Note a margine delle Lettere dal carcere pubblicate di recente da Einaudi a cura di Francesco Giasi [di Umberto Cocco]

Antonio Gramsci mette la rivoltella sul tavolo, in bella vista e a portata di mano, è un pomeriggio della primavera del 1921 e nel suo ufficio dell’«Ordine nuovo. Quotidiano comunista» del quale è direttore, sta per materializzarsi una singolare minaccia, che ha fatto mettere agli operai del servizio d’ordine, all’ingresso del palazzo, i cavalli di frisia, e consigliato a lui di tirar fuori l’arma dal cassetto.

Sono annunciati una giovane donna con una bambina al collo, la sua anziana madre e un fratello, questi armato di «un bastone grosso come un paracarro», che hanno fatto il diavolo a quattro per strada chiedendo di vedere il direttore. Vengono da Cagliari in cerca dell’uomo che ha messo incinta la ragazza ed è sparito. Hanno scoperto dopo la nascita della bambina che è a Torino, dove sarebbe diventato direttore di un giornale.

Ma evidentemente il Gramsci che cercano non è quello che si trovano davanti,  è il fratello Gennaro – Nannaro – amministratore del quotidiano e che appena ha sentito il trambusto in strada ha pensato di lasciare la redazione. La storia la racconta lui, Antonio, in una lettera alla mamma  sinora sconosciuta, dell’aprile del ’29, una delle quattro inedite pubblicate nell’edizione delle Lettere dal carcere uscite di recente per Einaudi nella collana I millenni, a cura di Francesco Giasi (che è anche il direttore della Fondazione Gramsci onlus)

In quel modo rocambolesco il fratello minore alle prese con ben altri problemi, nella Torino del 1921, scoprì l’avventura cagliaritana di Nannaro  – «un tale animale» scrive alla madre. Ed è a lui che toccò invece di sistemare le cose, si fa per dire. Fece fare a Gennaro il riconoscimento della figlia – Edmea – e trovò un’occupazione a Torino alla giovane mamma, Rina Bonaria, che lasciò Cagliari, la Manifattura tabacchi dove lavorava, per impiegarsi in un calzaturificio.

Gennaro tenne con sé Edmea per un breve periodo, poi la affidò ai suoi a Ghilarza, i nonni della piccola, cioè, e alla zia Grazietta, sua sorella. Poi sparì, lasciando Torino e l’Italia. Ricomparve  in Belgio alcuni anni dopo e Antonio – dal carcere – gli fece promettere di scrivere, almeno ogni tanto, una lettera alla figlia.  Edmea –  Mea – diventò una delle nipoti più amate dallo zio, quella verso la quale egli usò più premure, ovviamente da lontano, dal carcere. La sua storia, la madre perduta, Nannaro in fuga, è stata evidentemente anche una pagina drammatica per la famiglia, tenuta sinora sempre riservata.

Gramsci ne racconta quel capitolo alla mamma, scrivendole dal carcere di Turi, quando sono passati otto anni dall’episodio di Torino. Il racconto è disteso, ironico, divertente, se non fosse per la separazione di Edmea dalla madre che nel frattempo aveva preso marito a Torino, e dal padre, a sua volta sposato e con figli, sospetta Gramsci. Il quale rivela nella stessa lettera come Rina Bonaria gli avesse chiesto, di nascosto dai suoi quel pomeriggio al giornale, di aiutarla a scappare da Cagliari per sfuggire ai maltrattamenti che subiva in casa, e con lei forse ne era vittima la stessa bambina, secondo le impressioni dello zio.

Anche per tutto questo passato Mea è sempre rimasta al centro delle preoccupazioni di Gramsci, e lo è – ancora – nelle altre due delle quattro lettere pubblicate ora per la prima volta. Attento alla sua formazione, a come cresce, agli errori di ortografia che le rimprovera attraverso la mamma, Antonio scrive a quest’ultima che vorrebbe mandare alla nipotina – arrivata alla terza elementare – il Vocabolario della lingua italiana del Petrocchi e una serie di altri libri.

Avendo ricevuto una foto della bambina, è curioso di sapere «chi sono le due giovinette amiche» che compaiono al suo fianco. Tira a indovinare e a intuire le fisionomie, le famiglie di provenienza. Chiede se «vive ancora qualcuno dei grandi uomini e grandi donne di Ghilarza», li cita per soprannome: «Non dimenticherò mai Corroncu, tiu Salomone, tia Juanna Culemontigu, Brisi Coeseda Illichidiu, tiu Micheli Bobboi, tia Alene e compagnia bella». E «Il capostazione Spada è quello che chiamavano Conca e fresa, non è vero?», chiede.

Nella nota del libro che traduce e spiega questi soprannomi dialettali, ”Conca ‘e fresa” significherebbe ”testa di formaggio”. C’è però qui un inciampo per il lettore sardo. ”Conca ‘e fresa” significa in realtà ”testa di pane”, nel senso di ”pane carasau”, nome col quale è forse più largamente conosciuta ”sa fresa”, che è così chiamata in una larga fascia della Sardegna centrale, dunque anche a Ghilarza. (”Carasare”  significa biscottare, fare la crosta, il sardo ”fresare” in italiano è fendere, schiacciare, che è la lavorazione che rende rigido quel pane, arido, dopo che lo si è fatto gonfiare come una palla e, aperto, tagliato in due sfoglie sottili, rimesso nel forno. ”Omine fresàdu” è in alcuni dizionari uomo rozzo, contadino.

Ancora oggi i soprannomi ”Conca ‘e fresa”, ”Fresa”, sono in uso in quegli stessi paesi per alludere a rigidità, aridità, a personalità che si spezza ma non si piega. Non alla ”fresa” nel senso di formaggio, che pure esiste, un formaggio  prevalentemente vaccino, a pasta molle, la forma schiacciata, prodotto in questa area geografica e linguistica e chiamato ”sa fresa ‘e atonzu”, formaggio d’autunno. Senza questa specificazione, ”de atonzu”, ”fresa” è sempre il pane, mai il formaggio. Poteva al limite essere riportata questa ipotesi ma insieme a quell’altra, assai più propria).

Inaspettatamente per una edizione delle Lettere così riccamente confezionata, ci sono una decina di altre note variamente imprecise, o esageratamente scarne o a volte ridondanti. Riguardano tutte il sardo che Gramsci usa, la Sardegna della quale chiede notizie e chiarimenti. Una bella occasione per riflettere su questo Gramsci, il ”Gramsci sardo” che venne in parte alla luce con la biografia di Giuseppe Fiori a metà degli anni ’60.

Come se questa dimensione del grande intellettuale ghilarzese – il suo villaggio, la Sardegna, con la lingua, la cultura, le tradizioni popolari, le persone che costituivano il suo mondo – non venisse ancora trattato con l’accuratezza e lo scrupolo riservati al pensatore e  dirigente politico, al rivoluzionario che – secondo una certa vulgata – si è emancipato a Torino.

Eppure quello che scrive le lettere dal  carcere, tornando spesso alla Sardegna, è lo stesso Gramsci, in possesso di una cultura vastissima, che tratta il piccolo mondo delle sue origini e i fatti e le persone che lo riguardano con una precisione identica a quella che riserva al resto dei suoi interessi. Anche nelle lettere che scrive ai suoi con apparente frivolezza per tranquillizzarli sulla sua condizione di carcerato, anche quando gioca con loro, racconta favole per i figli e i nipoti, traduce quelle dei fratelli Grimm, rievoca la campagna, gli animali, le erbe, le fonti d’acqua del territorio di Ghilarza, i canali che confluiscono nel Tirso…

Esagera, persino, con lo scrupolo: come quando rimprovera alla povera cognata Tatiana, in una delle prime lettere dal carcere di San Vittore, marzo 1927, «errori» d’italiano, lei russa di nascita e di famiglia («studio anche queste piccole cose, sai», le scrive). E un altro «errore» ancora le fa rilevare nella stessa lettera: «Una confusione imperdonabile tra il Sant’Antonio di Padova che ricorre nel mese di giugno e il S. Antonio comunemente chiamato del porco, che è proprio il mio santo, perché sono nato il 22 gennaio, e al quale tengo moltissimo per tante ragioni di carattere magico». Anche se alle rimostranze di Tatiana per questi rilievi, risponde un mese dopo: «Ma come tu non capisci che io spesso voglio scherzare e mi rispondi seria seria?»

Ma è lo stesso rigore che pretende da sé. Scrive – e pretende anche dagli altri –  un sardo inappuntabile, nella lingua sua e dei suoi. Del resto è studioso di linguistica, glottologia, filologia, sin dall’università, a Torino. I suoi professori (Bartoli prima di tutti, e Cosmo) l’avrebbero volentieri indirizzato alla carriera accademica. Per Bartoli, fondatore della neolinguistica, il giovane sardo aveva redatto la dispensa del corso di glottologia – come scrive il linguista Giancarlo Schirru, dell’Università di Napoli l’Orientale, citato nella nota a pag. 77 (e non 78 come nell’indice dei nomi).

Uscito dal pessimo ginnasio di Santulussurgiu, Gramsci già al liceo a Cagliari aveva avuto come docente di greco e latino Francesco Ribezzo, arrivato in Sardegna dopo avere insegnato a Palermo, e che pochi anni prima aveva partecipato al concorso per la cattedra di glottologia nel capoluogo piemontese vinto da Bartoli. E’ una interessante pagina della formazione di Gramsci quando ancora era in Sardegna.

L’allievo traccerà del suo docente qualche anno dopo questo ritratto non benevolo nei Quaderni del carcere: «Il Ribezzo non ha alcuna capacità scientifica: quando lo conobbi io, nel 1910-11 aveva dimenticato il greco e il latino quasi completamente ed era uno ”specialista” di linguistica arioeuropea». A Palermo il professore era  stato testimone dell’uccisione di un collega da parte di uno studente, ma ”lo scandalo” secondo Gramsci – forse semplicemente il fatto che abbia testimoniato – lo fece trasferire a Cagliari, dove entrò in conflitto con gli studenti, subì l’aggressione di uno di loro, detestato forse solo perché in cinque soltanto passarono l’esame di latino in seconda liceo e solo nove vennero ammessi in terza.

Ribezzo entrò dopo anche in forte dissenso con Bartoli, del quale Gramsci era diventato allievo. Fece alcune ricerche non fortunate e non riconosciute, compresa una raccolta di etimologie sarde pubblicata nel 1911. Ma ha lasciato studi che la linguistica ancora apprezza, nella dialettologia italiana, nell’indoeuropeistica, soprattutto nello studio delle lingue dell’Italia antica.

E se Gramsci fu sempre tra i promossi al liceo, con otto in greco e latino, e poi superò brillantemente l’esame che gli fece guadagnare la borsa di studio, l’accesso al collegio Carlo Alberto di Torino e all’università dove scelse subito glottologia, finendo con il prendere il solo trenta e lode della sua breve carriera universitaria, non fu di certo indifferente l’insegnamento di Ribezzo. (si veda in proposito Giancarlo Schirru, Antonio Gramsci studente di linguistica, in «Studi storici Rivista trimestrale dell’Istituto Gramsci», LII. 2011)

Con il professore del liceo prima, e poi a Torino, il giovane ghilarzese studiava lingue e dialetti a un livello di precisione che man mano  diventarono metodo, modello della disciplina assoluta che poi cercò di riprodurre in carcere, intestardendosi a riprendere il costume dello studioso, del glottologo.

Continuava ad approfondire in cella, perché  – scrive in una lettera a Tatiana nel 1927  – non gli era sufficiente «sapere quanto bastava  per parlare e specialmente per leggere(…) dopo il tedesco e il russo, l’inglese, lo spagnolo e il portoghese che avevo studiacchiato negli anni scorsi; inoltre il rumeno, che avevo studiato all’università solo nella parte slava». Di tutte si faceva mandare i dizionari, le grammatiche storiche. Studiava le trafile etimologiche, le fonologie, le morfologie delle lingue e dei dialetti.

Il sardo era ovviamente fra questi: gli era stato assegnato come oggetto di ricerca all’università, e non era ”solo” il sardo che invitava i suoi a insegnare ai nipoti, a lasciar usare con piena dignità di lingua, senza subalternità all’italiano. Chiedeva ai suoi a Ghilarza  – già quando era ancora a Cagliari al liceo Dettori, e poi l’avrebbe fatto da Torino e ancora riprendendo la materia in cella, e lo chiedeva con precisione – il significato dei nomi sardi, la loro versione campidanese e quella logudorese, le due principali varianti – meridionale e settentrionale – dell’isola; come si scrivevano, come si pronunciavano, indicava i segni con i quali distinguerne la pronuncia a volte diversa tra un paese e l’altro.

Raccomandava scrupolo e rigore massimo alla mamma, al padre, alla sorella Teresina, chiedendo loro queste informazioni, invitandoli a rivolgersi a persone che conoscessero e praticassero il sardo in quelle varianti specifiche.

Scrive nel 1912 da Torino, al padre, a Ghilarza: «Mando una lista di parole: qualcuno si incarichi di voltarla in sardo, però nel dialetto di Fonni (informandosi da qualcuno si può sapere con precisione) segnando chiaramente, così l’ che si pronuncia dolce come in rosa (italiano) e s quello che si pronuncia sordo come in sordo stesso (italiano). Prego di non sbagliare»

E’ a questo Gramsci che si corregge nelle note del libro la ”musca maghedda” citata in una lettera alla mamma del giugno del 1927 – letteralmente ”la mosca che macella”, o ”mosca macellaia”,  protagonista di una favola molto diffusa in Sardegna  – che diventa nella nota del curatore (a pag. 121) «sa ”muska magèdda” o ”macèdda”». Come se Gramsci avesse sbagliato a scrivere o avesse scritto in un gergo sconosciuto o di minor rango rispetto alla variante preferita dal curatore, che però non spiega la scelta di quella campidanese meridionale.

È fra l’altro la forma che adotta Gino Bottiglioni in Leggende e tradizioni di Sardegna uscito nel 1922, e a seguire da altri e che però Gramsci non riprende, sapendo benissimo come si dice e si scrive dalle sue parti, a Ghilarza  e in tutta la Sardegna centro settentrionale e comunque ancora oggi, e cioè ”musca maghedda”.  Così inequivocabilmente, ”musca maghedda”, scrive anche la nipote di Gramsci, Mimma Paulesu  nel suo Le donne di casa Gramsci, nel quale racconta delle favole ascoltate in famiglia, e che nella nota al volume Einaudi è impropriamente chiamata a sostegno della versione ”muska mascedda” o ”macèdda”.

Nella stessa nota il curatore racconta anche che a Bidonì (e chissà perché Bidonì, fra i tanti) «piccolo paese vicino a Ghilarza, c’è una favola sulla ”muska magèdda”  (ancora! ndr),  ma diversa da quella raccontata da Gramsci». Sarà pure, ogni paese ha versioni differenti di una stessa favola, ma anche a Bidonì ”sa musca maghedda” è ”musca maghedda”, non ”muska mascèdda” o ”macèdda”.

Qui viene tra l’altro sostituita la lettera c di ”musca” usata da Gramsci (almeno nella trascrizione che viene riportata della sua lettera) con la k. Altrove avviene il contrario, non è chiaro in base a quale criterio e secondo quali fonti. Forse è adottata la forma preferita da Max Leopold Wagner, del quale Gramsci conosceva però assai probabilmente gli studi per decidere di fare diversamente, preferendo la conoscenza diretta da nativo e parlante il sardo nella variante logudorese di Ghilarza.

Wagner non può essere sfuggito all’attenzione di Gramsci. E’ una questione di grande interesse, anche se non va preteso che siano le note alle Lettere dal carcere ad affrontarla. E’ ancora Giancarlo Schirru che ci ha riflettuto.

Su incarico di Bartoli, Gramsci fu l’estensore della dispensa di glottologia per il secondo anno di università, e Wagner vi è citato. Il glottologo tedesco aveva lasciato la Sardegna quando Gramsci era ancora, adolescente, al ginnasio a Santulussurgiu. Vi aveva trascorso alcuni anni a fare ricerche sul sardo per la tesi di dottorato, ma ci tornava, continuava a scriverne, anche se i suoi interessi si erano spostati verso il giudeo-spagnolo e l’ebraico ed egli stesso si era trasferito a Costantinopoli.

L’autore al centro delle attenzioni sia di Bartoli che di Wagner all’inizio del secondo decennio del secolo era Wilhelm Meyer-Lübke, svizzero e poi docente a Vienna. Aveva già pubblicato una grammatica storica dell’italiano, era un sostenitore dell’autonomia e dell’arcaicità del sardo. Maestro di Bartoli, una sua monografia del 1902, che prendeva in esame la lingua del Condaghe di San Pietro di Silki –  uno dei più importanti documenti del logudorese medievale – è all’origine dell”interesse di Wagner, ancora studente, per il sardo.

Un decennio dopo, entrambi, Bartoli e Wagner, seguivano, recensivano, correggevano qualche punto del dizionario etimologico delle lingue romanze che il linguista svizzero andava man mano pubblicando in fascicoli a comiciare dal 1911.

Lo studente di poco più di vent’anni proveniente da Ghilarza e Cagliari è lì accanto a Bartoli, sino al 1915, ne scrive le dispense, è molto probabile che conosca le ricerche di Wagner anche se in gran parte non ancora tradotte in italiano, che sappia che anche il sardo che si parla a Ghilarza è oggetto di studio del grande glottologo tedesco (il quale indaga il misterioso nome – ”maramèle” – con il quale la donnola è chiamata in quella sola area della Sardegna).

Non è difficile immaginare Gramsci immerso sino al collo nella discussione fra linguisti che si sviluppa in quegli anni fra l’Europa centrale e meridionale, tra i centri universitari, fra Torino e Vienna e nel campo delle ricerche sui dialetti, i Balcani, la Turchia, la Grecia, il sardo sempre là in mezzo se non altro per l’arcaicità che gli studiosi gli attribuiscono.

E’ infatti proprio in quegli stessi mesi che nelle lettere ai suoi a Ghilarza il brillante  studente di lettere chiedeva come si scrive e come si pronuncia l’una o l’altra parola, il significato, le versioni nelle diverse varianti del sardo. Lo faceva da tempo, e ora con maggiore precisione, ispirandosi al metodo che anche Bartoli insegnava, e Wagner magistralmente praticava, lo studio delle parole indissolubilmente connesso allo studio delle ”cose”.

Per questo saltano agli occhi del lettore sardo di questa edizione delle Lettere le note che sembrano non tenere conto di questa formazione e delle frequentazioni di Gramsci. Tra le altre, la traduzione che si fa dei nomi dei piatti e dei dolci della tradizione locale, dei quali Gramsci  scrisse alla madre dal carcere (pag. 66) nel 1927, e che sembra tipicamente ispirata al metodo ”parole e cose”, nonostante non chieda spiegazioni, stavolta.

Evocando   «un grandissimo pranzo», indicò, ben scritti in sardo, alcuni dolci. Nella nota che traduce i nomi e spiega i significati, «I ”culurzones” sono i ravioli con il formaggio o la ricotta di pecora». (Intanto qui Gramsci ha scritto ”kulurzones” con la lettera k). Ma è davvero così, quei ravioli sono di formaggio o ricotta di pecora? La risposta è no. O meglio, non solo: sono anche di formaggio e ricotta di vacca, o di capra.

A Ghilarza si contavano fra l’altro in quel periodo più vacche che pecore. Così ”sas pàrdulas”: perché  solo «con il formaggio o la ricotta di pecora», come dice la nota? Non era così allora, non è così oggi. Sono le ricette della pubblicistica online per i turisti che sembrano non conoscere il latte e il formaggio vaccini prodotti in Sardegna sino ai primi del ‘900 (quando arrivò l’industria casearia dei piccoli imprenditori laziali e greci, che puntarono sul pecorino) in più grande abbondanza rispetto ai formaggi ovini, e ancora oggi presente in quantità rilevanti.

Un più approfondito sforzo etimologico avrebbe anche consentito – nelle note alla stessa lettera – di tradurre ”pippias” – nella traduzione di ”pippias de zuccuru”, nome di un dolce sardo – con bambine, prima che con bambole, che semmai ne deriva, in alcuni contesti. E si sarebbe rintracciata l’origine probabile del nome dei ”pirichittos” o nel vezzeggiativo di pera, ”pira” in sardo, per la forma che assumeva quel dolce, o secondo alcuni nel nome onomatopeico del solletico, ”su piripiri”. I ”pirichittos” sono sì dolci, ma non sempre zuccherini come scritto in nota, e nemmeno sono sempre ricoperti di glassa di zucchero.

Nella stessa lettera, confidando che la sua mamma sia ancora «molto forte e resistente, nonostante la tua età e i grandi dolori e le grandi fatiche che hai dovuto sopportare», Gramsci le ricorda il cognome dei parenti di parte materna, Corrias, e un aggettivo che sembra derivarne, ”corriatzu”.

”Corriatzu” significa effettivamente ”coriaceo”, ”resistente”, come riportato nella nota a pag. 68, ma non per un «gioco di parole». Semplicemente perché ”corrìas” vengono chiamate in sardo le corregge, le stringhe di cuoio  usate per allacciare gli alti scarponi di campagna calzati dagli uomini e – dopo la prima guerra mondiale – i gambali di pelle stretti al polpaccio e alla caviglia.

A pagina 82, l’aggettivo ”maurreddina” che Gramsci adopera in un lettera alla sorella Teresina per giocare  sulle rassomiglianze del figlio Franco con il padre Paolo (originario di Senorbì, nella parte meridionale della Sardegna, sia pure lontana dal Sulcis) e «la sua stirpe campidanese e forse addirittura ”maurreddina”», sembra tradotto troppo frettolosamente: ”Maurreddina” vorrebbe dire «Originaria del Sulcis (in sardo Maureddìa o Maurreddìa) nel sud-ovest della Sardegna».

Ma ”maurreddinos”,  ”maurreddinas”, rimanda a una popolazione della Mauritania, tribù del Nordafrica che i vandali cacciarono da quella regione, cristiani perseguitati, espulsi e costretti al lavoro schiavile nelle miniere dell’Iglesiente, o, secondo altri, avanguardia militare, o coloni insediati in quella parte sud-occidentale della Sardegna.

C’è dell’ironia in Gramsci, e nei sardi che usano quell’espressione spesso intendendo riferirla anche a un più scuro colore della pelle delle popolazioni della parte più meridionale dell’isola, più vicina all’Africa. La tifoseria calcistica della Torres di Sassari chiama ”maùrri” i cagliaritani con i quali rivaleggia, tornando così ancora per gioco all’origine della tribù dei mauri.

Anche alcune note alle lettere  nelle quali Gramsci chiede notizie di libri, di feste sarde, di tendenze in atto nella sua terra d’origine, sono risolte con qualche imprecisione, qualche ridondanza, qualche volta non chiariscono.

In una di quelle lettere (pag. 159), che è di nuovo molto significativa dell’attenzione verso la Sardegna, Gramsci chiede notizia dei libri lasciati nella casa dei suoi a Ghilarza, dal Voyage di Della Marmora – in francese – alle Storie di Giuseppe Manno, al volume rilegato  «del peso di almeno 10 chili» delle Carte d’Arborea. Poi chiede alla madre: «Mandami qualcheduna delle canzoni sarde che cantano nelle strade», e cita a memoria alcuni versi di un poema satirico in sardo campidanese (a proposito di varianti e delle competenze che ne possiede).

Scritto forse a metà dell’Ottocento (La predica di fra’ Antiogu a su populu de Masuddas)  ne aveva già chiesto in una precedente lettera (pag.120)  una copia, nell’edizione «ultimamente ristampata nella famosa tipografia» di Patrizio Carta a Oristano. Nella nota del curatore, la versione che Gramsci cita senza errori viene corretta con quella riportata in un’edizione critica della ”predica”, uscita però nel 1983, cinquantasei anni dopo la sua lettera dal carcere di Milano. L’edizione Carta di Oristano non si trova. E la traduzione in italiano che Gramsci fa dei versi che ricorda, non per nulla è la medesima che la nota riporta, che sembra superflua.

In un’altra nota (a pagina 159), la festa di San Costantino, a Sedilo, un paese a dodici chilometri da Ghilarza, della quale Gramsci chiede notizie alla madre, insieme a quelle sulla festa di San Palmerio nel suo paese – e in particolar se «lasciano portare in giro la bandiera dei quattro mori»  – diventa nelle mani del curatore un assai strano rito: «Intorno alla chiesa campestre di San Costantino si svolge dal tramonto del 6 sino all’alba del 7 luglio una processione a cavallo  (s’Ardia de santu Antinu) per ricordare la battaglia di ponte Milvio tra Costantino e Massenzio».

Ma questa così lunga processione notturna dal tramonto all’alba… semplicemente non esiste. L”’Ardia” di San Costantino (s’Ardia de santu Antinu, in sardo) sì: è una corsa di alcune decine di cavalli montati adesso da altrettanti uomini e qualche donna, che si svolge la sera del 6 luglio e la mattina del 7 nell’ambito della festa di tre giorni dedicata a San Costantino nell’omonimo santuario a un chilometro dal paese.

È una corsa spericolata attorno e di fronte alla chiesa, su un terreno impervio. Il corteo dei cavalieri ha per un tratto, dal paese al santuario, l’andamento della processione, con il parroco in testa, anche lui a cavallo, e tre capicorsa che impugnano ciascuno una bandiera avvolta nell’asta, con i quattro mori.

Gramsci è curioso di sapere se  il fascismo sta impedendo l’uso della bandiera che il movimento dei combattenti ha ripreso come proprio simbolo dal Regno di Sardegna e che diventerà pian piano quello della regione, per imporre il tricolore anche in queste manifestazioni tradizionali. Anche la relazione che si stabilisce fra l”’Ardia” di Sedilo con la battaglia di Ponte Milvio è una forzatura. Ci sono ancora alcune decine di ”Ardias” in Sardegna, in onore di santi diversi.

Su questa – dedicata a un santo non santo –  la chiesa locale ha sovrapposto interpretazioni diverse, ”inventato” letture e tradizioni per espungere il tanto di pagano che quei riti contenevano e contengono, o per esempio per far celebrare Sant’Elena anziché il discusso figlio. I giornali sardi replicano da qualche decennio la versione della corsa a cavallo come riproduzione della battaglia di Ponte Milvio senza nessuna verifica, e così fanno pure i siti a cui rimandano i motori di ricerca della rete, la pubblicistica retorico-turistica nel cui circuito l”’Ardia” è ormai entrata surclassando ogni altro pur ricco rituale festivo.

Secondo uno storico dell’Ottocento non di secondo piano, Vittorio Angius, non era il Costantino imperatore il santo-non santo venerato a Sedilo, ma un Regolo turritano, il Giudice Costantino I. E il saggio dedicato al culto di Costantino in Sardegna uscito nell’Enciclopedia Costantiniana Treccani nel 2013 a settecento anni dall’Editto di Milano, a firma Francesco Angelo Spada, non fa menzione del legame fra la festa di Sedilo e la battaglia di Ponte Milvio.

Una nota avrebbe infine meritato il riferimento di Gramsci al lago Omodeo, del quale chiede alla mamma, in una lettera dell’aprile 1927 (a pag. 103): «E il bacino del Tirso serve veramente a qualche cosa?». Lo fa  con probabile lontano intento polemico verso il governo Giolitti e dei socialriformisti di Filippo Turati che fortemente vollero la diga sul Tirso, affidandola all’ingegnere Angelo Omodeo.

Nella costruzione dell’opera, che occupò sedicimila operai, portata a termine in sei anni nel 1924,  inaugurata dal re Vittorio Emanuele e poi visitata da Mussolini, celebrata come la più grande d’Europa – con l’invaso e la centrale elettrica che ne derivarono –  Antonio Gramsci perse fra l’altro  la sorella Emma, impiegata nella Società elettrica sarda e che fu tra i caduti del lavoro anche se portata via dalla malaria e spirata nel letto di casa.

In un’altra lettera sempre alla madre, il 23 settembre del 1929 (pag.407) Gramsci su quella grande opera sembra avere un altro punto di vista, più ottimistico, quando chiede: «Ghilarza tende a diventare come Oristano  o l’energia elettrica del Tirso dà la base a qualche industria sia pure iniziale?». Oristano l’aveva descritta così: «Un centro di commercianti e di proprietari fannulloni, di usurai, cioè, non è ancora una città, perché  non c’è produzione propria di nulla che sia importante».

Sembra qui prendere atto di una svolta modernizzatrice  rappresentata dalla diga e dalla centrale elettrica fra Ula Tirso e il suo paese nella storia della Sardegna. Era stato trasformato anche il  paesaggio, il suo, quello dell’infanzia  e dell’adolescenza, e così pure il più lontano Campidano risanato dagli acquitrini e liberato dalla malaria. Il nuovo invaso aveva sommerso un paese, Zuri, con la sua importante chiesa romanica in trachite rossa, ricostruita sull’altipiano pietra su pietra, a poche centinaia di metri dalla casa dei Gramsci, nelle campagne delle escursioni dell’adolescenza. Anche il paesaggio sociale si era trasformato, aveva fatto la sua comparsa un nucleo di classe operaia.

 

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