La Lingua delle colonie [di Pier Giorgio Testa]

Son passati circa 7 anni da quando, in un famoso intervento, Vittorio Coletti, dell’Accademia della Crusca, lamentò le troppe ingerenze nel lessico italiano di parole provenienti da altre lingue e mi sembra di poter ritenere che tali appelli siano rimasti del tutto inascoltati, con l’aggiunta che, se l’attuale governo di Destra ha fatto un qualche pur timido tentativo di porre il problema, si è assistito subito ad una reazione vivace  da parte dei nostri giornalisti, che, che dopo aver ricordato il Purismo propugnato dai fascisti, hanno dichiarato “di retroguardia”quella battaglia, accompagnandola, dunque, da un’ omerica risata.

Credo che anche rispetto al periodo dell’ipotetica iniziativa governativa le cose siano andate peggiorando, vista l’ulteriore impennata che hanno subito tutte le pratiche rivolte a facilitare agli Italiani l’uso di un’altra Lingua, che è sempre più esclusivamente l’Inglese.

Coletti nell’intervento del 2016 sostenne : “non dimentichiamo tre cose: 1) che ci sono campi del sapere in cui la lingua materna e ufficiale resta ineludibile (letteratura, diritto); 2) che espellere la lingua comune e nazionale dall’insegnamento superiore è un furto ai danni della collettività, che viene privata della possibilità di partecipare almeno minimamente, attraverso uno stesso vocabolario, alla distribuzione del sapere avanzato, di cui pure sostiene tutti i costi, con ulteriore aggravamento della discriminazione sociale; 3) che escludere l’italiano dalla didattica universitaria significa tagliar fuori nel giro di una generazione la nostra lingua dalle scoperte, dai pensieri, dai progetti del mondo nuovo. Se l’italiano cede all’inglese tutti i settori più importanti della conoscenza impoverisce il proprio vocabolario e si condanna a non poter più nominare il cambiamento, si reclude nel silenzio per il futuro.

Sembrerà strano ma, delle lamentele dell’Accademia, si trovava qualche trafiletto immerso tra notizie poco interessanti in pochi giornali e mai citazioni nei mezzi di comunicazione più seguiti, quasi esistesse un bisogno di rendere questo, quello cioè dell’ aumentato numero  di parole  inglesi, nel nostro dizionario, un  fenomeno  spontaneo, non invasivo, poco doloroso e per questo scarsamente percepibile.

Al contrario vanno le immissioni nei circuiti propagandistici di valutazioni quali: “ma oggi senza l’Inglese dove vai?” o l’organizzazione di corsi d’inglese in età prescolare o per le elementari, l’adozione di testi scientifici americani non ancora tradotti,  fino ad arrivare a Lauree in Medicina con corsi esclusivamente in Inglese, tenuti nelle Università italiane (a Bologna!!!) e ancora la facilitazione del Turismo linguistico con viaggi, anche per minorenni, in USA o in Gran Bretagna o, per i meno abbienti, in Irlanda o le mancate traduzioni dei titoli di film americani o la presenza di insegne in Inglese per qualsiasi  attività commerciale.

Queste osservazioni non sono, ben inteso, rivolte a negare l’importanza  che la Lingua Inglese ha acquisito grazie alla vittoria alleata della seconda guerra mondiale e della successiva espansione del mercato nell’Europa continentale; ma quello che accade in Italia è un vero fenomeno di “Sostituzione Linguistica” che sta impoverendo il nostro lessico a favore dell’Inglese, cosa che , di questo passo, porterà alla mesta sparizione della nostra lingua, così come successe ai nostri migranti del 20° secolo quando dopo, due generazioni, il loro Italiano era del tutto dimenticato o relegato alla commossa citazione di frasi della nonna.

Alla stessa stregua nessuno può negare l’importanza del conoscere per esempio il Francese o il Tedesco o lo Spagnolo o anche  il Cinese che è, di gran lunga, la lingua madre più diffusa nel mondo, ma ciò non può accadere per favorire il dimenticare la propria.

Per esempio la stragrande maggioranza dei tedeschi è in grado di capire e parlare l’Inglese, forse favoriti dall’essere quella inglese una Lingua germanica; ma in quel Paese si distingue bene parlare in Tedesco da parlare in Inglese e, al momento, non sembrano realizzati fenomeni di importante contaminazione; in Italia non è così: chi parla normalmente l’Italiano è costantemente pronto a inserire allocuzioni e termini tecnici d’oltremanica o d’oltreoceano, che interrompono e quindi frantumano il fluire del discorso.

Vent’anni fa in un dibattito radiofonico sull’argomento, non ricordo, purtroppo, chi sostenne che spingere alla conoscenza e alla pratica dell’Inglese non si sarebbe fermato ad un mero accrescimento “culturale”, ma che sarebbe stato un modo moderno per veicolare abitudini, usanze e gusti, il preludio cioè all’espansione del mercato e non solo di quello.

Insomma, siamo allo sbeffeggiato Nando Moniconi, l’americano a Roma di Steno e Alberto Sordi, che fece dal 1954 ridere a crepapelle quegli italiani che, oggi, si comportano come lui.

 

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