Quando la classe operaia, prima di andare in paradiso, passa dal Papa [di M.Tiziana Putzolu]

alcoa

Dal Catalogo delle Azioni di Protesta che gli operai sfogliano periodicamente rileviamo che sempre più spesso viene scelta quella di cui alla voce “Appello al Papa’ o ‘Visita al Papa”. E’ decisamente la più efficace per esercitare la pressione mediatica nei confronti dell’opinione pubblica ed ottenere rapidamente la ribalta che mette in luce una drammatica situazione, generalmente collegata alla chiusura di una fabbrica. Così qualche giorno fa gli operai del Sulcis, più precisamente quelli dell’Alcoa di Portovesme, tornano sul rito della protesta con visita al Santo Padre. L’evento mediatico è stato assicurato.

Nello stesso Catalogo delle Azioni di Protesta troviamo però anche altri suggerimenti. Tra i più utilizzati vi è “Arrampicarsi su ciminiere e torri”, ma anche “Rinchiudersi in una miniera”, e poi ‘Occupare un’isola’. L’ultima, ‘Occupare un’isola’, è stata scelta dai poveri cassintegrati della Vinyls di Porto Torres qualche anno fa, che rinchiusi all’Asinara hanno dato vita per lungo tempo al miglior reality mai visto, l’Isola dei Cassintegrati, quello nel quale la realtà ha largamente superato la fantasia. Abbastanza in disuso “Incatenarsi davanti al cancello”; i più temerari e votati al martirio scelgono come ultima spiaggia “Minacciare di uccidersi per mancanza di lavoro”. Quasi dimenticato ‘Scioperare’. Negli ultimi anni le nuove azioni di protesta e di lotta (di classe?)  sono state utilizzate tutte, in Sardegna. A parte l’estremo “Minacciare di uccidersi per mancanza di lavoro” (rarissimo, per fortuna), e a parte ‘Scioperare’ (quasi mai). Ma qualcosa deve essere cambiato se il gesto più simbolico e più attraente per i lavoratori è l’appello al Papa piuttosto che un classico dei classici: lo sciopero.

La storia dell’Alcoa e di altre tante imprese negli altrettanti territori caldi dell’isola, raccontano, a chi ha voglia di capire, il dramma e l’emblema della grande crisi e dei grandi cambiamenti che attraversano ormai la nostra storia. Quella sarda, ma non solo. La raccontano anche attraverso crisi ‘simbolo’ come quella dell’azienda di Portovesme, divenuta americana Alcoa nella complessa altalenadi un salvataggio mai riuscito. La raccontano più dei tanti casi spiccioli delle piccole aziende che chiudono, senza clamore. Chi sa, se non i più coinvolti o nostalgici ricostruttori di araldica d’impresa, che Alcoa altro non è che l’ultima declinazione proprietaria di un’azienda con una lunga storia alle spalle, che ha inizio con il periodo dell’industrializzazione dell’isola?

Attraversata da decenni di alterne vicende societarie, nelle quali l’intervento dello Stato, come è noto, non è stato né marginale né, tantomeno, positivo? E’ l’ultima generazione di un’azienda con una evoluzione intricata, con una serie numerosissima di passaggi di mano che hanno segnato intere epoche storiche ed economiche. Che attraversa quella Sardegna uscita stanca e trafelata’ dalla seconda guerra mondiale mentre muoveva i primi passi l’avventura autonomistica. Passata, tra gli anni ’50 e ’60, nelle mani di giganti di Stato come Egam, Efim, Enel, Eni variamente combinate. Poi privatizzata. Divenuta Alcoa.

Nei decenni recenti la multinazionale Alcoa è diventata un colosso mondiale dell’alluminio. E’ cresciuta enormemente e con l’intensificarsi della concorrenza ha ampliato la sua base tecnologica e conquistato mercati con operazioni globali, soprattutto finanziarie. Ma gli eventi relativi alle dismissioni dell’impianto sardo sono solo l’ultimo episodio di una crisi ‘trascinata’ e mai risolta, all’interno dello scenario economico relativo alle produzioni mondiali di alluminio che, tra alterne fortune, non pare comunque in crisi. Quando alla fine di novembre del 2009 arriva dalla lontana proprietà il secco comunicato della decisione di fermare gli impianti, certamente qualcosa già da tempo si muoveva nell’aria.  E da quel momento partirà una lunga ed intensa nevrotica trattativa nella quale tutti gli attori appariranno parti ‘lese’. Non solo gli operai, ma tutti. Ecco, qui sta il punto. Il ‘tutti’. Chi sono? Dove sono? E quanti sono? Che ruolo hanno?

La fuga del colosso Usa figlia della globalizzazione rappresenta decisamente quel modello di capitalismo senza confini. O dai confini mobili. Che ha intorno a sé centri di responsabilità indefiniti.  Ed è segno ed emblema dei nuovi perimetri delle crisi industriali che hanno messo in discussione i modelli esplicativi utilizzati per affrontarle. Quando ‘la fabbrica è occupata, i dirigenti dell’azienda partecipano quasi subito all’assemblea dei lavoratori così come alcuni parlamentari e sindaci del territorio, tutti contro un nemico lontano’, è chiaro che siamo di fronte a modalità di azione che perdono di vista il contorno delle responsabilità. Il “tutti” si affrontano nello stesso campo di battaglia, sindacati, dirigenti d’azienda, rappresentanti confindustriali, politici locali e regionali che sfilano ora contro la Commissione Europea che rivuole indietro 270 milioni considerati aiuti di Stato per l’energia acquistata a prezzi agevolati, ora contro l’Enel e con la Regione a fianco, ora contro lo Stato e la Regione contro.

Il gioco della parti intorno ai cosiddetti ‘tavoli’ è infinito. Il conflitto, così, è frammentato e confuso, le parti in causa numerose, distanti nel tempo e nello spazio. Difficile elaborare tattiche, piattaforme e poste in gioco. Difficile scioperare: contro chi se tutti sono tuoi alleati?  In questa situazione incerta è più facile essere parte che controparte, dileguarsi, giocare al tavolo con le tre carte e confondersi tra i lavoratori. L’approccio movimentista della lotta nelle forme presenti e da inventare del Catalogo delle Azioni di Protesta risulta più adatto, copre spazi lasciati vuoti dagli interlocutori tradizionali, come erano i partiti di un tempo. Per non parlare dei sindacati. Sfuma la sua azione, la cui via di rivendicazione si fa sempre più stretta e ambigua dentro una società che cambia, dentro una economia che impone di rischiare nei mutamenti tra vecchi privilegi e necessarie tutele emergenti ed un quadro politico, nazionale ed europeo che tenta di renderlo innocuo ed inoffensivo.

Inevitabilmente la ricerca dell’interlocutore per i lavoratori diventa l’obiettivo, è più ampia della rivendicazione stessa, sposta sempre più in alto la posta, porta ad istanza la richiesta del lavoro in generale più di quello perduto. Lascia soprattutto dietro di sé il sindacato; il suo strumento principale, lo sciopero in senso stretto, diventa inutile, antico. Per questa via l’azione perde il senso rivendicativo per diventare dimostrativo, non cerca tutele, norme, ma attenzione sociale. E’ decisamente più immateriale, decisamente postindustriale. Così, simbolicamente, si spinge sempre più in alto, fino a cercare l’appoggio e il consenso della più alta autorità spirituale riconosciuta, il Papa. Alla ricerca di conforto. Poi c’è solo Dio.

 

 

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