Quel gesto così poco originale [di Maria Antonietta Mongiu]

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L’Unione Sarda 16 luglio 2020. La città in pillole.  Nei tempi di omologazione o, a scelta, di ipertrofia delle differenze e di inurbamento a scala planetaria c’è un gesto che possa dirsi originale? Quello che ha imbrattato il monumento a Carlo Felice, si potrebbe, di conseguenza, definire emulativo e provinciale, chiedendosi al contempo se ci sia qualcosa che non lo sia?

E’ attuale quanto antico, come spesso qui si è detto a proposito di iconoclastia e iconodulia, solo apparentemente antagoniste e opposte.

Senza scomodare la Dublino di James Joyce uno sguardo ad alcuni capolavori dell’urbano, la Trilogia di New York di Paul Auster o i primi film di Woody Allen, per rendersi conto che tutto il mondo è Brooklyn o Stampace e che le città hanno una vita autonoma con un denominatore confrontabile perché cumulano, come Cagliari, nei millenni infinite contemporaneità con le coeve comunità.

La città di pietra o di vetro o d’acqua; verticale o estesa; militare o civile; sacra o laica; con tessiture più o meno intense o con molti o pochi fulcri che si chiamano piazze, palazzi, monumenti, oggi solo arredo, non è una quinta scenica di qualsivoglia civitas, vandala o catalana, piemontese o bizantina che pure l’hanno stratificata e spesso abusata. L’etnico che di volta in volta ha preso casa al più le ha dato un cognome pro tempore, giacché il suo vero nome è puro sostrato protosardo.

Che la si chiami polis, urbs, casteddu, metropoli, è figura spaziale con grammatiche e metriche, spesso insegretite, bisognose di molti dizionari per essere decodificate non superficialmente. La narrativa soccorre nella comprensione delle sequenze genealogiche di cui, per la natura immateriale, ogni città è gelosa custode quando le appartenenze di sangue si volatizzano. Ma Cagliari come non ha un centro perché, da sempre, policentrica non ha un suo Bildungsroman o romanzo di formazione ma tante narrazioni. Spesso assai vernacolari!

Sosteneva Max Weber che il senso della nascita di una città non era tanto la pietrificazione di una tribù di sangue (in sardo il mirabile sambenadu) quanto la continua aspirazione a volerla oltrepassare attraverso il commercio organizzato e stabile da cui sono derivati la residenzialità e i modi e mezzi di produzione per realizzarla.

Il vero commercio ha prodotto gli spazi pubblici e mediato gli interessi privati in favore di quelli comunitari. Ma per dirla con G. Leopardi, con “le prostrate mura”, questi a Cagliari sono privatizzati a “sgabello” di tavolini.

Che rimpianto per Paolo de Magistris che aveva letto il sociologo tedesco. Meglio che imbrattare il Savoia.

 

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