Studio d’artista: Salvatore Garau [di Roberta Vanali]

garau

Si collocano al confine tra astrazione e figurazione, le opere di grandi dimensioni e di forte impatto emotivo di Salvatore Garau (Santa Giusta, 1953) artista neoromantico, conosciuto e apprezzato a livello internazionale, che coglie il sublime di una natura espressa dall’immensità spaziale, resa drammatica dall’immediatezza d’improvvisi e corposi neri che incombono. I suoi paesaggi lirici sono anche espressione di profonda interiorità attraverso i quali manifesta l’umana inquietudine di fronte al dramma esistenziale. Mentre la potenza del gesto rivela una carica di energia vitale spesso incarnata da cromatismi di viscerale intensità. Tra pathos, sperimentazione e abilità tecnica.

Descriviti con tre aggettivi. Mi è impossibile rispondere a questa domanda. Qualunque aggettivo valido oggi non lo sarebbe più domani.

Mi parli della tua formazione e degli artisti di riferimento? Firenze, Accademia di Belle Arti. Pittura classica, studio del nudo, incisione e scultura; niente ricerca o sperimentazione; era quello che mi serviva, ma sopratutto un’esperienza di vita essendo arrivato a Firenze a diciassette anni.

Subito dopo centinaia di concerti prima con i Salis e Salis  poi con gli Stormy Six (trovami un altro musicista che ha suonato in due gruppi con le stesse iniziali) con gli Stormy tournée in tutta Europa che mi hanno permesso di visitare musei d’Arte Contemporanea che in Italia languivano. Interminabili discussioni sull’arte e la cultura in generale con i miei compagni durante i lunghi viaggi, più di un’accademia. Musica e arte visiva, quindi, sempre insieme. Da aggiungere un forte amore per il cinema e la letteratura.

Gli artisti di riferimento? La lista sarebbe così lunga che occuperebbe l’intera intervista. Diciamo comunque tutta la storia dell’Arte.

Qual è stato l’evento determinante per il tuo percorso? Un tamburino di plastica comprato da mia madre alla festa della Madonna del Rimedio (Or). I primi sei tubetti  di colore a olio, due pennelli e una piccola tela. E la scoperta, una mattina in Brera, presso un gallerista “commerciale” dell’esistenza delle gallerie importanti  “Queste opere” mi disse “ non sono per questo giro ma devi presentarle…” e mi elencò le tre, quattro più importanti gallerie. Questi sono i primi eventi determinanti, ma altri ne succedono anche ora.

Hai una predilezione per i grandi formati, ci racconti la loro genesi e da dove deriva il tuo interesse? Col grande formato entro in un teatro. Si apre il sipario, salgo sul palcoscenico e comincio a recitare. In qualche modo e l’invito a teatro che rivolgo allo “Spettatore”  il grande formato è anche geografia sulla quale cammino, un territorio da esplorare (che talvolta intimorisce) pieno di bestie sconosciute. Meglio sentirsi dominanti, altrimenti conviene mollare il colpo.; diciamo pure scappare. Sarà meglio ricominciare il giorno dopo. Resta inteso che ho la stessa passione per il piccolo formato. Certi periodi posso solo muovermi su una grande superficie, in altri mi è quasi impossibile, allora mi dedico al “ricamo” del piccolo. Il mio interesse nasce anche dal quasi nulla, dove poi c’è quasi il tutto.

Non solo pittore ma anche scultore, oltre che musicista. Risale al 2010 la tanto discussa Anguilla di Marte. Ce ne parli? Che spasso è stata quella scultura! Credo di aver raggiunto l’obiettivo che deve sempre proporsi un’opera pubblica: far discutere. Intendo, far discutere senza necessariamente realizzare un’opera che di proposito voglia sconvolgere o “scandalizzare”, così è troppo facile! Insomma, devi rispettare il luogo, le persone, la storia ma devi riuscire a creare comunque discussione e “scontro”, altrimenti è un’opera morta.

A dire il vero, nella mia ingenuità, pensavo che l’Anguilla di Marte non poteva che piacere a chiunque; elegante, gigantesca, flessuosa e rispettosa del genius loci, insomma, sarebbe piaciuta a tutti i ceti sociali, esperti di arte contemporanea o assolutamente estranei a questo mondo. Per fortuna mi ero sbagliato! Ma la cosa davvero sconvolgente per me è stata la contestazione dei giovani, non dei vecchi dai quali è stata più accettata.

Su questo punto ci sarebbe da riflettere, e tanto. In fondo è il nocciolo della questione che richiederebbe un dibattito a parte, escludendo me, per carità! Già ora devo star dietro alla testa dell’anguilla e, grazie al segreto che nasconde, ci sarà, immagino, da divertirsi anche stavolta.

Nel 2017, invece, sei approdato al cinema come regista con il docu-film La Tela, girato nel carcere di massima sicurezza di Massama. Come nasce questo progetto? Ho deciso di girare il doc-film subito dopo l’esclusione di un mio thriller da un bando regionale (perchè c’era poca “sardità! Che sciagurati coloro che scrivono questi bandi!) quindi ho ripreso in mano un vecchio progetto che avrei dovuto realizzare a Bad’é Carros, per il quale però avevo pensato solo un catalogo fotografico dell’evento, ma un documentario ora mi sembrava più adatto a descrivere l’idea.

In due giorni ho parlato col Direttore del carcere di Massama, ho messo su una troupe, piccola ma con i migliori professionisti, raccolto un po’ di soldi da miei collezionisti, un po’ li ho messi io e, senza indecisioni o perdite di tempo ho realizzato il film (anche stavolta nessun aiuto dalla Regione o dalla Film Commission). Ho realizzato il film che volevo. Fabio Olmi, che ha diretto la fotografia, quando l’ha visto montato mi ha rivelato di essere “Orgoglioso e onorato di aver fatto questo documentario”.

È stato davvero gratificante, come lo è stato ascoltando le voci dei detenuti e della polizia penitenziaria che ho coinvolto. Poche settimane fa La Tela era al Lift-off Film Festival di Tokio, e a Parigi proiettato all’istituto di Cultura italiano per la seconda volta. Sono per ora le ultime proiezioni di una lunga serie in tutto il mondo. Che soddisfazione per i ragazzi/detenuti!  (con uno di loro ci scriviamo ancora).

L’idea era semplice; dipingere una grande tela assieme ai detenuti: “Davanti a questa tela siete più liberi delle persone libere là fuori” ho detto loro. Davvero interessante toccare con mano quanto spaventi  questo tipo di libertà. Certo, mettici pure una certa dose di emozione, ma profondamente la libertà spaventa un po’ tutti. La libertà è prendersi  la totale responsabilità delle proprie azioni.

In attesa di venderlo alla Rai, su you tube si può vedere il trailer che condensa tutta la poetica del doc-film.

Una tua opinione sul panorama artistico isolano. È un vero problema per me parlare del panorama artistico in Sardegna, (e dell’Arte Contemporanea in generale), Quando hai visto troppo, in passato e non parliamo del presente, non riesci più ad avere un’opinione corretta, ti senti la pancia sempre piena. Purtroppo la Rete per quanto utile sia, ha anche creato un esagerato affastellamento di immagini delle quali tutti ne sono a conoscenza.

Per cui ritrovi in Sardegna, nei vari generi, quello che accade nel resto del mondo, come se ci fosse stato un allineamento, sono lavori intercambiabili. Sai cosa penso? Che sarebbe necessario per un artista non guardare più internet per almeno 5 anni, non conoscere più niente di quello che avviene nell’arte nel resto del mondo, insomma, una sorta di purificazione, quindi ricominciare.  Lo so bene che è impossibile, ma a me piace pensarlo. 30/40 anni fa questa idea di una “clausura visiva” non era necessaria, la conoscenza aveva una lentezza umana, si stratificavano esperienze che avevano modo di maturare. ma oggi…. no, è troppo e il troppo  annoia.

Inoltre è così difficile per un artista in Italia (figurati nell’isola) vivere del proprio lavoro. Evito di parlare della quasi totale assenza di un sostegno che dovrebbero avere gli artisti da parte delle istituzioni. Soprattutto per quegli artisti che faticano davvero tanto a far vivere e vivere della propria arte.  Ma questo è un campo che riguarda la fantascienza.

Come hai vissuto il lockdown? Benissimo e fortemente creativo nella prima parte. Meno nella seconda quando ho cominciato a vedere macchine e persone. Lo so,  è davvero da stronzi fare questo pensiero. Serve però per sottolineare come pian piano ci si abitua anche all’impossibile. Il fatto è che quell’impossibile ti fa guardare la vita e il mondo in modo asciutto e intenso. Dove stavamo andando, ma che vita era quella prima del lockdown? Era forse vita? Erano quelli i nostri ritmi? Nessuna paura, tornerà tutto come prima, come prima!?

A cosa lavori in questo frangente e quali sono i progetti futuri? Parlo dei progetti futuri quando non sono più futuri ma “Inchiodati” alla parete. Posso giusto dirti, l’avevo già accennato, della seconda parte della scultura dell’anguilla che è in lavorazione dopo la pausa del lockdown. Ma questa ormai non è più futuro ma un prossimo presente.

Chiudiamo con un sogno nel cassetto. Non ho neanche un sogno nel cassetto che tengo sempre socchiuso e il sogno, avendo bisogno di aria (e prima o poi di vita), è sempre fuori, in giro, qualche volta si nasconde dietro un angolo e aspetta annusando la situazione, altre volte si manifesta perdendo il vapore del sogno.

 

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