Archeologo sì, ma non specialista. Mario Torelli era uno dei massimi archeologi mondiali [di Edek Osser]

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Riproponiamo un’intervista pubblicata nel novembre 2014 sul Giornale dell’Arte. Edizione online,16 settembre 2020. L’etruscologia ha perso una delle figure più importanti: è morto a Roma il 15 settembre all’età di 83 anni Mario Torelli. Allievo di Ranuccio Bianchi Bandinelli e di Massimo Pallottino, ha insegnato Archeologia e Storia dell’Arte greca e romana a Cagliari e poi a Perugia. Accademico dei Lincei, Premio Balzan, diresse, tra l’altro, gli scavi del santuario etrusco di Minerva a Santa Marinella, di quello di Porta Cerere di Veio e del santuario greco di Gravisca. Stava lavorando al progetto di una grande mostra su Pompei e Roma.

Mario Torelli rifiuta subito la qualifica di etruscologo. «Archeologo sì, ma non uno specialista: mi considero un medico generico anche perché il mondo antico è uno solo». Accademico dei Lincei, 77 anni, il 20 novembre riceverà il premio Balzan per l’archeologia classica, massimo riconoscimento mondiale. Come previsto dal regolamento, ha deciso di destinare la metà del premio (620mila euro) alla pubblicazione degli ultimi volumi della collana da lui diretta e dedicata al Santuario greco di Gravisca, e ad altri progetti di ricerca. «Sono archeologo per vocazione, ma anche un po’ per forza. Da ragazzo ho fatto di tutto, perfino del cinema. Ho studiato il cinese e il russo. Nel 1957 sono stato interprete ufficiale per l’Associazione Italia-Cina della prima folta delegazione della Cina Popolare, arrivata qui in incognito».

Una vita lontana dall’archeologia…
A giugno 1957 iniziai il mio primo scavo. Il 26 agosto morì mio padre e cambiò tutto. Mia madre aveva una pensione modesta e per continuare a studiare per diventare archeologo mi sono dovuto impiegare al Ministero della Difesa Aeronautica. Questa è la storia segreta della mia «quasi vocazione» archeologica. Mi sono laureato alla Sapienza nel 1960; nel 1963 c’è stato un concorso per 20 posti da ispettore di Soprintendenza. Primo dopo scritti e orali, sono poi arrivato settimo: troppo giovane. Dovetti scegliere una sede: pensando che Roma fosse inavvicinabile cercai un contatto con il soprintendente di Firenze Giacomo Caputo.

Intanto si era sposato con la sorella del genero del maggior etruscologo e archeologo del tempo, Massimo Pallottino.
Un prosopografo, uno che si dedica allo studio delle carriere delle persone in base al sistema delle parentele, potrebbe pensare che abbia fatto carriera per quella parentela. Invece Pallottino, un anno dopo la laurea con lui discussa, mi aveva estromesso dalla sua cerchia, perché non mi ero voluto conformare ad alcuni suoi ordini. Il soprintendente di Firenze mi ha confessato più tardi di non avermi accolto perché sapeva della mia parentela con Pallottino. Per fortuna, nella bagarre di quegli anni, Bruno Molaioli, direttore generale delle Antichità e Belle Arti del Ministero della Pubblica Istruzione, mi assegnò come ispettore archeologico al Museo di Villa Giulia, dove ho lavorato per cinque anni. Poi, per 35 anni ho tenuto la cattedra di Archeologia e Storia dell’arte greca e romana a Perugia fino alle mie dimissioni nel 2010.

Sembra di capire che da sempre lavora fuori dai salotti e dal potere.
Negli anni Sessanta mi consideravano una testa calda, lontano dall’establishment, allora molto papalino e cattolico. Ero iscritto al Partito Comunista che ho lasciato nel 1988.

Ma come mai è rimasto così a lungo a Perugia?
Ha pesato l’ideologia, la mia illusione di avere una grande missione da svolgere. Ho creato dal nulla una biblioteca straordinaria che l’Università, appena sono andato via, ha lasciato morire. Hanno smesso di comprare i libri dicendo: mancano i soldi, mentre si spendono per mille altre scempiaggini. Quando mi sono dimesso, nel 2010, l’Università di Perugia mi ha negato il titolo di «emerito». Il rettore Bistoni ha detto a due altri rettori che gli chiedevano il perché: «Ha un cattivo carattere». Oggi, a Perugia, la laurea specialistica in archeologia sta morendo: ha 16 professori e 2 allievi. Principale causa, le scelte sbagliate dell’Università.

Quali sono le scoperte che le hanno dato più soddisfazioni?
Due o tre scavi sono stati davvero di estrema importanza. Il primo risale a quando raccoglievo le epigrafi tra Basilicata e Puglia per incarico dall’Accademia delle Scienze Prussiana. Era il 1965 e il neosoprintendente di Potenza mi consigliò di dare un’occhiata a Banzi perché erano state trovate delle «colonnette con scritte incomprensibili». Sono andato e mi sono reso conto che si trattava di un monumento del quale non esistono altri esempi, un «auguraculum» (un tempio all’aperto usato dai sacerdoti per predire il futuro osservando il volo degli uccelli, Ndr), uno spazio di terra nel quale erano infissi dei cippi sulla sommità dei quali apparivano soltanto iscrizioni con tre nomi di divinità, due latine e una osca. Le altre parole erano incomprensibili. Mentre tornavo da Banzi, in macchina, ebbi di colpo un’intuizione: ho pensato a un lemma conservato nel De verborum significatione di Festo e ho capito che all’«auguraculum» mancava un lato. Ho fatto un piccolo scavo e ho trovato i cippi sui quali erano incise le tre parole augurali che completavano quel templum augurale unico al mondo.

E la seconda scoperta?
È stato nell’agosto 1968 a Gravisca, il porto etrusco di Tarquinia. Blocco i lavori di una palazzina e con 21 milioni di lire ho cominciato a scavare. Al primo saggio compare un santuario con migliaia di lucerne greche, eccezionali in Etruria, frequentato da grandi mercanti della Ionia asiatica. Lo scavo è tuttora in corso. Lì c’è anche l’unico santuario di Adone che si conosca.

Altre scoperte importanti?
Molte, alcune arrivate per caso, come quella degli «Elogia» di Tarquinia, che ha consentito di scoprire una parte ignota della storia etrusca.

È imminente la riforma del Mibact. Che cosa ne pensa?
Alla cerimonia del premio Balzan mi è data la possibilità di parlare per tre minuti davanti al presidente Napolitano. Gli raccomanderò di salvaguardare la valenza scientifica degli organismi di tutela. Perché c’è un delirio economicista: tutti devono essere manager. Ricordo che abbiamo avuto la «meravigliosa» prova di Mario Resca alla direzione della Valorizzazione, il management del Ministero. Di lui posso raccontare una storia che non molti conoscono. Al limite degli scavi di Pompei c’è un piccolo edificio borbonico, la palazzina delle Aquile, su una parte non scavata. Quando arrivò, il nostro manager decise: «Qui faremo il ristorante». Senza dire nulla al soprintendente ha chiamato i muratori. Nella palazzina, sopra dei tavolati erano distesi, in attesa di restauro, i frammenti di due soffitti pompeiani. Solo il soprintendente sapeva della loro esistenza, quindi sono stati distrutti e buttati! Insomma, prima è indispensabile che tu sia un archeologo e poi, eventualmente, un manager.

Le sue critiche alla riforma riguardano tra l’altro l’unificazione delle Soprintendenze e la sparizione di quelle specialistiche.
Molte Soprintendenze gestiscono molte cose come fatti privati e con poca scienza. Tipico il caso dell’ispettrice autrice dello scavo di alcune tombe alla periferia di un paesino, già individuata come zona di espansione dell’edilizia popolare: fatto lo scavo lei ha bloccato tutto. Questo non è possibile: scava, libera il suolo e fai costruire. Restavano soltanto delle buche. Il sindaco è venuto da me, ho scritto una memoria e la cosa si è risolta.

Non crede che siano anche questi i casi che giustificano le radicali trasformazioni e le decisioni della riforma contro le Soprintendenze?
Certo, e ci sono anche le grandi opere. Per esempio: non si ha neanche idea delle cose che sono emerse durante la costruzione dell’Alta Velocità tra Lazio e Campania, con molte scoperte sulle quali non è stata pubblicata una riga; tra queste c’è un campo dell’Età del Bronzo con i segni dell’aratura. Non difendo i soprintendenti, ma un’istituzione, pensata a fine Ottocento e codificata nel 1909: doveva servire da guarentigia per monumenti archeologici, storico-artistici ecc. A capo, degli specialisti. Che poi le Soprintendenze vengano unificate e che a capo vi siano degli architetti, pazienza, è meno grave. Ma questo significa uccidere la ricerca perché tra gli archeologi italiani c’è almeno un 20% di autentici scienziati. La mia critica alla riforma è radicale, perché ho timore che non vengano nominate persone capaci. Non bado alle strutture, a me interessano gli uomini, la loro selezione. Dall’Uuniversità di Perugia mi sono dimesso per disperazione: negli ultimi quindici anni la qualità degli studenti è precipitata a livelli da Terzo Mondo.

E l’idea di puntare sui grandi musei d’eccellenza?
L’intera politica dei beni culturali è sbagliata, compresa quella di creare grandi musei e grandi poli museali. Se a un museo archeologico togli il retroterra, il territorio dal quale emergono sempre novità, la sua funzione scientifica finisce.

Il premio Balzan è un grande traguardo raggiunto?
Prima di me, il premio per l’Archeologia Classica è andato a Massimo Pallottino, trent’anni fa. Poi, nessun altro. Quest’anno, gli altri tre premi sono andati a due americani e un canadese. Il mio pessimismo è quello dell’intelligenza, ma spesso mi manca l’ottimismo della volontà.

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