Le nostre vite nel paesaggio delle lingue in Sardegna [di Alessandro Mongili]

Per gentile concessione dell’autore pubblichiamo il testo del suo intervento in Pomeriggi di Paesaggi nell’ex Regio Museo in Piazza Indipendenza, primo Ciclo di una  iniziativa organizzata dal Museo archeologico nazionale di Cagliari e svoltasi da mercoledì 6 a venerdì 8 luglio, a cura di Francesco Abate, Carlo Augusto Melis Costa, Nicola Migheli, Maria Antonietta Mongiu, Francesco Muscolino.

L’intervento è parte della prima giornata Il Paesaggio delle lingue. E’ stato Virgilio della serata Roberto Pianta Letterato già Dirigente del Liceo Classico “G.M. Dettori”; hanno dialogato Bachisio Bandinu Antropologo e Scrittore Maria Antonietta Mongiu Archeologa e Componente del CdA del Museo archeologico nazionale di Cagliari.

Hanno svolto il tema del pomeriggio, oltre ad Alessandro Mongili Sociologo Università di Padova, Carlo Augusto Melis Costa Avvocato e Scrittore; Nicolò Migheli Sociologo e Scrittore Giovanni Columbu Regista Scrittore Pittore. Hanno letto poesie in Lingua sarda e nelle Lingue alloglotte della Sardegna Lia Careddu Attrice Rita Dedola Avvocata Franco Mannoni Politico e Scrittore Giovanna Puddu Fisica Matematica Università di Cagliari Antonina Scanu già Dirigente pubblico. Sono intervenute con incursioni corsare le Lucido Sottile straordinarie artiste (NdR).

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“Nei giorni del dubbio, nei giorni in cui mi turbano gravi pensieri sulla sorte della mia patria, tu sola mi sei di sostegno e d’appoggio, o grande, possente, veridica e libera lingua russa! Se non ci fossi tu, come non cadere nella disperazione alla vista di tutto ciò che accade da noi?” Ivan Sergeevič Turgenev, La lingua russa (1882: traduzione di E. Lo Gatto)

Nella mia vita ho attraversato tre tipi di paesaggi linguistici: quello di un bambino, quello di un adulto e infine quello più maturo, che sto vivendo ora.  Il paesaggio linguistico infantile è stato quello di un bambino degli anni ‘60. Sono infatti nato il 1° gennaio 1960, figlio di un medico condotto in un paese della Marmilla, anzi, della Parte Montis, e di un’insegnante di matematica, che sarebbe poi diventata in seguito una farmacista. Ho vissuto, da bambino, una situazione di segregazione linguistica totale.

Nella mia classe tutti i bambini, tranne me e il figlio del segretario comunale, parlavano in sardo, tranne che con noi. Il paese si chiama Gonnostramatza. Per quanto io potessi sforzarmi di parlare in sardo loro mi rispondevano in italiano. Si tratta di una condizione diffusissima in Sardegna, e che poi si è estesa non solo ai figli delle persone studiadas ma anche alle donne nella loro quasi interezza, e per finire si è applicata alla quasi generalità dei figli, interrompendo così la trasmissione intergenerazionale del sardo, e determinando il nostro impoverimento culturale attuale, che a tratti sfocia nel monolinguismo isterico e nella difficoltà ad apprendere le lingue.

Questo non per escluderci, ma per rispetto del nostro status privilegiato, che l’italofonia naturalizzava. Voglio trasmettervi un’immagine che mi ha segnato nell’impegno a favore della lingua sarda. Si tratta della fila per entrare e uscire dalla classe nella scuola elementare, a Gonnostramatza. Nella mia classe la fila si formava così: prima le femminucce e poi maschietti. Prima delle femminucce, però, toccava a su fillu de su datori e a su fillu de su secretariu comunali.  Cioè i due che parlavano italiano.

Ci si deve interrogare sul significato di questo privilegio che si intreccia con il diverso status del sardo e dell’italiano. Trovo irritante trattare in modo anodino il problema della lingua in Sardegna, come se si trattasse solo di un problema formale, o culturale. Il problema è la disuguaglianza e la mancanza di parità, anche linguistica, la mancanza di dignità per i sardofoni. Il costo per le vite di persone concrete escluse dalla scuole, per chi ha interiorizzato un senso di inadeguatezza, il sentimento  di essere sbagliati come dice Judith Butler. Ma noi non siamo sbagliati.

Il secondo paesaggio che propongo è quello da adulto. La mia famiglia si è trasferita a Cagliari all’inizio degli anni ’70. Ho fatto il Liceo Dettori, e prima ancora la Scuola Media “Cima”. Il sardo era già quasi sparito dallo spazio pubblico, a Cagliari. La mia è stata una famiglia particolare, diciamo così. Entrambi i miei genitori avevano una laurea scientifica, e così i loro amici. Talvolta questi medici parlavano, almeno fra di loro, il sardo, o lo conoscevano bene.

Non c’era un clima particolarmente ostile, ma una segregazione di fatto. Tutti i figli sono stati cresciuti con l’italiano. Mio padre era sedilese, mia madre era mezzo aritzese e mezzo cagliaritana (la definirei così): lei aveva infatti con il sardo un rapporto diverso da quello di mio padre, che era stato messo nel collegio di Santolussurgiu e usava questo italiano terribilmente controllato e libresco che spesso ha chi è uscito da questa rete di collegi, un tempo florida.

Nel Capo di Su spesso la segregazione fra il sardo e l’italiano mi sembra maggiore. In ogni caso sull’altro versante della famiglia il sardo non dominava, ma circolava con meno separatezza e veniva usato talvolta, spesso inframezzando l’italiano. Sono convinto che anche a Cagliari il sardo sia un po’ nascosto ma sopravviva forse meglio che in altri luoghi. Questo secondo paesaggio si caratterizza per lo studio del sardo e per la sua sistematizzazione.

Anche io iniziato a studiare il sardo: ho un ricordo vivissimo de La lingua sarda di Max Leopold Wagner, comprato all’età, credo, di 13 anni. Non ricordo bene dove, se da Trois in via Puccini o da Fossataro, nella vecchia libreria che c’era in piazza Ichnusa. Non era così facile trovarlo. Lo conservo ancora e mi era sembrato una meraviglia di libro. Ancora oggi penso che lo sia. Wagner ha fatto questa operazione complessa di inscrizione del sardo nella scienza linguistica moderna, un’operazione che troppo spesso noi sottovalutiamo ma è stato un passaggio fondamentale per il rafforzamento del nostro status linguistico.

E questo è evidente dalla pubblicazione recente del suo carteggio, da cui emerge la rete di credibilità e di legittimazione scientifica del suo lavoro, al livello internazionale più alto.  Nessuna operazione erudita o estemporanea ha cambiato il nostro status linguistico quanto la legittimazione scientifica della nostra lingua prodotta dal lavoro di Wagner. Grazie a questo e ad altri lavori, noi potevamo studiare. Quando ho letto Boris Pahor e la sua descrizione del suo apprendimento dello sloveno, allora vietato in Italia, sono rimasto molto impressionato per la similitudine con quello che molti di noi hanno fatto.

Durante la dittatura fascista (particolarmente ostile agli Sloveni e ai Croati) da Trieste si spostò a Capodistria e iniziò a leggere tutto quello che gli capitava in sloveno: testi di ogni natura, e si annotava le parole. Non posso certo compararmi a lui, non sono uno scrittore, e anzi posso essere abbastanza noioso quando scrivo, però anch’io mi sono letto di tutto, dagli Statuti del Comune di Sassari in sardo del XIII secolo alle antologie di poesia sarda che proprio in quegli anni vennero pubblicate, alle commedie campidanesi, ai primi giornaletti politici scritti in sardo dai neo-sardisti, come si diceva allora. In fondo mi sentivo un escluso da questa lingua, mi sentivo un segregato, condannato a un italiano dominato dall’ipercorrettivismo, dall’ossessione della grammatica e dell’espunzione di ogni sardismo, imitativo e privo di creatività.

Fu allora che iniziai a imparare alcune altre lingue, anche in virtù del fatto che ho iniziato a viaggiare per poi andare a vivere in Francia. Con il francese è andata molto bene, in francese ho scritto due libri e la mia tesi di dottorato. Poi ho vinto una borsa francese e sono andato a lavorare a Mosca. Ho imparato dunque il russo e anche l’inglese, che ha un’anima che non riesce purtroppo a piacermi, ma è la lingua più utile.

Penso che in tutte queste lingue io abbia trovato un paesaggio linguistico libero, meno gerarchicamente disposto di quello sardo. Sul piano personale collego l’amore delle lingue a questo stato di segregazione linguistica di partenza, che ho vissuto da bambino, al desiderio di parlare liberamente. Gli anni ‘70 e ‘80 però sono anni di cambiamento. Si smette di chiamare il sardo un dialetto e sempre di più lo si inizia a chiamare lingua. Si inizia ad assumere coscienza del fatto che si abbia fra le mani un patrimonio culturale enorme.

Sono gli anni in cui si scrivono tanti dizionari e grammatiche, anche di parlate locali. Purtroppo, poche grammatiche e metodi moderni per imparare il sardo. Come una collezione di farfalle, il materiale linguistico sardo viene preso e spillato, vengono descritte le etimologie, tutto rigorosamente in una cornice linguistica italiana, cioè “alta”. Il sardo rimane basso, ma viene mobilitato, almeno.

Si tratta di una fase importante che sfocia in un terzo paesaggio linguistico, quello della presa di coscienza e quindi della decisione di parlare in sardo. Per questo devo dire grazie a Giuseppe Corongiu, che ha applicato un suo metodo con me. Nelle nostre conversazioni, quando tendevo a tornare all’italiano seguitava a parlare con me in sardo e questo mi ha un po’ sbloccato. È stata una sensazione di liberazione.

Una lingua che ormai conoscevo nei dettagli diventava finalmente parte delle mie abilità e poteva sgorgare dal mio corpo. Non ero più bloccato. Bellissimo! Infatti quasi tutti noi conosciamo il sardo, senza però riuscire a tirarlo fuori. In seguito c’è stata un’esperienza professionalmente dirimente, cioè la partecipazione al gruppo che ha fatto la ricerca sociolinguistica qui all’università di Cagliari, in cui venni  coinvolto da Anna Oppo, una persona che ho stimato tantissimo. L’epoca è quella, storicamente decisiva, della giunta del presidente Soru, in cui Maria Antonietta Mongiu ha avuto un ruolo cruciale, e in cui si è lavorato per fornire un primo standard riconosciuto ufficialmente alla nostra lingua.

La ricerca fu compiuta in modo molto professionale, e attraverso le interviste svolte col metodo  paper and pencil cioè somministrate in presenza da intervistatori addestrati. Fu caratterizzata da un bassissimo livello di missing, contrariamente alle survey contemporanee, che hanno almeno un 40% di dati persi, mentre in quella sulla lingua sarda si attestarono sul 10%, un dato che forse dice da solo quanto sia stata importante.

Ci dice che la gente è interessata al tema. Quello è stato un momento importante, in cui la vita professionale ha incontrato la mia biografia e alcune strutture portanti della società a cui appartengo, cioè la segregazione e la disparità linguistica, mentre cambiava il paesaggio linguistico e si modificava lo status del sardo: non più dialetto, non più oggetto passivo di studio, ma abilità che inizia a essere legittima e a circolare fuori dalle cerchie locali e familiari, con il suo ritorno nello spazio pubblico.

È la fase che Bolognesi ha chiamato di risardizzazione linguistica.  All’inizio il sardo lo parlo male. Chi ha imparato le lingue sa che all’inizio si combinano un sacco di pasticci. Bachisio Bandinu, che oggi è presente in questa sala, mi invitò proprio a presentare in sardo gli esiti della Ricerca sociolinguistica in Rai, e io andai a parlare in un sardo improbabile, secondo me. Comunque, cercai di spiegare i dati della ricerca, quindi dissi a mia madre in quale giorno sarebbe stata trasmessa la puntata, senza dirle che era in sardo, in modo da capire la sua reazione.

Il giorno della trasmissione andai a pranzo a casa sua, qui a Cagliari,  e lei mi guardò e disse: “ ma tu questo sardo dove l’hai imparato?”. La generazione cui apparteneva aveva infatti strutturalmente collegato la modernizzazione all’italianizzazione, e si sentiva responsabile dell’apprendimento di un buon italiano da parte dei figli, chiave indispensabile non solo per il successo, ma anche per la rispettabilità sociale.

Questo episodio mostra come il meccanismo della mancata trasmissione intergenerazionale non sia stata una scelta, come volgarmente si dice, ma un processo complesso che apparve plausibile e necessario a chi lo viveva, cioè legittimo e utile.

Dunque il paesaggio contemporaneo del sardo è un paesaggio quantitativamente ristretto ma qualitativamente diverso, e penso aperto. Se è vero che tutti i miei compagni parlavano in sardo, negli anni ’60, è pero vero che il sardo era considerato un dialetto da disprezzare.

Adesso ci sono centinaia di persone che si iscrivono ai corsi per imparare il sardo, il sardo viene usato nei media e si scrive tanto in sardo, almeno nello spazio digitale. Esiste una panoplia di iniziative intorno al sardo: per esempio, insieme ad altri sto sperimentando un metodo per sbloccare le persone che hanno una conoscenza del sardo ma non riescono a parlarlo.

Non voglio essere troppo ottimista però devo osservare che il panorama linguistico si sia modificato. Da buon sociologo, seguace del teorema di Thomas, devo dire che le interpretazioni condivise dei fenomeni pesano molto sulle conseguenze che possono produrre, per cui se noi pensiamo collettivamente sempre di più che il sardo sia una nostra ricchezza e non il nostro errore, possiamo avere magari qualche speranza nel suo futuro.

Per quanto riguarda il mio legame con le altre lingue (e di tanti altri sardi espatriati, disterrados o esterofili) devo dire che, come ho ricordato, il mio interesse è sgorgato proprio nel momento in cui ho iniziato a interessarmi del sardo. Ero ancora bambino, vivevo questa situazione di segregazione linguistica e, non potendosi sfogare sul sardo, il mio interesse si è diretto verso altre lingue. Ci sono alcune lingue nelle quali ho trovato questa sensazione di libertà che in Sardegna non ho mai vissuto. Mi sento sempre libero soprattutto con il russo.

Esiste una celebre definizione di Turgenev sul russo come “lingua libera”, che riporto in esergo. In effetti anche io l’ho vissuta così. In Russia ho sperimentato un rapporto popolare immediato con la lingua che qui non avevo mai conosciuto, perché qui il rapporto con l’italiano è sempre legato all’idea che si stia sbagliando, che non è corretto quello che stiamo dicendo, soprattutto nell’italiano parlato in Sardegna, che è un’autentica prigione.  In Russia ho sperimentato un’intimità con la lingua da parte del popolo moscovita, l’unico da me conosciuto, che mi ha molto colpito.

Nel paese delle Anime morte e del Leviatano totalitario, della lingua rigida di una burocrazia spietata e ottusa, la cultura e la lingua consentono alle persone libere di esistere, sono il rifugio della libertà, di un’esistenza libera, in cui la lingua aiuta a preservare la libertà, cosa che in Sardegna non accade, poiché la nostra lingua è colonizzata e non si può parlare, siamo bloccati e ci sentiamo a disagio nel parlarla se non nell’intimità di alcuni rapporti, e il nostro italiano è ipercontrollato.

One Comment

  1. Mario Pudhu

    Bene meda, Alessandro!
    Ma… il nostro italiano è ipercontrollato?
    Ma sèmpere Italiano Regionale Sardo.
    Su “iper” est propriamente su machine e su presumu fóssile.

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