La percezione del paesaggio nella cultura agropastorale [di Nicolò Migheli]

*Di seguito la Relazione integrale tenuta da Nicolò Migheli, Sociologo, nel corso del Primo Seminario di Minima Juridica: Aspetti legislativi della tutela del paesaggio. Il Seminario, organizzato sabato 5 marzo dall’Associazione Amici del Museo e dal think tank Sarda Bellezza, si è svolto nella Pinacoteca nazionale nella Cittadella dei Musei di Cagliari.

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Vi è un pregiudizio, soprattutto di cultura cittadina, che il mondo agricolo in generale e quello pastorale in particolare abbiano una scarsa attenzione per l’ambiente. Pregiudizio ingenerato da luoghi che spesso sono invasi da rifiuti di vario genere, ma questa è un’esperienza recente. In realtà se l’ambiente sardo è sostanzialmente, pur con i suoi guasti, rispettato, lo dobbiamo a una società, alle comunità, a una cultura che l’ha sempre considerato con valore, non certo solo per le sue valenze estetiche ma perché fonte di cibo. Per capirne fino in fonte il senso occorre affidarsi alle parole.

In sardo natura è sa naturalesa, un prestito spagnolo. Il termine natura definisce l’organo genitale femminile. Il luogo della nascita. Così come su naturale, indica il carattere di una persona, a volte anche con intenti giustificativi, come dire: è fatto così. Il termine ambiente, invece è prestito italiano che ha pari significati in sardo, anche nella definizione di concetti immateriali come il clima di un incontro.

Paesaggio, è anche questo un prestito, non potrebbe essere altrimenti, perché anche in italiano il termine si impone solo in temi recenti. Le comunità della Sardegna hanno sempre diviso il territorio in tre ambiti. Quello urbano e delle biddas. Su contivigiadu, il coltivato, diviso anche tra viddatzone e pabarile nell’alternanza annuale tra la coltivazione e il pascolo. E poi l’universo segreto e misterioso della selva.

Tra Santu Lussurgiu e Scano di Montiferro esiste il toponimo Silbanis, un luogo ancora oggi boscato e per certi versi selvatico. Esso è sede non solo degli animali selvatici, ma di presenze metafisiche, di anime e spiriti. Luogo del sacro, ma che ha costituito riserva di legno, cibo. Tanto che tra le decime da pagare ai feudatari vi era anche quella del ghiandatico, visto che l’allevamento dei maiali costituiva la riserva annuale di grasso per le comunità e la cacciagione.

Gli ambiti della campagna e del bosco erano considerati poco stravolgibili, non perché ne mancasse la volontà quanto perché non esistevano i mezzi tecnici che lo consentissero. Gli stessi incendi, condannati della Carta de Logu e dalle comunità, avevano un impatto minore a quello odierno, sia per le condizioni climatiche, che dal fatto che i pascolamenti riducevano i residui sechi. Se questa macro divisone ne sussisteva un’altra, quella tra terre pubbliche e quelle private.

Mentre nelle seconde vigeva una sorta di proprietà perfetta, nelle prime vi era solo un godimento temporaneo soggetto alle regole che si dava la comunità: quantità di legna assegnata annualmente alle famiglie, pascolamento con un numero di capi stabilito, così come la superficie coltivabile consentita. La terra pubblica spesso ingenerava un senso di res nullius, che però veniva controbilanciato da un forte controllo sociale, tanto che se una persona veniva notata in aree dell’agro dove non aveva interessi conosciuti, ci si chiedeva cosa ci facesse.

In caso di furti o sparizioni, lui sarebbe stato il primo sospettato. La rottura è avvenuta con la modernità e con l’impiego di mezzi agricoli che spesso hanno stravolto i terreni. Era uno dei temi cari al prof. Angelo Aru, che se fosse ancora tra noi avrebbe fatto qui il suo intervento. La modernità è stato uno iato con un sentimento antico, mentre nelle società tradizionali l’uomo si adattava alla natura, oggi è la natura che si deve adattare all’uomo. È diventata dominabile, stravolgibile secondo i piani e la prospettiva degli uomini.

Un atteggiamento che ha generato, specie nella cultura cittadina, che l’ambiente naturale, sia luogo facile, senza pericoli, una disneyzzazione dell’approccio. Dall’altro, un malinteso senso positivista che crede che ogni guasto sarà possibile risanarlo con la scienza. Quello che l’uomo ha distrutto potrà essere risparato. Niente di più errato, i tempi di ricostruzione degli ambiti naturali sono lunghissimi.

Nella cultura contadina e pastorale vi era una percezione diversa, basti pensare al regime di controllo delle acque, ai terrazzamenti che consentivano coltivazioni anche in luoghi scoscesi e nello stesso tempo erano argine alle frane. Il tutto riassumibile in proverbi che in ambito sociale impedivano il cambiamento mentre solo conservativi in quello dell’approccio all’ambiente e al paesaggio, come: lassa su mundu comente l’as connotu.

Una cultura che la contemporaneità ha quasi cancellato. Con la riduzione del reddito dato dal settore primario, l’attacco è venuto dall’esterno con la trasformazione delle imprese agricole da produttrici di cibo a quello energetico che propone ben altri redditi ai proprietari dei terreni.

Quanto si potrà resistere? Però nello stesso tempo vi è anche una presa del valore immateriale, simbolico del paesaggio. Di un luogo che ha anche valenza estetica. Il lutto che ha colpito la mia comunità montiferrina dopo gli incendi del 24 luglio scorso, non era solo per una perdita di un bene economico, ma quello della scomparsa della bellezza. Un patrimonio che ritornerà ma non sarà in vida nostra, come mi diceva con le lacrime agli occhi un pastore anziano. Potrà sembrare paradossale ai detrattori, ma il PPR ha avuto un ruolo, ha improvvisamente cambiato la percezione dei luoghi, specie quelli definiti identitari, un bosco, un monumento, un corso d’acqua, riacquistano la loro valenza sacrale.

Non solo si sta diffondendo sempre di più la convinzione che un ambiente sano, un paesaggio conservato abbia un valore economico che si trasferisce ai prodotti, soprattutto se questi sono alimentari. Concludo con un aneddoto. Qualche anno fa un buyer tedesco venne in Sardegna per contrattare una fornitura di formaggi. Il suo corrispondente locale dopo avergli fatto conoscere dei caseifici, lo portò per le campagne a visitare delle aziende pastorali. Era primavera, animali al pascolo, verde ovunque.

Il tour finì secondo le nostre abitudini in un pranzo in campagna. Fu solo nel viaggio verso l’aeroporto che il tedesco rivelò le sue impressioni. Era rimasto convinto della bontà dei formaggi che avrebbe acquistato, però… Quelle reti al posto dei cancelli, quelle vasche da bagno come abbeveratoi, quell’immondizia lungo le strade.

Condizioni che tendevano a sminuire il valore dei prodotti. Chi me lo raccontava non poteva che dargli ragione, con amarezza, ma ragione.

 

 

 

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