Il naufragio delle civiltà [di Leandro Muoni]

maalouf

“Il naufragio delle civiltà” è il titolo allarmante e apocalittico di un recente e importante saggio dello scrittore libanese di lingua francese, e accademico di Francia, Amin Maalouf: uno scrittore e saggista fra i più apprezzati e significativi del nostro tempo, di cui vogliamo citare almeno il suo primo lavoro, tradotto in moltissime lingue, “Le crociate viste dagli arabi”.

Maalouf continua e prosegue la tradizione degli scrittori d’oltralpe del nostro tempo, degli intellettuali-guida del secolo scorso: che da narratori e scrittori à part entière si sono occupati delle grandi questioni storico-culturali della nostra epoca e sono i nostri riconosciuti maitres-à-penser. Come lo sono stati a tutti gli effetti negli annali della letteratura e società italiana contemporanea autori quali Alberto Moravia, Leonardo Sciascia o Pier Paolo Pasolini.

Il titolo del libro di cui ci occupiamo allude a situazioni di apocalisse e finis humanitatis e si inscrive nel genere della “letteratura della crisi”, come i classici saggi “Il tramonto dell’Occidente” di Spengler o “La crisi della civiltà” di Huizinga, che non devono però propriamente considerarsi come opere distopiche ma piuttosto come ipotesi e proiezioni agoniche o nostalgiche di un prevedibile o auspicabile futuro, da contrapporre a quello paventato e da scongiurarsi.

Il discorso di Maalouf si può dire antitetico e complementare o parallelo in qualche maniera al già fin troppo celebre, ma ormai ingiallito e a quanto pare superato dal corso degli eventi, a suo tempo citatissimo saggio di Francis Fukuyama “La fine della storia e l’ultimo uomo”, dove l’autore sosteneva come il processo storico, dopo la caduta del Muro di Berlino e il crollo del comunismo sovietico, fosse con ciò arrivato alla fine o al fine della sua dinamica evolutiva universale e direzionale, avendo raggiunto la sua acme con il trionfo delle democrazie liberali.

Era questa una visione opposta alla concezione ciclica della storia professata in particolare dalla filosofia e storiografia antiche e in età moderna dalla teoria dei corsi e ricorsi di vichiana memoria.

Fukuyama si rifaceva invece ad una concezione irreversibilmente “progressiva” e “progressista”, in parte di stampo illuministico ma senza l’idea di un avanzamento illimitato alla Condorcet, illustrata da quest’ultimo nell’“Abbozzo di un quadro storico dei progressi dello spirito umano”, in parte di tipo idealistico, come nelle “Lezioni sulla filosofia della storia” di Hegel. Lezioni mediante le quali viene perfezionata la concezione di fondo, che passa allora dal principio dello sviluppo lineare tipico del secolo dei Lumi a quello dialettico, più affinato, proprio appunto della riforma hegeliana.

Tornando al testo di Maalouf, incontriamo in premessa la seguente notazione autobiografica: “Sono nato in buona salute tra le braccia di una civiltà morente e per tutta la vita mi sono sentito come un sopravvissuto, senza merito o colpa, mentre tante cose intorno a me scivolavano nel caos”.

Questo caos insiste e grava in particolare sulla sua terra, il Libano, paese del Vicino Oriente che, conquistata l’indipendenza dopo alterne e faticose vicende nel 1946, diventò dopo tale data un centro economico-finanziario e affaristico e godette per circa un ventennio di una prospera condizione di benessere, tanto da venir definito la Svizzera del Medio Oriente, grazie anche al conseguente ancorché fragile equilibrio socio-politico-culturale raggiunto tra le varie comunità etniche e religiose, in specie musulmana e cristiano-maronita.

Dopodiché subentrò una profonda crisi di sistema, l’instabilità politica, la guerra civile, l’infiltrazione e la proliferazione di fazioni e formazioni terroristiche: in una parola il “caos” – per riprendere l’immagine eloquente di Maalouf – fino ad arrivare alla catastrofica situazione delle drammatiche recenti cronache.

Maalouf spiega così la situazione o condizione privilegiata, quasi edenica, della fase pre-caotica: “Sono nato nell’universo levantino. Nel mio uso, questo termine obsoleto, ‘levantino’, si riferisce all’insieme dei luoghi dove le antiche culture dell’Oriente mediterraneo hanno frequentato quelle più giovani dell’Occidente”. Ma poi “Le luci del Levante si sono spente. E l’oscurità si è diffusa in tutto il pianeta. E, dal mio punto di vista, non è una semplice coincidenza”.

Notiamo en passant che viceversa sulla sponda settentrionale dell’Occidente mediterraneo, nell’Italia di ieri, attraverso la pubblicistica corrente e nel lessico dell’intellettualità radical-borghese del Nord, la parola “levantino” era, e ancora oggi è, seppure alquanto desueta o antiquata, e con un sapore vagamente razzista, un’espressione dispregiativa e riduttiva: quasi a marchiare una sorta di vizio di fondo, genetico, in quelle popolazioni del Levante per tanti aspetti così simili agli stessi italiani meridionali, quasi controprova della loro “inferiorità” razziale.

Nel Vicino Oriente di Maalouf, invece, riveste un significato e un valore positivi. Almeno rispetto al periodo dell’infanzia e adolescenza del nostro autore. Ma quali sono le cause storiche che hanno provocato e stanno provocando l’incipiente e imminente “naufragio delle civiltà”? I fronti della profonda crisi e del rovinoso impatto sugli assetti e sugli equilibri planetari prodotti da questo incalzante “naufragio” sono plurali e molteplici. Investono tanto il Nuovo quanto il Vecchio Continente.

Cosa che si può esperire e avvertire a cominciare dalla sorte della culla della democrazia moderna, quella americana. In effetti, quando si guarda a quello che dovrebbe essere e sembra non essere più il prototipo di una “democrazia adulta”, e che addirittura “dovrebbe esercitare sul resto del pianeta un’autorità quasi paterna”, non si pensa forse a buona ragione a un prevedibile destino di “naufragio”?

Infatti, per rendersene conto, basta vedere la condizione attuale degli Stati Uniti: attraversati e scissi da una preoccupante spaccatura politica, sociale e civile senza precedenti, squassati dalla questione razziale, minacciati dalla possibile deprimente perdita del primato assoluto di prima potenza mondiale, inseguita e quasi sorpassata dalla crescita debordante e irrefrenabile del Dragone cinese.

Altre cause sono da ricercarsi ancora una volta in Europa. Maalouf si domanda che fine abbia fatto il prestigio morale dell’Europa. E qui allega a riprova il caso della Gran Bretagna, che “ha deciso di lasciare l’Unione”, intaccando le basi della coesione europea, coesione aggredita e complicata dalla proliferazione  ed estensione dei cosiddetti sovranismi e populismi.

La situazione geopolitica del mondo, aggravata dall’emergenza climatica e dal rischio di disastro ambientale, mostra tutte le sue criticità, e “mentre l’utopia comunista sprofonda negli abissi, il trionfo del capitalismo è accompagnato da un’oscena esplosione di disuguaglianza”. A ciò si aggiungono, secondo certe analisi internazionali, le inquietanti manovre di destabilizzazione planetaria più o meno occulte da parte degli attori e dei poteri forti di un preordinato cosiddetto “Nuovo Ordine Mondiale”.

Ma in ultima analisi l’epicentro, anzi il prodromo e il primordio di questa crisi globale dalle proporzioni catastrofiche sarebbe situato, secondo il punto di vista del nostro autore, soprattutto nel Medio Oriente: “Il ‘mio’ universo levantino è stato il primo ad affondare”.

Tutto ciò – si interroga Maalouf – è accaduto forse perché e allorché “la ‘mia’ nazione araba è stata quella la cui angoscia suicida ha portato l’intero pianeta dentro un ingranaggio distruttivo?”

L’inizio della fine sarebbe cominciato in Egitto, luogo o meglio “casa adottiva” della famiglia materna dello scrittore: già autentico “paradiso terrestre” della tolleranza e della civile convivenza delle storiche diversità.

Qui le cose principiarono a peggiorare ai tempi di Nasser, grande leader della “nazione” araba e fautore del panarabismo. Attraverso la sua azione in Egitto a favore della decolonizzazione e dell’autodeterminazione dei popoli, l’acclamato condottiero del riscatto popolare musulmano trovava un alleato involontario e oggettivo in Churchill, che in Medio Oriente avrebbe provocato di lì a poco l’emersione del “fanatismo arabo nella sua versione autoritaria e xenofoba”, per reazione locale alla condotta strategica dello stesso statista britannico nei confronti dello scacchiere mediorentale.

Quel Churchill che in seguito avrebbe aperto pure “con la sua azione in Iran la strada all’islamismo khomeinista”. Egitto ed Iran che si distinsero e continuano a distinguersi per le politiche ostili ed epurative delle minoranze non musulmane.

A proposito di queste politiche ostili ed epurative che generano fatalmente derive recessive sul piano socio-culturale e soprattutto economico-politico, l’autore ricorda i precedenti storici che ebbero effetti infausti sull’economia degli stati che adottarono simili provvedimenti discriminatori e persecutori o xenofobi: come il massacro e la cacciata degli Ugonotti dalla Francia dopo la revoca dell’Editto di Nantes, nel 1685. Oppure l’espulsione dei musulmani e degli ebrei dalla Spagna da parte dei re cattolici, dopo la presa di Granada, nel 1492.

Espulsioni che produssero fenomeni conseguenti di relativa decadenza, impoverimento e arretratezza nei rispettivi stati di afferenza. Tuttavia non ci sembra peregrino e fuori luogo considerare il fatto, a vedere la cosa da un punto di vista meramente e asetticamente sociologico, che quelle minoranze, che finirono per essere oppresse, perseguitate e cacciate, costituivano nei paesi di stanza e di riferimento una vera e propria avanguardia culturale e socio-economica.

Non erano in altre parole, come nel caso attuale – lo diciamo senza dare adito con ciò ad alcun sospetto o sottinteso di pregiudizio “classista” o gratuitamente “elitista” – per lo più masse eterogenee, fatta esclusione da tale novero dei profughi e rifugiati politici portatori di un valore aggiunto in virtù della loro opposizione alle dittature o delle loro subite discriminazioni nei paesi d’origine e della loro risentita coscienza civile; masse eterogenee – si diceva – di irregolari diseredati (altrimenti detti con scandalo dei benpensanti: gli “scarti”, gli “ultimi”, i “dannati della terra”), di migranti cosiddetti economici o climatici, in fuga dal pandemonio africano, per lo più privi di mezzi di sussistenza al di fuori del vigore delle proprie braccia, spesso inutilizzate se non dirottate, quando non impiegate in lavori rifiutati dagli italiani, su attività illegali o addirittura terroristiche, qual è in parte lo status (il discorso non riguarda evidentemente gli occupati e gli integrati, anche se la piena occupazione e integrazione dovrebbe riguardare tutti i soggetti interessati, in un paese civile ed evoluto); lo status – insomma – non sempre socialmente sostenibile delle attuali migrazioni e iniezioni di diversità nell’Occidente europeo.

Questo per dire che le due realtà storiche che abbiamo confrontate non sono equiparabili da un punto di vista dei parametri socio-economico-culturali della crescita e dello sviluppo.

Senza alcuna intenzione di disattendere o trascurare il principio costituzionale dell’accoglienza, il discorso sulla tenuta e prosperità delle nazioni (non necessariamente aderendo alla lettera agli assunti “egoistici” della “ricchezza delle nazioni” di smithiana memoria), il discorso – dunque – da farsi sulla tenuta e prosperità delle società e degli stati multietnici e multiculturali ci sembra forse un po’ più complicato.

In buona sostanza, tornando al punto, sembra che Maalouf intenda sostenere e asseverare che le società “composite” siano più prospere di quelle “omogenee”. Per dirla altrimenti: la superiorità delle “nazioni arcobaleno” s’imporrebbe su quelle “monocromatiche”.

Ma alla luce o meglio all’ombra dei precedenti storici negativi, alla prova dei fatti le “nazioni arcobaleno” sembrano in verità essere state ed essere sovente anche le più fragili, precarie, esposte e vulnerabili.

Fu così che l’Egitto cessò in breve di essere quel nido, quell’armonioso mosaico o meglio quel crogiolo d’accoglienza, per divenire luogo di esclusione ed espulsione delle minoranze e delle stesse comunità cosiddette “egizianizzate”.

Il rais Nasser, che pure inizialmente era stato salutato come un “liberatore” dalla coscienza etico-politica delle masse e degli intellettuali arabi, aveva pronunciato la “condanna a morte dell’Egitto cosmopolita e liberale”.

Condotta opposta viceversa sarebbe stata quella di un altro carismatico leader africano, Nelson Mandela, il quale non appena diventato presidente del Sudafrica, dopo aver vinto la lotta antisegregazionista a favore questa volta della maggioranza “nera” della sua nazione, “fece tutto il necessario per incoraggiare i suoi nemici e la minoranza bianca, gli afrikaner di un tempo, a non lasciare il suo paese”. E tuttavia  si potrebbe eccepire che nemmeno la condizione dell’attuale Repubblica del Sudafrica sia ancora del tutto tranquilla e bilanciata dal punto di vista della pacificazione delle diverse etnie.

Ma, ritornando sui nostri passi, ormai col passare degli anni la terra libanese subiva sempre più le pressioni della Repubblica Araba Unita e diventava un “campo aperto”, dove avvenivano scontri tra varie forze in lizza: “tra russi e americani, tra israeliani e palestinesi, tra siriani e palestinesi, tra siriani e israeliani, tra iracheni e siriani, tra iraniani e sauditi, tra iraniani e iracheni, tra iraniani e israeliani”.

Fu l’ora del “decadimento materiale sconfortante”. Si riaccesero ed esplosero le rivalità e il sospetto fra le tre principali confessioni monoteistiche. E’ a questo punto che l’autore non riconosce più “l’età dell’oro della sua giovinezza”.

Ma la data assiale della grande crisi del Medio Oriente è il 1967, a seguito della guerra arabo-israeliana sollecitata e patrocinata da Nasser e della vittoria tanto inopinata quanto travolgente delle truppe della Stella di Davide sulla numericamente poderosa coalizione nemica. “Sarei quasi tentato – confessa Maalouf – di scrivere nero su bianco: la disperazione araba è nata il 5 giugno 1967”.

Un conflitto, un confronto armato che sembrerebbe potersi iscrivere di diritto e assimilare in qualche modo alla successiva teoria di Samuel Huntington dello “scontro delle civiltà”, dove peraltro si affronta il tema del contrasto e antagonismo fra la civiltà occidentale e le altre, specie quella islamica, tra “guerre di transizione” e “guerre di faglia”, con sullo sfondo lo spettro del “declino dell’Occidente” e le probabili ipotesi circa il “Nuovo Ordine Mondiale”.

La guerra arabo-israeliana – dicevamo. All’indomani della sconfitta araba, sorge dalle braci e dalle ceneri del conflitto una nuova realtà politico-religioso-militare foriera di tempesta: il movimento armato palestinese, che si espanderà ben presto a macchia d’olio oltre ogni limite, e che in prima battuta “cerca di affermarsi in due paesi confinanti con Israele: Libano e Giordania”.

Entrano così in gioco i fedayyn dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina e il loro capo Arafat, la cui azione avrebbe rapidamente acquisito una controversa visibilità sulla scena internazionale.

Il Libano si trasforma ben presto da “Eldorado” della tolleranza in una zona di turbolenze e violente frizioni di ogni genere, aperta “a tutti i venti e le bufere”. La sua capitale, Beirut, dove peraltro si era creato in precedenza un nucleo propulsivo di attività artistiche e culturali operante anche al di fuori dei confini del paese, diventa   un centro nevralgico, il groviglio dei nervi scoperti e dolorosi di tutto il Medio Oriente ma anche dell’intero Mondo.

Resta nell’animo del nostro autore il seguente cruccio o rammarico, oltre che una tentazione, quella della storia riscritta con i “se”. Ovvero: se il modello “levantino” avesse avuto successo, magari “le società arabe e musulmane si sarebbero evolute in modo diverso”. E forse “anche l’intera umanità avrebbe seguito un’altra strada rispetto a quella di oggi, che ci porta diritti verso il naufragio”. Maalouf si chiede anche “se i paesi arabi o musulmani si sarebbero evoluti in maniera migliore nel caso che i partiti comunisti avessero svolto un ruolo più importante”. E così si risponde: “Io non credo, sono persino convinto del contrario”.

A questo punto, l’autore afferma e ribadisce a mo’ di corollario la sua simpatia e solidarietà nei confronti delle minoranze, deprecando le oppressioni e le angherie perpetrate nei loro confronti: “In una società in cui le minoranze soffrono discriminazioni e persecuzioni, tutto è corrotto e perverso”. In queste circostanze, svanito il “suo” modello “levantino” di coabitazione etnico-culturale, politico-religiosa e linguistica, il nostro esule o fuoriuscito lascia il proprio paese con la morte nel cuore: “Il giorno in cui ho lasciato il Libano in guerra su una barca di fortuna, nel giugno 1976, tutti i sogni del mio Levante natio erano già morti, o stavano morendo”. Quello che lo scrittore viene allora maturando nella sua “diaspora” è la nozione di Zeitgeist, ovvero lo “spirito del tempo”.

Capire qual è lo spirito del proprio tempo è condizione essenziale per intuire la “congiunzione fra gli eventi”. Maalouf si rende conto di essere entrato in un’era radicalmente “paradossale”, in cui “la nostra visione del mondo sarebbe stata trasformata o addirittura completamente stravolta”. Da allora si sarebbe infatti consumato il seguente paradosso: ”il conservatorismo si sarebbe preteso rivoluzionario, mentre i sostenitori del progressismo e della sinistra non avrebbero avuto altro scopo che la conservazione dello status quo”.

Esempi ed emblemi dell’”anno del capovolgimento” nella storia universale sono soprattutto due, e risultano particolarmente paradigmatici: si tratta della rivoluzione islamica dal carattere totalitario e conservatore proclamata in Iran dall’ayatollah Khomeini nel febbraio 1979; e della rivoluzione liberistica ma al contempo anche d’impronta autoritaria e conservatrice attuata nel Regno Unito dal primo ministro Margaret Thatcher, nel maggio 1979.

Queste due rivoluzioni tra loro del resto totalmente incomparabili diedero impulso, la prima, alla “radicalità corrosiva “ che si diffondeva allora nel mondo musulmano, e la seconda, al sistema cosiddetto del thatcherismo e della reaganomics, caratterizzato fra l’altro dalle politiche liberistiche di riduzione della spesa pubblica, dalle riduzione delle imposte, dal minore o nullo intervento dello Stato, dalle teorie e pratiche di orientamento monetaristico, dalla deregolamentazione eccetera.

Rivoluzioni islamista e liberista appaiono dunque per motivazioni simmetriche entrambe conservatrici.

A questi due esempi, tra loro differenti eppure appaiati “nel” e condizionati “dal” medesimo “spirito del tempo”,  Maalouf affianca altre due manifestazioni sincroniche dello stesso clima e ordine temporale: la “rivoluzione conservatrice” al vertice del partito comunista cinese, con l’ascesa al potere di Deng Xiaoping nel 1978, che   creava un modo di vivere freneticamente “produttivistico” del popolo più numeroso del mondo, “basato   sulle tradizioni commerciali radicate da secoli nel popolo cinese”. L’altro evento notevole è quello che “ebbe luogo a Roma nell’ottobre 1978 con l’arrivo di Giovanni Paolo II alla guida della Chiesa”.

Questo papa univa il suo “conservatorismo sociale e dottrinale a una combattività da leader rivoluzionario”. Il nostro autore cita anche un evento che riguarda la storia italiana, descrivendolo come “un’ulteriore ‘delusione’ per i sovietici”: l’assassinio di Aldo Moro.

Come si apprende peraltro dall’acuta e inquietante analisi “a caldo” di Leonardo Sciascia, “L’affaire Moro” resta ancora un mistero oltre che costituire, nelle meticolose, asciutte e taglienti pagine del grande scrittore siciliano, un’indagine istruttoria intorno alla verità documentaria e una denuncia implacabile della codardia e conformismo italici. Il dibattito al riguardo non è ancora o forse mai sarà chiuso. “L’obiettivo dei terroristi – scrive Maalouf – era impedire al partito cattolico di legittimare i comunisti e così aprire loro la strada al potere? O, al contrario, impedire ai comunisti di rammollirsi e tradire così gli ideali del marxismo-leninismo?”

Secondo il nostro autore si trattò in ogni caso dello scacco di una “promettente utopia”: quella della prospettiva in cui “il capitalismo e il comunismo anziché continuare a combattersi si avvicinassero”.

Ma al posto invece delle grandi narrazioni più o meno progressiste e generaliste, sembra prevalere invece nel mondo di oggi un racconto fatto di tasselli isolati e rivendicazioni etno-identitarie, orgogliosamente fondate sul proprio “particulare”.

“La tendenza alla frammentazione e alla tribalizzazione – conferma Maalouf – è presente ovunque”, a livello planetario e globale: dagli Stati Uniti (o Disuniti?) alla Vecchia Europa, al vario pullulare di movimenti cosiddetti “sovranisti e populisti” che investono ormai il decrepito Occidente.

Spostando qui l’attenzione su un tema collegato al sovranismo e al populismo, il tema migratorio, più che mai di stretta attualità, vorremmo considerare da parte nostra una complementare complicanza della questione: quella del diritto all’emigrazione, che si traduce in continuative iniezioni, o come spesso si dice (più o meno verosimilmente) da parte dei filo-immigrazionisti, di importazioni di “risorse” o secondo gli anti-immigrazionisti (più o meno allarmisticamente) di pesanti “fardelli”, “invasioni” striscianti, potenziali “sostituzioni etniche” (ma esistono autorevoli testimonianze prefiguratrici di questo possibile scenario e di questa probabile evenienza: “Invaderemo le vostre terre coi ventri delle nostre donne”, disse riferendosi all’Occidente europeo il presidente anticolonialista algerino Ben Bella nei giorni della lotta per l’indipendenza del suo Paese); di iniezioni – dicevamo – di energie demograficamente giovani e fresche apportate sui nostri lidi, afflitti da denatalità, dai flussi migratori, specie provenienti dal Continente Africano e dal Medio Oriente, con i quali dobbiamo comunque rapportarci. Ancora una volta e sempre siamo in presenza dei segni dello “spirito del tempo”.

L’autore si chiede a questo punto se esista un’incoerenza, discrepanza o incongruenza fra l’attuale paradigma della globalizzazione e la polverizzazione delle spinte e pulsioni identitarie in atto sul pianeta. E se tutto ciò non sia magari esplicabile e giustificabile in qualche maniera secondo le regole sottese all’ideologia della cosiddetta “mano invisibile” di smithiana memoria, cioè la mano operante nel naturale accordarsi alla “somma algebrica” degli egoismi politici diffusi su scala planetaria, che pareggerebbe risolvendola e dissolvendola la supposta o postulata incongruenza cui sopra si faceva cenno. La diagnosi di Maalouf in proposito è infausta.

In verità – rincariamo da parte nostra – questa qualità ottimistica, progressistica e provvidenzialistica della “mano invisibile” e della sua naturale funzione autoregolatoria dei singoli “egoismi” sembra sostanzialmente smentita dai fatti. Nel senso che non sana le contraddizioni ma anzi le accentua. Anche se continua formalmente a esercitare l’influenza della sua reputazione, a essere in certe sedi invocata, predicata e giustificata.

Le pretese egemoniche dei tradizionali attori protagonisti sulla scena mondiale: ovvero l’America in apparente o temporaneo ripiegamento isolazionistico e, a seguire, la Russia e soprattutto la Cina in fase suprematistica crescente, mostrano segni di precario equilibrio omeostatico, specie ora che l’esplosiva espansione del potere economico cinese sembra sparigliare le carte e piegare a suo asimmetrico favore l’effetto della mano provvidenziale.

E poi ci sono gli appetiti tutt’altro che tra loro compensativi, regolativi e remunerativi di altre potenze “minori”, le quali si fronteggiano aspramente a vicenda senza provvidenziali “contrappesi”, mentre “ambiscono ad avere un ruolo di primo piano a livello mondiale o territoriale” e “prendono parte alla corsa agli armamenti”: come “l’India, il Pakistan, la Turchia, l’Iran e Israele, senza dimenticare la Francia, la Germania, le due Coree o il Giappone”.

In questo quadro di risalto internazionale, con connotati propri e specifici, si inserisce per altro verso pure la sconcertante vicenda delle cosiddette “primavere arabe”, che da fervide promesse della vigilia ossia di rinnovamento radicale della coscienza e dell’identità dei popoli nordafricani e mediorentali nel senso delle libertà civili e politiche, si sono trasformate nel loro opposto, cioè a dire in torsioni aggressive, autoritarie e antidemocratiche.

Mai come oggi “le violenze identitarie hanno avvelenato l’atmosfera dell’intero pianeta”. Ma “in un mondo dove il fermento identitario prevale, ognuno è per forza un traditore agli occhi di qualcun altro”. Soprattutto l’uniformità è gelosa dei suoi valori (o disvalori), e nondimeno “l’omogeneità è una chimera costosa e crudele”.

Maalouf predica dunque la coabitazione, la coesistenza pacifica, il dialogo: “Non smetterò mai di combattere l’idea secondo cui le popolazioni che hanno proprie lingue e religioni farebbero meglio a vivere separatamente”. “Mai accetterò il fatto che l’etnia, la religione o la razza costituiscano fondamenti legittimi sui quali costruire delle nazioni”.

Lo scrittore cita in proposito i versi ispirati di un “poeta arabo sconosciuto nato in Spagna nel XI secolo”, che piacerebbero molto ai “francescani” di oggi: “Se sono fatto di argilla,/ La terra tutta è il mio paese/ E tutte le creature sono miei parenti”.

In effetti il problema capitale dell’epoca presente è questo: come attuare una concordia fra i popoli e assicurare il rispetto delle minoranze, come favorire la loro coabitazione senza rinnegare, calpestare, revocare i diritti naturali dei rispettivi vissuti storici, ma senza pregiudicare nemmeno le legittime aspettative delle maggioranze e le sacrosante aspirazioni di tutti a non vedersi sottomessi e fagocitati da un Grande Fratello, secondo la classica profezia orwelliana.

Oggi paradossalmente e a dispetto delle sue fragilità e debolezze una potenziale uscita di sicurezza dall’antinomia letale di globalismo e separatismo identitario può essere esperita solo dall’Europa. Il “paradiso terrestre” nella dimensione storica potrebbe in verità essere incarnato e attuato unicamente dall’Europa. Strana l’asserzione di una simile fiducia, quando la maggior parte degli analisti prevede per i prossimi anni un declino inarrestabile riguardo alle sorti del Continente europeo. E lo stesso autore sembra non escluderlo o magari non volervisi rassegnare.

“Perché l’Europa?” si chiede Maalouf. “In effetti – ammette lo scrittore – essa non è il ‘candidato naturale’ per questo ruolo”. Un simile compito “a rigore di logica dovrebbe spettare piuttosto agli Stati Uniti”. Ma oggi gli States attraversano una crisi insidiosa.

Un errore storico della prima superpotenza mondiale sarebbe stato quello di non aver sostenuto il tentativo di transizione ad una società orientata verso la “liberalizzazione politica”, ravvisabile nel “cambiamento avviato da Gorbacev” all’indomani della caduta del Muro di Berlino nel 1989.

Risoluzione che sarebbe invece stata consigliabile e raccomandabile anche in virtù dell’”amore profondo per il popolo russo, la sua cultura, la sua letteratura” coltivato dall’Occidente e dalla sua cultura per quella parte del Vecchio Continente che si estende  dai confini dell’Unione Europea fino agli Urali.

Secondo il nostro autore, gli Stati Uniti sarebbero dovuti diventare per tutti i paesi del mondo una specie di superpotenza “genitoriale”. Qualche malizioso commentatore potrebbe magari a questo punto sospettare i segni distintivi di una concezione dal sapore paternalistico. Ma resta il fatto che il Paese a stelle e strisce non si sarebbe dimostrato all’altezza della sfida. E così il mondo, come il superbo e temerario ma vulnerabile Titanic, sarebbe avviato pericolosamente a impattare contro l’Iceberg della storia.

L’idea di Maalouf è che l’Europa meriterebbe nonostante il suo relativo sfaldamento, confermato dal recente varo della Brexit, e dalle ripetute posizioni critiche nei confronti dell’Unione Europea assunte da parte degli stati di orientamento sovranista; meriterebbe – dicevamo – di vedersi riconosciuta questa funzione e questo compito di “genitorialità” planetaria, questo ruolo di esemplarità a livello mondiale.

Tutto ciò proprio per il fatto che “la sua scienza è diventata la scienza, la sua tecnologia è diventata la tecnologia, la sua filosofia è diventata la filosofia, e che la sua concezione dell’economia non ha più rivali credibili”.

Ma l’Europa pare non sapere “interpretare fino in fondo un simile modello di riferimento”.

L’Europa non ha saputo creare un sistema federale compiuto sul modello statunitense, ma è rimasta un “ibrido”: non “unione vera” ma “semplice zona di libero scambio”.

L’imperativo è dunque di creare tale sistema federale. Perché fino a ora il sistema vigente ha dimostrato “sia un eccesso di democrazia”, “concedendo a ogni stato il diritto di veto”, “sia un deficit di democrazia”, “scegliendo di conferire il potere a commissari nominati dagli stati, invece che a un governo europeo eletto direttamente dai cittadini dell’Unione”. Solo così, nel segno di un rinnovato anzi innovativo impulso federalistico europeo, potrà essere scongiurato l’imminente e sovrastante “naufragio delle civiltà”.

Ma l’Europa di domani mattina sarà ancora in grado di reagire, sarà pronta a svolgere degnamente e adeguatamente questo compito salvifico?

Lascia un commento