Morto il poeta milanese Franco Loi [di Paolo di Stefano]

Loi

Corriere.it 4/01/2021. Franco Loi è un caso di incredibile immedesimazione. Era nato nel 1930 a Genova da padre sardo (spedizioniere e poi direttore di uno scalo merci) e madre emiliana di Colorno. Trasferitosi già nel ’37 a Milano con la famiglia, Loi assorbe la parlata lombarda e l’habitus morale dei ceti popolari urbani. Nella «sua» Milano è morto il 4 gennaio, assistito in casa dalla figlia Francesca, debilitato dalla cecità che era intervenuta da diversi anni e dagli scompensi cardiaci subentrati negli ultimi mesi.

Dopo la guerra e la lotta civile vissuta attivamente da ragazzo, Loi cominciò a lavorare come disegnatore di ceramica e poi come operaio agli appalti della ferrovia, da lì all’Ufficio pubblicità della Rinascente per poi passare, ottenuto il diploma di ragioniere nelle scuole serali, all’Ufficio stampa della Mondadori dal 1960 al ’67, continuando a collaborarvi fino all’83. Fu iscritto al Fronte della gioventù e alla Federazione giovanile comunista, militò nel Pci fino al ’62 ma continuò a svolgere attività politica nell’ambito della sinistra per tutti gli anni Settanta. Alla passione civile si legava l’amore per il teatro che nel ’64 gli procurò una collaborazione con Puecher, Bajni e Marano per uno spettacolo di satira al Piccolo e tra il ’69 e il ’70 una partecipazione a Nuova Scena.

Come si può intuire dalle poche note biografiche appena accennate, Loi è una figura culturalmente del tutto atipica nel panorama poetico italiano, e lo dimostra anche il fatto che si è avvicinato alla poesia in età piuttosto tarda, nel 1965, per una «spinta sentimentale e volontaristica», come ha scritto: «Mi ero innamorato e mi ingegnai di dar parola alle mie effusioni passionali. Questa effervescenza amorosa mi pareva poesia».

Cominciò a scrivere in italiano, ma per un impulso che lui stesso non riusciva a definire venne fuori il milanese come «una corrente di ritmi e suoni entro cui le parole e le immagini trovavano, quasi spontaneamente, una loro collocazione». In un mese scrisse circa 120 poesie, e per recuperare quella stessa felicità compositiva dovette aspettare fino al 1970, quando per una coincidenza di fatti personali (la morte del padre e la paralisi della zia materna Zelinda, la drammatica rottura con la politica e con alcuni compagni di lotta) si ritrovò «solo, addolorato, assalito dalle memorie».

Dalla prosa passa di nuovo alla poesia in lingua e infine ancora viene «trascinato» verso il dialetto: con quel verbo, «trascinato», vuole rendere l’idea della forza irresistibile procurata dall’«emozione musicale» («l’invisìbel müseca del feng») conservata dentro la sua personale memoria.

In realtà, come è stato sottolineato da diversi illustri estimatori della sua poesia (tra i quali Dante Isella, Pier Vincenzo Mengaldo, Franco Brevini), quello di Loi è un milanese estraneo alla tradizione di Carlo Porta e di Delio Tessa, poiché mescola in sé la parlata proletaria cittadina con elementi della campagna e con contributi linguistici degli immigrati di diversa origine.

Ma tutto questo viene rielaborato o reinventato da Loi liberamente con l’immissione di numerosi ingredienti (l’emiliano materno, lingue straniere, il latino, arcaismi letterari), oltre a essere caricato di forza civile e mitica come proiezione di un immaginario rivoluzionario risalente all’adolescenza.

Ha detto il suo amico Franco Fortini che il «tornare indietro» di Loi nel dialetto si lega all’utopia dell’infanzia-adolescenza, facendosi «coscienza storica, nella serie di lotte e sconfitte del proletariato europeo e, nella dimensione politica, nel “tradimento” che le sinistre avrebbero compiuto della speranza del ’45». In virtù di questa visione ideale, quel particolare dialetto non è tratto esclusivo delle classi umili ma diventa lingua onnicomprensiva che investe tutto anche con violenza inglobando in sé l’intera e molteplice realtà del mondo.

L’effetto complessivo di grottesco realismo e a volte iperrealismo visionario si declina via via in forme diverse ma spesso accomunate da una profonda coralità che coinvolge personaggi e figure, tale da farsi nel tempo dialogo drammatico, narrazione epica e fantastica «composta per situazioni in accumulo» e «come a ondate incontenibili» (Maurizio Cucchi). Si va dalle prime prove de I cart (Le carte 1973) a Stròlegh (1975), da Teater (1978) a Liber (1988, il titolo significa sia «libro» che «libero»), da Bach (1986) a L’angel (1981 e 1994): dove Loi sviluppa una sorta di autobiografia personale e insieme generazionale, con brani della guerra civile, scene da piazzale Loreto, evocazioni degli anni di Scelba, irruzioni nel Sessantotto, immagini di piazza Fontana…

Storie di lungo e lunghissimo respiro che trasmettono una partecipazione disperata verso il destino (o i destini) degli oppressi e insieme un’energia vitale, libertaria, anarchica. È nella convivenza naturalissima di lirismo, ricordi privati («Mariuccia,/ prim tettin de la mia vita…») e di cronaca pietosa delle nostre tragedie storiche il tratto stupefacente del grande poeta che è stato Loi, senza alcun dubbio uno dei maggiori poeti del Novecento: «O quèla dòna grisa de vigogna,/ cun la veletta, che va cuj man alzà/ e la via Porpora camina ’m’ ind i sogna/ che piassa de Luret la par luntan…». Va con le mani alzate e la via Porpora cammina come nei sogni…

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