Il cono d’ombra di Gramsci [di Silvano Tagliagambe]

Gramsci_Stampa

Chi ritenesse che per qualcuno, intellettuale, politico o amministratore che sia, costituisca un sottile piacere rivolgere il proprio sguardo critico al presente che vive, traendone una sorta di misteriosa libidine, dovrebbe rileggere con attenzione alcune pagine di Gramsci. In particolare le prime sette del Quaderno 4, databili tra il 1930 e il 1932, che l’autore titola Il canto decimo dell’Inferno, nel quale viene analizzata la situazione degli eretici, di coloro che dissentono da una dottrina ufficiale in quanto non la condividono o la interpretano in maniera alternativa rispetto a che detiene il potere. Generalmente si tratta degli intellettuali che non appartengono alla “vil razza dannata” dei cortigiani, e che per questo rifuggono dal conformismo e dalla piaggeria, autentiche piaghe di tutti i tempi.

Interessante e istruttiva, per Gramsci rinchiuso nel carcere di Turi, come ancora oggi per noi, è la pena alla qual sono condannati, secondo Dante, questi personaggi: la cecità al presente, tanto più dolorosa perché abbinata alla conoscenza del passato e alla capacità di previsione del futuro. Lo dice lo stesso Dante a Farinata degli Uberti, capo dei ghibellini di Firenze:

El pare che voi veggiate, se ben odo,
dinanzi quel che ‘l tempo seco adduce,
e nel presente tenete altro modo (vv. 97-99).

Farinata conferma questa impressione, espressa in forma dubitativa, e ne spiega le ragioni:

Noi veggiam, come quei c’ha mala luce,
le cose … che ne son lontano;
cotanto ancor ne splende il sommo duce.
Quando s’appressano, o son, tutto è vano
Nostro intelletto; e s’altri non ci apporta,
nulla sapem di vostro stato umano (vv. 100-105).

Il commento di Gramsci è, come al solito, acuto e puntuale: “per aver voluto vedere nel futuro essi sono privati della conoscenza delle cose terrene per un tempo determinato, cioè essi vivono in un cono d’ombra dal centro del quale vedono nel passato oltre un certo limite e vedono nel futuro oltre un altrettanto limite” (20 settembre 1931).

Gli eretici hanno dunque una vista acuta relativamente al passato e al futuro, ma rimangono estranei al presente o, per meglio dire, è il presente che ignora loro. Sono come i veggenti: “I veggenti non sono creduti, come Cassandra; se fossero creduti, le loro previsioni non si verificherebbero, in quanto gli uomini, posti sull’avviso, opererebbero diversamente e i fatti allora si svolgerebbero diversamente dalla previsione (Q. 4, p. 527). Gli eretici, come i veggenti, non sono creduti dai contemporanei. La validità delle loro ragioni viene riconosciuta dopo, quando è troppo tardi.
Questa cecità. o meglio estraneità al presente, non è una situazione comoda. Non dà certo prebende, soddisfazioni e tanto meno felicità, per questo ritenere che chi ne è portatore ed espressione ne sia orgoglioso e contento, ne meni vanto o la eserciti con piacere è totalmente fuori luogo. Perché lo fa allora?

Una delle risposte migliori ce la dà Sofocle che nell’Edipo Re fa dire all’indovino cieco Tiresia: perché “tanto le cose verranno fuori, anche se le copro col silenzio”. Tacere, allora, può essere comodo e magari anche remunerativo, ma è inutile e oltre tutto pericoloso, perché contravviene alla più elementare regola della democrazia: “Benché tu”, dice l’indovino al re di Tebe, “sia il padrone assoluto, deve essere uguale almeno la possibilità di rispondere alla pari”. Altrimenti si cade nel gioco più insidioso per le società aperte, quello dell’omertà, che sempre Sofocle mette splendidamente a fuoco in un’altra sua tragedia, l’Antigone, nel dialogo tra la protagonista e il nuovo re di Tebe Creonte:

ANTIGONE. Tutti questi direbbero di approvare ciò che ho fatto, se la paura non gli bloccasse la lingua. Ma sì, la tirannide in molte altre cose ha successo, e le è lecito fare e dire ciò che vuole.
CREONTE. Sei la sola fra i Tebani a vederla così.
ANTIGONE. No, anche loro la vedono così, ma a motivo tuo tengono la bocca chiusa
(vv. 504-509)

Un‘altra risposta meravigliosa ce la dà Collodi in quel capolavoro assoluto di filosofia morale che è Pinocchio, dove il grillo parlante così risponde al protagonista che gli chiede chi sia:

“Sono il grillo parlante e abito in questa casa da più di cent’anni!”

Ammonimento di una saggezza sconvolgente nella sua semplicità. Guarda che anche se credi di essere il padrone indisturbato di questa dimora perché Geppetto ora non c’è, in realtà non sei solo. C’è sempre una parte di tuo padre in questa casa. Ci sono io a ricordarti chi sei e di cosa sei fatto:

“Povero Pinocchio! Mi fai proprio compassione!”
“Perché ti faccio compassione?”
“Perché sei un burattino e quel che è peggio, perché hai la testa di legno!”

Certo, tu puoi saltare su tutt’infuriato, prendere un martello sul banco, scagliarlo contro di me e appiccicarmi stecchito alla parete. Ma la verità, quella verità che ti ho gridato e che tanto, prima o poi, verrà fuori, rimarrà dentro di te e sarà, d’ora in poi, la tua coscienza critica. E, che tu lo voglia o no, porrà dei limiti alla tua volontà e al tu potere, che oggi, illudendoti, ritieni incondizionati.

 

Lascia un commento