tempo.

Questo non significa che il governo svedese non abbia adottato misure per il contenimento dei contagi: ha chiuso le scuole da 16 anni in su e le Università (che in parte hanno continuato a funzionare con l’e-learning); ha disposto un divieto di assembramento superiore a 50 persone (con previsione di multe e persino reclusione); ha raccomandato il distanziamento sociale dagli anziani (niente visite negli ospizi) e il rispetto di distanze minime nei supermercati e in altri luoghi al chiuso. Le altre attività economiche e ricreative sono rimaste aperte.

La Svezia ha potuto permettersi di agire in contro tendenza, per una serie di motivazioni di carattere culturale, sociale e territoriale: a) quasi il 50 percento della popolazione svedese è monofamiliare; b) l’opinione pubblica è più disponibile ad accettare un diverso rapporto di rischi/benefici nelle scelte strategiche; c) i cittadini hanno una visione dell’indipendenza e un rapporto con la solitudine che li agevola quando la distanza sociale diventa la norma; d) il territorio presenta una bassa densità di popolazione; e) in Svezia vi è un rapporto equilibrato tra città e campagna, tra spazi vitali per la persona e spazi lavorativi, tra città medie e borghi; f) lo stato ha costruito, nel tempo, un rapporto altamente fiduciario con i propri cittadini che sono responsabili a prescindere dalle prescrizioni; g) la strategia di comunicazione istituzionale ha ridimensionato l’emergenza per evitare isterie e psicosi, contrastando l’allarmismo mediatico ed evitando incrementi ingiustificati di ricoveri che concretamente amplificano i contagi, come è accaduto in altre nazioni; h) il pool scientifico di supporto alle decisioni dello stato svedese, è partito dal presupposto che non ci siano prove sul fatto che costringere tutti a stare a casa possa fare la differenza, essendo l’epidemiologia una scienza sociale; ciò è stato anche ispirato dalla storia: nell’epidemia di colera del 1830, la Svezia aveva optato per la quarantena, con la febbre spagnola del 1919 ha cambiato strategia e ha superato la pandemia con cifre meno devastati di molte altre nazioni; i) è nella tradizione svedese essere pioniere di scelte divergenti che successivamente vengono accettate anche dagli altri paesi scandinavi (si consideri che la Danimarca osserva con interesse le scelte del governo svedese).

Un insegnamento fra tutti emerge da questa esperienza: mentre altre nazioni hanno la necessità di utilizzare la paura e le sanzioni per obbligare la collettività a un comportamento responsabile, il governo svedese ottiene fiducia a prescindere dalle norme e anche in situazioni di normalità.

Una strategia che ha funzionato per tanti altri temi come, ad esempio, la vaccinazione. In Svezia non vi è una legge che obbliga i genitori a vaccinare i figli contro le note malattie epidemiche, eppure il tasso di copertura vaccinale raggiunge quasi il 99% (in Italia, pur in presenza di obblighi normativi, i tassi variano tra il 93 ed il 94%).

Tra l’altro un recentissimo studio (pubblicato il 20 Aprile 2020 qui), guidato da un team internazionale di epidemiologi italiani, spagnoli e tedeschi, ha sviluppato un modello previsionale sull’andamento del Covid-19, confrontando i dati reali e quelli attesi di Italia, Germania e Svezia. Dalle curve si deduce che i tempi e la portata di diffusione del morbo sono praticamente gli stessi ovunque, indipendentemente dalle misure adottate (ovviamente se la curva resta identica nella forma, il valore assoluto dipende dalla portata dell’infezione all’inizio del ciclo). Di conseguenza, secondo la tesi del team di scienziati: contano solo le regole di base (ossia di distanziamento) e non le misure più o meno restrittive.

Un risultato che mostra la bontà dell’approccio svedese basato sul circolo fiducia/ libertà /senso della responsabilità individuale. Si tratta di una variante dell’utilitarismo negativo, definito utilitarismo della regola che tenta di combinare i migliori aspetti dell’utilitarismo con i migliori aspetti dell’etica deontologica. Si adottano regole generali che producono maggiori benefici per tutti o per il maggior numero di persone, lasciandole libere di scegliere. I governanti svedesi ritengono che i propri cittadini possano rispondere meglio alle raccomandazioni che agli obblighi.

Potremmo definirla una spinta gentile – come teorizzata dal premio Nobel ed esponente dell’economia comportamentale Richard Thaler – che ha già dato i suoi frutti: le aziende hanno deciso autonomamente di riorganizzarsi con lo smart working e le famiglie hanno deciso liberamente se uscire o rimanere in casa, se continuare a portare i figli a scuola o seguire le lezioni in remoto.

Infine, il modello svedese costituisce un esempio di resistenza contro l’attitudine al controllo pervasivo degli spostamenti dei cittadini attraverso app di contact tracing.

Ha ragione Yuval Noah Harari quando sostiene che i provvedimenti d’emergenza a breve termine, diventano parti costitutive della quotidianità, poiché è la natura stessa delle emergenze a determinare un’accelerazione dei processi storici, allora si corre il rischio di creare patologici modelli sociali a partire da condizioni di vita del tutto eccezionali e temporanee. Per questo la Svezia ha deciso di rispondere alla crisi con la normalità!

La modernità, dall’illuminismo ad oggi, ha consolidato le sue strategie di controllo bio-politico e di contenimento sociale, come ampiamente mostrato dalle ricerche di Foucault, attraverso la cultura dell’emergenza. Dobbiamo fare attenzione a queste raffinate forme di ‘democratura’: stiamo avverando le profezie distopiche del capitalismo della sorveglianza, come ci ricorda Shoshana Zuboff. Non possiamo arrenderci all’idea di evolvere in Hikikomori tracciati da un dispositivo di sorveglianza. Vivere significa: con-vivere con il pericolo e il senso della morte.

Un palestinese, un israeliano, un afgano, un libico – e la lista potrebbe continuare – sanno che ogni giorno potrebbero essere ammazzati da una bomba o da un cecchino mentre fanno la spesa, o accompagnando un figlio a scuola, ma non decidono di fermarsi. Cambiano, semmai, strategie comportamentali, incrementando il pensiero strategico e l’azione cauta.

La cultura della sicurezza totale, sta generando una ‘Società in remoto’ costituita da individui passivi e psicotici che decidono di auto segregarsi in attesa della morte, come nel Deserto dei Tartari di Buzzati. L’esempio Svedese ci ricorda che è sempre possibile un pensiero divergente, perché la socialità è relazione e appartiene alla libertà di agire responsabilmente nei mondi vitali.

 

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