Leopoli, Leopoli [di Guido Pegna]

La grandissima sala dagli alti soffitti; le belle appliques alle pareti che diffondono una luce dorata; le grandi finestre alte fino al soffitto, davanti alle quali pendono pesanti cortine di velluto azzurro; sopra all’immenso caminetto, nella parete di fondo, il grande specchio dalla cornice opaca ornata di corone riflette la prospettiva della sala; il silenzio è interrotto ogni tanto da basse voci garbate. Tutto contribuisce a creare un ambiente accogliente, caldo e confortevole. L’atmosfera è quella dei caffè della bella epoque. In un angolo siede un gentiluomo in finanziera scura e lunghi favoriti bianchi; sul tavolo davanti a lui è disteso un giornale. Camerieri discreti si muovono silenziosamente.

L’anno è il 1930, siamo nel Caffè Scozzese di Leopoli, allora in Polonia, sulla Taras Shevchenko Prospect [1].  É un pomeriggio d’inverno, fuori è ormai buio e qui c’è un bel caldo. Entrano tre o quattro signori, accorrono i camerieri che li liberano da soprabiti, cappelli e bastoni. Si sistemano attorno a un tavolino, sulle poltroncine imbottite. Uno di loro sta parlando lentamente, quasi mormorando fra sé; gli altri lo ascoltano attenti. Ora tira fuori una matita scrive qualcosa sul marmo del tavolino. Si accende una discussione, tutti intervengono pacatamente, correggono, scrivono.  Intanto è arrivato un cameriere che porta birra e liquori.  Ma chi sono questi signori?

Nel celebre Kawiarnia Szkocka, per noi il Caffè Scozzese, quei distinti signori erano i matematici dell’università di Leopoli che si riunivano qui quasi tutte le sere: Banach, Ulam, Borusk, Mark Kac, Kuratowski, Shauder, Steinhaus, solo per nominarne alcuni, grandissimi. Topologia, logica, analisi funzionale o sono nate qui o hanno trovato qui straordinari sviluppi che apparterranno al pensiero di tutti i tempi. Essi trascorrevano in questo bel locale parecchie ore fra caffè, cognac, sigarette, buona musica, partite a scacchi, racconti, barzellette e aneddoti.

Ma il vero motivo per trovarsi lì era quello di creare divertendosi. Spesso qualcuno di loro proponeva un difficile problema di matematica, di astronomia, di fisica. Le discussioni che si accendevano non sarebbero state possibili, a quel tempo, nemmeno a Princeton. Capita anche che nasca una sfida: chi ha proposto un problema istituisce un premio, quasi sempre “in natura” per chi lo risolva.

Nel 1935 la moglie di Banach, Łucja, affinché i problemi e le congetture non andassero perdute – i camerieri cancellavano ogni giorno il piano del tavolino – portò al Caffè Scozzese un grosso quaderno in cui, da quel momento, vennero annotati i problemi più interessanti, le congetture, le dimostrazioni più notevoli. Questi venivano numerati insieme a eventuali annotazioni aggiuntive e al premio offerto dal proponente per chi avesse risolto il problema. Quei problemi e quelle soluzioni contenevano in nuce gran parte degli sviluppi della matematica dei decenni successivi, soprattutto nei campi dell’analisi funzionale e delle algebre di Banach.

Nel periodo della grande depressione, nei primi anni Trenta, o negli anni pieni di paura precedenti in Polonia la Seconda guerra mondiale i premi per i problemi più difficili  erano spesso di cose introvabili, come per esempio una bottiglia di brandy, e quindi molto ambiti. Il quaderno fu dato in custodia al gestore del locale, e su richiesta del gruppo veniva portato al tavolo da un cameriere e poi riconsegnato al proprietario del Caffè.

È rimasto famoso l’episodio nel quale per un problema, il numero 153, che fu in seguito riconosciuto come strettamente collegato al “Problema Fondamentale” di Stefan Banach, Stanisław Mazur aveva offerto in premio un’oca viva. Questo problema fu risolto solamente nel 1972 da Per Enflo, al quale fu puntualmente presentata l’oca viva che gli spettava in una cerimonia che fu diffusa per televisione in tutta la Polonia.

Alla fine del 1939 le truppe naziste invasero la Polonia e entrarono in città. Con la guerra la scuola di matematica di Leopoli si disperse. Molti sparirono nel nulla, alcuni ebbero sorti tremende. Per ordine di Himmler furono assassinati decine di studiosi, scrittori, rappresentanti della cultura; cominciò la sistematica deportazione degli ebrei, fra i quali molti dei matematici del Caffè Scozzese. Prima dell’inizio della guerra Ulam e Mazur si erano accordati per salvare il quaderno dalla distruzione in caso di bombardamento o di smarrimento. Mazur lo mise in una scatola e la seppellì dietro a una delle porte di un campo di calcio alla periferia della città.

Dopo la guerra il quaderno, che ora è noto come “Il Quaderno Scozzese”, fu disseppellito dal figlio di Banach, che lo diede a Steinhaus, il quale lo spedì a Ulam, che come ebreo si era salvato fuggendo in tempo negli Stati Uniti, mentre tutta la sua famiglia era stata sterminata dai tedeschi.  Il quaderno fu in seguito tradotto in inglese e pubblicato dalla Birkhäuser con il titolo “The Scottish Book”, con una bella prefazione di Ulam [2]. A tutt’oggi è ancora irrisolto quasi un quarto dei problemi che vi sono esposti e l’influenza sullo sviluppo della matematica di quel quaderno scritto a mano tra tè, birre e caffè non si è ancora spenta.

Fra tutti i matematici perduti a causa della guerra, Stan Ulam, che era nato a Leopoli nel 1909, straordinario genio della matematica, ebbe una vita singolare. Arrivato Negli Stati Uniti con quello che stava in una valigia, povero, sopravvisse per qualche tempo con una borsa di studio. Nel 1943 Ulam e molti dei matematici e dei fisici provenienti da tutto il mondo, fra i quali Enrico Fermi, furono trasferiti  presso gli insediamenti ultrasegreti che erano sorti nel landa desertica di Los Alamos, nel New Mexico nell’ambito del Progetto Manhattan per la creazione della bomba atomica. Dopo la guerra Ulam diventò professore associato nell’università della Southern California, ma ritornò a Los Alamos nel 1946 al National Laboratory, dove lavorava con il suo alter ego, il matematico Everett, il genio dei calcoli.

Fra l’altro, con il tipico spirito ebraico, molti dei suoi sforzi erano tesi a dimostrare che i progetti che andava elaborando Edward Teller per la creazione della bomba all’idrogeno non avrebbero funzionato. La bomba all’idrogeno, possibile in linea teorica, era temuta e avversata dalla stragrande maggioranza dei fisici che avevano lavorato alla bomba atomica [3]. Se fosse andata a buon fine, quest’arma definitiva avrebbe messo a disposizione degli Stati Uniti e dell’intera umanità un ordigno di potenza infinitamente superiore a quella delle bombe di Hiroshima e Nagasaki.

Accadde che proprio dalla dimostrata irrealizzabilità della superbomba si presentasse a Ulam la vera soluzione, che fu quella che la rese possibile. In URSS Andrei Sakharov era nel frattempo giunto alla stessa conclusione. La bomba all’idrogeno, derivata dal “Teller-Ulam design”, è alla base di tutti gli ordigni termonucleari, ormai orribilmente accatastati a migliaia negli arsenali delle grandi potenze militari.

Leopoli, Leopoli dunque. Leopoli, Lvov, Lviv, Lemberg, Lwow, la città dell’accoglienza, l’antica capitale della Galizia narrata da I. B. Singer, regione scomparsa dalla carta geografica. Città prima polacca, poi ucraina, tedesca, austro-ungarica, un crocevia di nazionalità. Intorno al 1900, sotto l’Impero di Francesco Giuseppe, Leopoli aveva 160 mila abitanti, polacchi, ebrei, ruteni (gli odierni ucraini) con minoranze tedesche. I polacchi erano in posizione dominante. La città era bella e amichevole, la stazione principale, scrive Martin Pollack, “riempiva di orgoglio ogni abitante” con le sue alte volte vetrate e l’arrivo dei treni da Vienna, Berlino, Parigi.  Era sede di una grande università, di consolati, era un rinomato centro di cultura europea.

A Leopoli si parlava anche lo yiddish, il romeno, l’ungherese, il russo. “Una Babele variegata e sconosciuta”, come scrive Claudio Magris di questa “patria dei senza patria”. Leopoli era considerata la porta sul mondo. Un mischmasch, un guazzabuglio non solo in senso etnico. Vi vivevano più di 100.000 ebrei, per la maggior parte dediti al commercio; alla guerra ne sono sopravvissuti 200. Una città di scrittori.

In una modesta casa di Brody, alla periferia di Leopoli, crebbe Joseph Roth, che dedicò alla Galizia e all’aspro mondo dello shtetl pagine fondamentali della letteratura centroeuropea, da “Ebrei erranti” al “La Cripta dei Cappuccini”.  Con la Seconda guerra mondiale tutto si è corrotto, e tutto ciò è finito.  E con questa nuova guerra anche ciò che resta della città di oggi forse non rinascerà più. Nei bambini di Leopoli, per tutta la loro vita, ogni volta che udranno il rombo di un aereo che passa alto nel cielo si risveglierà una irragionevole paura. Nessuno potrà far rivivere la cultura, l’amore, la speranza, la memoria di fatti oramai senza eco e senza più significato.

NOTE 

[1] Il caffè originale, che è stato rinnovato nel 2014, esiste ancora, ma non vi sono più i tavolini di marmo bianco.

[2] The Scottish Book: Mathematics from The Scottish Café, with Selected Problems from The New Scottish Book, Edizione Inglese a cura di R. D. Mauldin, Birkhäuser Verlag GmbH, Basel 2019.

The Scottish Book: una sua versione integrale si trova nel sito dedicato a Stefan Banach, insieme alla lista dei problemi e altre informazioni: http://kielich.amu.edu.pl/Stefan_Banach/e-scottish-book.html

La prefazione di Stan Ulam nell’originale dattiloscritto è qui: http://kielich.amu.edu.pl/Stefan_Banach/pdf/ks-szkocka/ks-szkocka3ang.pdf

[3] Tutti i fisici, da quel momento, hanno vissuto in un irredimibile senso di colpa; la scienza era loro sfuggita di mano generando l’orrore. “Sono diventato la morte, il distruttore di mondi”, disse Oppenheimer dopo l’esplosione della prima bomba atomica, citando il Bhagavad Gita. Il caro prof. Mario Ladu, eminente fisico dell’università di Cagliari,  da me intervistato molti anni fa, mi diceva che se fosse stato in suo potere egli avrebbe bloccato tutte le ricerche di fisica nucleare a partire dal 1938.

 

 

3 Comments

  1. GIANLUIGI PILI

    Come un viaggio nel tempo.
    Un tempo più sereno, più vivibile.
    Un tempo in cui non ci si tirava indietro dal confrontarsi con altri studiosi.
    La Cultura è pace, è solidarietà, è la consapevolezza che non basta una sbarra di confine per fermare le idee.
    È la dimostrazione che le idee crescono scambiandosele e diventano patrimonio di tutti.
    La sciagurata guerra che sconvolge l’Europa da due mesi (ma iniziata in realtà molto prima) è una guerra senza speranza di vittoria per nessuno. Ora più che mai le guerre lasciano solo sconfitti, morti disperazione da qualunque parte la si guardi.
    Non oso pensare come potranno vivere nei prossimi anni quegli adolescenti privati di un futuro, di una famiglia, degli affetti.
    Non basterà certo un trattato per fermare le ostilità e dare un senso al futuro:
    E chiamarlo “trattato di pace” non basterà a restituire dignità alle persone. Da qualunque parte siano state.

  2. Filippo Madonna

    Bellissimo articolo che apre una finestra su un mondo che fu. Vicino, ma terribilmente lontano. Stimolante ma pericoloso. Romantico ed affascinante e, purtroppo non ripetibile.
    Una componente che la tecnologia non potrà mai risolvere è la convivialità di un gruppo di eminenti studiosi in luogo fisico quale elemento di stimolo per gli approfondimenti e le soluzioni (o il tentativi di soluzione) dei problemi di volta in volta proposti.
    Sarebbe interessante anche sapere quali fossero i requisiti che regolavano la possibilità di sedersi al tavolo di marmo del caffè scozzese di Leopoli e da chi fossero vagliati. Per certi versi mi ha ricordato l’esperienza de ” i ragazzi di via Panisperna” che lavorarono alla ricerca della fisica del neutrone.

  3. Francesco Frigo

    Peccato che Guido Pegna dissemini con parsimonia i suoi scritti. Prodigo di minuzia e sapienza scientifica, qui tratteggia con passione e colori vivi il quadro di una fase storica di cruciale importanza sul piano culturale, e non solo. Stimolato dai tragici avvenimenti che oggi affliggono Leopoli e l’intera Ucraina, mostra prontezza, sensibilità, attenzione.

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