Cristina Campo e Alejandra Pizarnik: Anelli di cenere [di Marco Ercolani, Lucetta Frisa]

https://www.doppiozero.com/Nel 1965, in una pagina dei suoi Diarios (DI, p. 88), Alejandra Pizarnik dedica una poesia a Cristina Campo e la intitola Anillos de ceniza, “Anelli di cenere”: «Stanno le mie voci al canto/ perché non cantino loro // i rigidamente imbavagliati nell’alba, / i camuffati da uccello desolato nella pioggia. // C’è, nell’attesa, una voce di lilla che si spezza / E c’è, quando si fa giorno, / una scissione del sole in piccoli soli neri. E / quando è notte, sempre, // una tribù di parole mutilate cerca / asilo nella mia gola perché non cantino loro, // i funesti, i padroni del silenzio».

La poetessa canta perché le voci persecutorie non la soffochino. Scrive i suoi versi nonostante il mondo ostile: il suo canto è una “tribù di parole mutilate”. Perché dedicare una poesia così infernale e così intima a una scrittrice sublime e pensosa come Cristina Campo, estranea ai suoi tormenti psichici?

Ma l’estraneità è solo apparente: Campo nutre idee sul mistero della poesia che la avvicinano all’anima turbata di Alejandra: «Poesia geroglifica e bellezza: inseparabili e indipendenti…» (IM, 143); «È sempre un colpo di follia che apre la strada al labirinto delle parvenze ingannevoli» (IM, 156); «Mita, mi deve perdonare se non le parlo che di queste cose. Ma niente altro mi fa vivere ormai – ed è ancora una vita di prigioniero dietro le sbarre della libertà. Solo nel riformatorio, solo nel manicomio, sarei libera veramente…» (LM, p. 41).

Nel 1965 Pizarnik scrive nei suoi Diarios (DI, pp. 312-314): «Strana relazione con C.C. (…) Desidero che non mi scriva più affinché io possa soffrire: ossia: perché lei sappia che io soffro a causa del suo silenzio». (…) «Devo o non devo scrivere a C.C.? Tanto, non capirebbe mai ciò che mi fa male. (…) Lettera di Cristina. Mi fa paura. Come se mi avesse scritto un angelo. (…) Terribile dolore a causa della lettera di C.C. e al contempo gioia perché in verità sono io che, nonostante tutto, sono fedele. (…) Ossessionata dalla lettera di C.C. (…) C.C. fu la mia interlocutrice interiore».

Da queste brevi righe è evidente che Cristina e Alejandra sono legate da un rapporto subito inquieto e appassionato. Si erano conosciute nel 1962 a Parigi (Cristina aveva 39 anni, Alejandra 26) e poi avevano continuato a scriversi, dall’Italia e dall’Argentina, in lingua francese. Una poesia di Cristina Campo, Il buongiorno, ne svela il laboratorio spirituale e amoroso: «E ora buongiorno alle nostre due anime / che si destano e senza alcun timore / si vegliano, ché amore ogni orizzonte / chiude all’amore e di una cameretta / fa un ognidove. Restino alle nuove / terre i navigatori, e mappe nuove / scoprano ad altri mondi sopra mondi; / si lasci un solo mondo a noi, che abbiamo / ciascuno un mondo, ed è un mondo ciascuno» (TAS, p. 195). L’incontro fra Cristina e Alejandra, la “sublime” scrittrice italiana e la “folle” poetessa argentina, appare come un perturbante miracolo: «si lasci un solo mondo a noi, che abbiamo / ciascuno un mondo, ed è un mondo ciascuno».

Ma quale attrazione lega due mondi così apparentemente lontani? Cristina Campo vive malata e appartata a Roma: la passione della perfezione e i temi dell’“attenzione” e della “sprezzatura” sottolineano il carattere aristocratico della sua prosa critica e narrativa, che evoca la solennità di Marguerite Yourcenar.

Alejandra è lontana da questo regno imperturbabile: come un’Alice smarrita fra innocenza e non-senso vive insonne, appende le sue frasi alle pareti dello studio, subisce visioni e deliri, disarticola e ricostruisce il linguaggio per combattere la propria inarrestabile angoscia di morte. Ancora Cristina scrive ad Alejandra nel febbraio del 1963: «Mia carissima amica, non so come chiederLe perdono per non aver ancora risposto da settimane alla lettera dove Lei mi parlava della sua angoscia e che mi aveva molto colpito.

Raramente il cielo ci permette di realizzare in tempo il gesto che vorrebbe scaturire da noi come la voce stessa e che, nella sua perfetta gratuità, potrebbe dare, talvolta, a coloro che si ama ciò che Simone Weil chiamava “un poco di energia supplementare”. Ci sono dei casi in cui la distanza è crudele. La mia mano che prende la Sua in questo momento direbbe quanto dolorosamente io senta il Suo stato d’animo, che la mia imperdonabile mancanza d’attenzione, all’inizio, mi aveva fatto credere meno drammatico (…) Lei possiede il grande coraggio, la grande pietà, “il sacro dono del ridere” ed è proprio la donna che vuole la rosa in inverno»*.

Se di Cristina Campo si conservano diverse lettere scritte ad Alejandra, della Pizarnik se ne conserva una sola, mai spedita, scritta il 2 luglio 1970 (LAV, p. 175): «Cristina cara, nella notte più fredda dell’anno, la notte di oggi in cui sto provando a spezzare il silenzio (non ce la farò) (…) Per questo non le ho scritto. E ancora una cosa (Cristina. Mi vuole ancora bene? Le piacerebbe vedermi ora, strana bambina dai capelli lunghi lunghissimi, e così pallida e fragile che quando mi guardo allo specchio mi sorrido per darle coraggio. (…)

E ancora una cosa: ho avuto il bisogno di NON scriverle, per osare scrivere ciò che per anni avevo evitato (…) Anche così le voglio comunque dire che si tratta – da vari anni – di esprimere in qualche modo il MIO UMORISMO (le “sacré don du rire” scrive lei, Cristina, nella sua terza lettera) (…) dunque, Cristina, (forse riuscirei a vivere, se lei stesse qui, ma lei non sarebbe qui come lo intendo io e quindi è NO e così dev’essere e va bene così). La castità, per amor di Dio, è necessaria».

L’inequivocabile pulsione erotica di Alejandra avvolge la casta Cristina, che ne resta sopraffatta ma distante. Quella “rosa in inverno”, quell’amorosa contraddizione, lei non può coglierla né goderla nella sua interezza. Ma sconsiglia Alejandra a cercare la propria pace interiore con colloqui psicologici. In una lettera del 1965 scrive: «Mia cara Alejandra, (…) non vada, la supplico, dallo psicoanalista.

Oltre che del tutto inutile, è una cosa veramente indecente, e che ostruisce tutti gli ingressi al destino col pretesto di aprirne alla libido. Le sue “assenze”, per quel che mi sembra, sono una sorta di “fuga verticale”, davanti alla volgarità». Campo è attratta dalla natura “speciale” della poetessa argentina, dal suo essere “assente” alla vita, dalla sua diversità di creatura libera, tragica, umorale, smarrita.

Nei Diarios (DI, p. 320), Alejandra scrive così di un suo colloquio con Silvina Ocampo, moglie di Adolfo Bioy Casares e amica di Jorge Louis Borges, per la quale prova un’appassionata e irresistibile amicizia: «Ieri sera ho raccontato a Silvina del mio scambio epistolare con Vittoria [Vittoria Guerrini è il nome vero di Cristina Campo e con il nome Vittoria lei firmava spesso le sue lettere alla Pizarnik, NDA].

Avevo la sensazione che le interessasse; e ancora di più: credo che abbia visto in esso qualcosa di straordinario. Indubbiamente lo è o lo era (non so come andrà avanti, non so se voglio o posso continuare). È strano, ma soltanto quando ne parlavo con lei, ho capito che la grandezza e l’intensità dell’incontro tra me e V. non è “scontato”. (…) Perché l’entrata di V. nella mia vita non mi ha mai sorpreso? Non solo non mi ha sorpreso, ma ho dimenticato la sorpresa (o la non-sorpresa)».

L’amore condiviso e assoluto per una bellezza che frantuma le convenienze e gli schemi temporali non può sorprendere. «…Ogni volta che leggo un grande libro assisto alla distruzione del linguaggio, vedo la parola levitare al di sopra di tutti i linguaggi (IM, 153)».

Forse Cristina e Alejandra non erano fatte l’una per l’altra: ma l’eros ha vie misteriose e non può seguire che quelle. I poeti costruiscono incantesimi e distruggono convenzioni. Cristina scrive: «L’imperatore impotente / si ottunde a scrivere / poemi in un giardino / e intanto i suoi eserciti / uccidono e bruciano» (TAS, p. 151) Alejandra scrive: «Domani / mi vestiranno di ceneri all’alba, / mi riempiranno la bocca di fiori. / Apprenderò a dormire / nella memoria di un muro, / nella respirazione / di un animale che sogna» (FIS, p. 67).

Così Pizarnik e Campo coltivano nella loro relazione epistolare un enigma ambivalente: capirsi e misconoscersi. La prima cerca di risvegliare in Cristina sopite passioni carnali; la seconda, tenta di lenire un dolore psichico irrimediabile. Ma entrambe, per un breve periodo della loro vita, rimangono vicinissime, unite da un’idea assoluta e “imperdonabile” della scrittura. Vicinissime ma entrambe lontane dalla realtà fisica dell’eros. Cristina così le scrive, nell’inverno del 1963: «So bene che le parole non possono nulla prima che il momento non sia venuto anche per l’altro; il momento in cui l’anima riconosce con tutti i suoi sensi ciò che pensava di conoscere e aveva solo incontrato.

Può anche essere che questa specie di incarnazione attende l’altro in un luogo molto differente, tra altre specie… Presso i miei amici aschenaziti ho ascoltato i canti dei salmi che ci aspettano forse da tutta l’eternità… La lascio, mia cara Alejandra, con molta tenerezza e un grande grazie per il libro d’ore. Vittoria»

Come possono queste pacate e spirituali parole conciliarsi con l’inquietudine psicotica di Alejandra? «Io sono colei che mi cerca dove non sono». (…) «È come se mi avesse divorato un morto. Come se avessi nutrito il mio sangue con cenere. Come se la peste si fosse innamorata del mio destino. Come se la parola non fosse mai scappata dal mondo per trovare dimora in me» (DI, p. 162). Pizarnik si erge in tutta la sua fatale follia di creatura predestinata a un volontario abbandono della terra – essere nudo, inerme, scorticato, fiducioso solo nella folle sapienza della parola poetica.

«Ora non sono più arrabbiata con C. Ciò che assolutamente non posso capire: perché non ho letto le sue lettere con uno sguardo più critico? Ma queste lettere non m’interessano. C. non esiste, se non soltanto nella fantasia, è un personaggio inventato che mi scambia per qualcun altro quando parla, perché dice delle cose che non mi aspettavo. Soprattutto non ho notato la sua freddezza» (DI, p. 278). Nonostante la stima che affettuosamente le manifesta, Aleiandra sente che Cristina non la considera ancora scrittrice matura, ma artista bisognosa di guide spirituali e di libri illuminanti: «Quanto a Hofmannsthal, non potevo più vivere senza averLe dato “La lettera di Lord Chandos”, “I colori”, “Re e grandi signori in Shakespeare”. Sono stata felicissima di trovare nella mia biblioteca questa eccellente traduzione francese».

Alejandra però non segue docilmente i saggi consigli dell’amica: pretende che il caos della sua vita venga in primo piano, e non il suo controllo Sarebbe stata lei, la più giovane, a morire suicida per una dose letale di barbiturici, il 25 settembre 1972, a 36 anni. Due anni prima circa, in una lettera senza data, scriveva così a Julio Cortàzar: «Ho perso, mio vecchio amico della tua vecchia Alejandra che ha paura di tutto salvo (ora, oh Julio) della pazzia e della morte. (Sono due mesi che sto in ospedale. Eccessi e poi tentato suicidio – fallito, hélas). La pazzia, la / morte (…) / perché vorrei non sentire / così sospettosamente bene / le possibilità dell’impossibilità» (LAV, p. 174).

Cinque anni dopo, il 10 gennaio 1977, la malattia cardiaca di cui soffriva da molti anni avrebbe stroncato anche Cristina a 53 anni. Entrambe “imperdonabili” per l’ambiente mediocre dei letterati, puri anelli di cenere che con sdegno si staccano dalla vita comune per la quale, entrambe, non sono mai state adeguate. Alejandra e Cristina si sono riconosciute come amiche solidali nella loro estraneità agli altri umani: hanno anche cercato di amarsi, ma la struttura dei loro caratteri le allontanava: Cristina, prodigiosamente dotta e abscondita, sigillata nelle forme di una bellezza immune dal tempo e nei riti dell’antica religione bizantina; Alejandra poeta posseduta e donna fragile, che paragona le proprie ultime poesie ai versi di Scardanelli-Hölderlin, rinchiuso nella torre di Tubinga.

Troppo diverse per essere, anche solo per un attimo, vicine in una intimità fisica e psicologica condivisa. Alejandra: «sull’altra sponda della notte / l’amore è possibile // – portami – // portami fra le dolci sostanze / che muoiono ogni giorno nella tua memoria» (FIS, p. 23); Cristina: «Chi può guardare due volte / le scarpe di una creatura / qualunque / senza mettersi a piangere? / Dio, col suo sguardo / infinitamente abbattuto / che non si stacca mai / dalle scarpe degli uomini» (TAS, p. 111). Il Dio dolente e severo dell’una e il demone notturno e febbrile dell’altra sono due entità simili che guidano il poeta oltre i confini della vita reale: sono il rovesciamento di uno stesso disagio creaturale.

*Gli originali delle lettere di Cristina Campo a Alejandra Pizarnik sono custoditi insieme a tutte le sue opere presso gli archivi dell’Università di Princeton, e scritti a mano in lingua francese. Si ringrazia Stephanie Golisch per averli riportati alla luce mostrando il rapporto complesso fra Cristina Campo e Alejandra Pizarnik. I testi sono presenti online nel litblog “La dimora del tempo sospeso”.

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