Il progetto di una comunità operante ed educante [di Silvano Tagliagambe]

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Relazione presentata al Seminario “Quale rinascita? Esperienze di Comunità in Sardegna e sviluppo locale” organizzato dalla Presidenza Regionale FAI Sardegna Sabato 5 luglio a Lussurgiu (NdR).

Leonardo Sinisgalli, il “poeta ingegnere”, come lo definisce Giancarlo Borri in un volume a lui dedicato . nell’articolo autobiografico “Le mie stagioni milanesi”, pubblicato nel n. 5 del1955 nella rivista ‘Civiltà delle macchine’, da lui fondata due anni prima e diretta, così rievoca il suo’incontro con Adriano Olivetti: “Gli portavo il mio ‘Quaderno di Geometria’ in un estratto dalla rivista ‘Campo Grafico’: l’avevo scritto l’inverno prima a Montemurro, quand’ero quasi deciso a non tornare mai più in città. Occupava appena tre fogli di scrittura minutissima che presero corpo a Milano, per la gentilezza del mio caro amico Tommaso Bozza, allora addetto della Biblioteca di Brera, in circa una ventina di pagine dattiloscritte. Non avevo altre referenze da dare; sì, qualche poesia della prima stagione che Ungaretti aveva citate, ancora inedite, in un articolo che aveva scritto per la ‘Gazzetta’ di Amicucci. I versi “trascendentali” (l’aggettivo è di Gianfranco Contini) e i miei primmi assaggi di matematica…”. Tutto questo bastò a Olivetti per affidargli l’incarico, prestigioso quanto delicato, di direttore dell’Ufficio Tecnico di Pubblicità all’interno della sua azienda.

A colpirlo era stato proprio il connubio tra matematica, poesia e ingegneria che Sinisgalli incarnava e il suo grande amore per le botteghe fumose dei maniscalchi, per i meccanismi, per i congegni di ogni tipo, il profondo rispetto per il lavoro e la capacità manuale, che pure non era uno dei suoi pregi e delle sue abilità, come confessa egli stesso: “Sapevo tanto di matematiche, ma capivo pochissimo di macchine. Le mie mani erano rimaste stupide” . Quel connubio che aveva contrassegnato l’esaltante stagione dell’Umanesimo e del Rinascimento italiano, che era riuscita a creare un nuovo senso comune profondamente nutrito della cultura umanistica e scientifica in tutte le loro articolazioni e basato su un’originale alleanza tra cultura della mente e cultura della mano, tra il pensiero astratto e il lavoro degli artigiani, dei carpentieri, dei sapienti interpreti di mestieri umili quanto preziosi.

Ne era nata quella grande e originale rivoluzione culturale il cui fondamentale punto di forza, come ci dice autorevolmente Eugenio Garin tirando le somme, nel 1998, e quindi “mezzo secolo dopo”, del suo pionieristico lavoro sull’Umanesimo, apparso prima in tedesco nel 1947 e poi in italiano nel 1952, è costituito proprio da quella “fusione straordinaria fra arte, letteratura, scienza che apre l’enciclopedia del sapere a una nuova visione del mondo” che ne fa un rinnovamento non solo letterario, ma di tutta l’enciclopedia del sapere, con nuovi rapporti fra le diverse discipline. L’”uomo nuovo”, di cui parla e al quale si rivolge il Rinascimento, poteva così disporre di una cultura profondamente unitaria, in cui l’arte, la scienza della natura e lo studio della letteratura riuscivano non solo a dialogare proficuamente, ma a richiamarsi e a rinforzarsi a vicenda. Di questa omogeneità e unitarietà è componente essenziale anche una forte connessione fra pensiero e azione, in virtù della quale il sapere, per quanto elaborato nel silenzio di uno scrittoio, non può che tradursi immediatamente in atto, trasformandosi in “vita civile”.

Per rendersene conto basterebbe leggere ricostruzioni come quella di Lina Bolzoni, che esamina in modo approfondito un periodo, la metà del Quattrocento, durante il quale San Bernardino trasformava i palazzi, le chiese, le strade di Siena in un vero e proprio “teatro della memoria” della sua predicazione. La Bolzoni ne parla giustamente come di un’epoca nella quale “il pittore – come, in grado minore, lo scrittore e il predicatore – in realtà non si limita a presentare agli occhi del corpo delle immagini che sono poi trasmesse agli occhi della mente; il pittore opera in una zona di frontiera, in cui i confini, le barriere, possono anche cadere” , in cui, cioè non solo il testo è traducibile in immagini, ma l’immagine può a sua volta generare nuovi segmenti di testo, in un processo continuo di diffrazione, di moltiplicazione e di creazione e uso efficace di “immagini miste”. A questo si può arrivare perché l’età in questione è l’erede di anni nei quali ci si era abituati a usare “immagini che possono essere delineate solo con le parole, oppure si possono presentare agli occhi del corpo, ma mettendo in scena un rapporto tra pittura e scrittura tale da controllare minuziosamente il modo in cui il tutto si imprime negli occhi dell’anima. In ogni caso siamo di fronte a un rapporto aperto tra testo e immagine, un rapporto fatto di interscambio piuttosto che di passiva derivazione” .

Questa fitta e affascinante rete di legami e associazioni fra parole e immagini, che si inseguivano, potenziandosi a vicenda, è finalizzato a comunicare efficacemente con il popolo, a creare, come si diceva, un nuovo senso comune, capace di agire sull’intelletto, sulla memoria, sulla volontà, imprimendo nella mente di un largo pubblico i modelli di comportamento da seguire. Uno “sfondo condiviso”, in grado sia di contenere conoscenze, sia di riattivarle e di proiettare la vita quotidiana in un’altra dimensione, quella inesorabile dell’eternità e del giudizio divino.

Questo nuovo e potente senso comune che fu costruito allora era dunque il risultato di un processo tenace e assiduo di elaborazione di un modello aperto d’integrazione orizzontale tra i contesti e le relative forme di vita e di esperienza quotidiana, tra gli stili percettivi e cognitivi che ciascuno di essi riusciva a esprimere, tra i campi disciplinari. In altre parole, era la presa d’atto del fatto che nessuno può arrogarsi il diritto e l’autorità d’ impedire agli studiosi di violare i confini tra i diversi ambienti e contesti e i loro modi di manifestarsi attraverso il pensiero e il linguaggio.
Se insisto su questo punto è perché ancora oggi in Italia gli autentici interpreti ed eredi di questa tradizione culturale sono considerati filosofi come Benedetto Croce e Giovanni Gentile. Per confutare questa falsa credenza basta ricordare che il primo riteneva di doversi vantare del suo totale disinteresse per la matematica e della sua profonda ignoranza per questa e per tutte le altre discipline scientifiche, motivato con la loro presunta mancanza di ogni spessore culturale, dato che la scienza, per lui, era solo “un libro di ricette di cucina”, e ancor meno valeva la tecnica. La vera cultura, a suo giudizio, si faceva in altre sedi.

Quanto al secondo è il caso di rammentare, visto che molti sembrano essersene dimenticati, che subito dopo la marcia su Roma Gentile, neo ministro alla Pubblica Istruzione, probabilmente ispirato dalla leadership dei nuovi detentori del potere, disse che la prima finalità dell’elaboranda riforma sarebbe stata la lotta all’analfabetismo, vera ferita aperta dell’istruzione popolare con il suo 37,7% di analfabeti risultati al censimento del 1911, scesi nel 1921 al 27,5% (ma era un dato che Gentile nell’autunno del 1922 ancora non possedeva), che restava una misura preoccupante se paragonata agli altri paesi europei usciti dalla guerra mondiale vincitori o vinti. L’obiettivo al quale guardava e pensava il primo ministro alla Pubblica Istruzione del regime fascista non era però certamente quello di dar vita a una scuola di massa, bensì quello, più congeniale a lui e al suo circolo politico-culturale, di formare, nei licei e nelle università, la classe dirigente del paese con una istruzione di qualità, destinata programmaticamente a tagliar fuori i figli del popolo, che non avrebbero avuto il bene di continuare gli studi, perché soltanto fruges consumere nati.

Questa netta separazione tra “scuola di massa” e “scuola di qualità” è oggi, nel pieno dello sviluppo della “società della conoscenza”, sempre più improponibile e insostenibile. Lo attesta il documento della Commissione europea “Realizzare uno spazio europeo dell’apprendimento permanente”, fatto proprio il 16 marzo 2002 a Barcellona dal Consiglio europeo, che indica a tutti i Paesi membri un percorso che vede nella individuazione di nuove competenze di base e in diverse metodologie imperniate sull’apprendimento le linee guida per le politiche scolastiche dell’immediato futuro di tutti i paesi membri. Ciò che caratterizza questo documento è l’esplicita indicazione della necessità di puntare su una responsabilità crescente del territorio, su maggiori opportunità per i giovani e sulla flessibilità dei percorsi formativi a partire però dalla padronanza dei saperi essenziali. Il sapere è un diritto ma è anche un bisogno funzionale di una società evoluta, di un’ economia basata sull’innovazione e non sullo spreco sociale di risorse umane e intellettuali. Questo dato oggettivo rende indispensabili azioni (di governo, di forze politiche o sociali) che facciano del sapere e dell’istruzione un diritto per tutti, e non un diritto minimo essenziale bensì un diritto generale e per tutta la vita, ben al di là delle più impegnative richieste rivendicative del passato.

L’imperativo che si pone è, di conseguenza, quello di creare una scuola di massa e di qualità, una scuola colta, dunque, che sappia elevare il livello del senso comune, proprio come si proponeva di fare, ed era riuscita a fare, la grande tradizione culturale del Rinascimento italiano, che, di conseguenza, non trascuri nessuno e, soprattutto, prenda atto delle sempre più marcate differenze tra i soggetti con i quali entra i contatto e della sempre maggiore eterogeneità dei contesti con i quali si deve confrontare e, anziché porsi l’irrealizzabile proposito di uniformarli, facendoli rientrare all’interno di sempre più improbabili modelli prefissati, si sforzi di fare proprio di queste diversità e articolazioni un elemento di sviluppo e di arricchimento.

Non dovrebbe essere impossibile, se si pensa che un altro indiscutibile tratto distintivo del Rinascimento italiano era la capacità di alimentarsi e di fare tesoro delle profonde differenze tra un territorio e l’altro, dando origine a un sistema policentrico i cui centri più importanti e vitali, oltre a Roma, furono Venezia, Ferrara, Urbino, Siena, Padova, Perugia, Vicenza, Verona, Mantova, Milano e Napoli. Da quest’ultima città, attorno alla metà del Quattrocento, le forme rinascimentali peculiari, vennero successivamente esportate nella penisola iberica.

Per tutti questi aspetti Giovanni Gentile è lontano non solo da noi, ma anche dall’Umanesimo e dal Rinascimento italiano, o almeno dovrebbe esserlo. Adriano Olivetti lo aveva capito, e si era reso conto che per realizzare il suo sogno di dar vita a una comunità interpretata in chiava realistica e concreta, passando dalle teorizzazioni astratte all’esperienza politica pratica, dal pensiero all’azione, dalla filosofia alla realtà, occorreva un altro tipo di scuola, incompatibile coni qualsiasi forma di nostalgia per il modello di scuola propugnato da Gentile e per i principi ispiratori della sua riforma.
La volontà di riattualizzare l’ideale rinascimentale di formare un senso comune colto e consapevole lo spinse a fondare, nel 1948, il “Movimento di Comunità”, per il quale fu anche eletto deputato nella III legislatura della Repubblica, e a svolgere un’intensa attività di organizzazione culturale, dando vita alle Edizioni di Comunità, grazie alle quali furono messi a disposizione del pubblico italiano degli anni ’50 importanti testi a sfondo comunitarista, tra cui la traduzione di The Quest for Community, del sociologo Robert Nisbet, oltre a diverse opere dedicate interamente al tema della comunità, come L’ordine politico delle comunità dello stato del 1947) e Società, stato, comunità del 1952.

Un aspetto qualificante e rilevante del suo pensiero è la ripresa e la messa in pratica della bellissima definizione dell’uomo fornita da Aristotele nel Libro VI dell’Etica Nicomachea: “Il pensiero di per sé non mette in moto nulla, bensì ciò che muove è il pensiero che determina i mezzi per raggiungere uno scopo, cioè il pensiero pratico. Questo, infatti, presiede anche all’attività produttrice: chiunque, infatti, produca qualcosa, la produce per un fine, e la produzione non è fine a se stessa (ma è relativa a un oggetto, cioè è produzione di qualcosa), mentre, al contrario, l’azione morale è fine in se stessa, giacché l’agire moralmente buono è un fine, ed il desiderio è desiderio di questo fine. Perciò la scelta è intelletto che desidera o desiderio che ragiona, e tale principio è l’uomo”.
“Intelletto che desidera o desiderio che ragiona”: non è mai stata data, a mio parere, definizione più sintetica, semplice ed efficace per esprimere l’indissolubilità, nella persona umana, di ragione e sentimento.

Adriano Olivetti ne fece il cardine del suo concetto di «comunità concreta», che per lui era il piccolo nucleo sociale concepito sul modello della famiglia, come “unità di sentimenti” piuttosto che come entità politica, come “ordine concreto”, radicato nella vita, nel lavoro, nella cultura, in uno sfondo condiviso di ideali, obiettivi, valori. La comunità olivettiana, proprio per questo, è territorialmente definita, vivibile, né troppo grande né troppo piccola, un contesto dove è possibile stabilire contatti diretti tra le persone e l’ambiente, che a tutte le attività umane fornisce efficienza e, soprattutto, rispetto della persona, «”ella cultura e dell’arte che la civiltà dell’uomo ha realizzato nei suoi luoghi migliori”.

Olivetti riteneva che la democrazia italiana del dopoguerra non si sarebbe affermata, dopo le lacerazioni e le frantumazioni provocate dall’ascesa e dalla caduta del fascismo, senza la diffusa consapevolezza che l’effettiva esperienza umana può conservarsi soltanto a livello della comunità naturale, recuperando e riattualizzando quei valori della civitas che stavano alla base del contratto sociale nelle città medioevali e che fecero della civiltà urbana europea qualcosa di completamente originale e distinto rispetto agli stili urbani di altre zone. Questa idea della civitas implicava una peculiare tensione dinamica tra l’atmosfera e il clima della comunità solidale e coesa, resa tale dallo spirito comune, e la sua costituzione legale, di tipo contrattuale. Questa tensione assicurava stabilità e continuità al tessuto urbano e alle sue forme istituzionali, che traevano forza, alimento e solidità da questa atmosfera, condivisa in modo egualitario da tutti.

Se si sradica l’uomo da questo sfondo, dalla tradizione, dalle credenze e dai costumi, per inseguire il miraggio di una totale liberazione dell’individuo, si rischia di prestare il fianco alla deriva totalitaria. Riformulando la nota dichiarazione di Rousseau, Olivetti affermò per questo che l’uomo nasce libero ma non certo nel deserto. Egli viene al mondo in un determinato territorio, come membro di una comunità, di un particolare ambiente storico e culturale. Cosicché la sua libertà ha bisogno di uno spazio vitale e reale in cui esplicarsi spontaneamente nelle dinamiche di rapporti naturali e diretti. Questo spazio di libertà è appunto la comunità dei rapporti immediati, cioè non mediati burocraticamente, la comunità che ricompone “l’unità dell’uomo”, garantendo la presenza costante e affidabile di quell’humus ideale in cui può articolarsi la libertà.

Da questa convinzione emerge il suo originale concetto di “democrazia integrata”, una forma nuova di rappresentanza, “più forte, più efficiente della democrazia ordinaria”, in grado di coniugare l’uguaglianza necessaria con la libertà individuale e di integrare, nella società civile, gli eletti con i cittadini. Una democrazia – scriveva Olivetti ne L’ordine politico delle comunità – che non preserva i cittadini dal pericolo dell’incomunicabilità o della mancanza di conoscenza tra rappresentanti e rappresentati non è affatto democrazia.

Per ritornare alla cultura e alla scuola, dalle quali siamo partiti, va ricordato che nel Manifesto programmatico di Comunità, da lui firmato e proposto al pubblico nel gennaio del 1953 come documento della “Direzione politica esecutiva”, Adriano Olivetti scriveva che, in coerenza con i suoi principi ispiratori, “il Movimento Comunità nella sua lotta contro il pauperismo, a favore del pieno impiego, della pianificazione urbanistica, della scuola gratuita, delle borse di studio, dei centri comunitari e culturali, non intende appoggiarsi a determinati gruppi privilegiati naturalmente conservatori che detengono oggi unilateralmente gli strumenti della cultura; ma vuole combattere una battaglia per la cultura e per uno Stato che si appoggi, anche, sulla cultura. Per questa cultura (cultura unitaria, cultura per l’uomo, contro la frammentarietà delle tecniche, e l’unilateralità dei linguaggi specializzati; una cultura in cui sia possibile la sintesi, e in cui risplenda l’amore per la vita), ogni garanzia di libertà deve essere assiduamente cercata. Qualche esempio. Nel campo scolastico, il Movimento Comunità è favorevole all’autonomia disciplinare e didattica degli insegnanti statali, in analogia con la situazione auspicata per la magistratura.

Nel campo scientifico, il Movimento Comunità è favorevole ad organi di indagine e di informazione tecnico-politici e scientifico-sociali, pubblici ma indipendenti dall’Esecutivo. Nel campo del Servizio Sociale, pur apprezzando e coadiuvando gli sforzi in atto per l’educazione popolare e l’organizzazione del tempo libero, il Movimento Comunità mette in guardia contro il pericolo di inghiottire tutto l’uomo nell’azienda «umanizzata» e nella ricreazione organizzata, ed è favorevole invece al rispetto profondo per la spontaneità e l’interiorità dell’operaio, del bracciante, dell’uomo della strada, anch’essi «persone»”. Qui è palese e concreto il riferimento agli ideali fondamentali dell’Umanesimo e del Rinascimento italiano, ai quali ci siamo riferiti in precedenza.

Per quanto riguarda, in modo più specifico e diretto, le politiche scolastiche, nel Manifesto programmatico troviamo scritto – ed è facile ed immediato cogliere l’attualità di questo punto di vista – che “in linea generale, sul terreno degli ordini politici e nell’ambito dello Stato comunitario, sempre in conformità con i criteri generali della sua azione politica, il Movimento Comunità pensa a una scuola largamente decentrata, più intimamente legata alle Regioni e alle Comunità, e richiede l’autonomia didattica e disciplinare dell’ordine degli insegnanti statali”.
Un ultimo accenno, per quanto fugace, va fatto alla questione degli edifici scolastici, tanto dibattuta e pubblicizzata in questi giorni. È interessante e certamente utile mettere a confronto la parzialità e – a volte – la superficialità delle proposte oggi circolanti con la considerazioni conclusive del Manifesto, che riprendono e ripropongono la relazione “Scuola e urbanistica”, tenuta da Riccardo Musatti al XIV Congresso Nazionale della Federazione Nazionale Insegnanti Scuole Medie, Roma 13/15-III-1952, e riportata negli Atti, editi, sotto il titolo «La parola della scuola», a Torino dal periodico ‘L’eco della scuola nuova’ : “ La scuola elementare e la scuola media sono destinate ad essere i centri attivi dell’intera comunità.

Il complesso scolastico, situato in posizione centrale, come cuore dell’intero dispositivo urbanistico, comprende sale di riunione, biblioteca e locali per la ricreazione ed i giuochi. Intorno, nella zona verde. di rispetto, sono sistemati i campi e le attrezzature sportive. Non soltanto la scolaresca iscritta è chiamata a fruire di questi servizi; l’intera comunità trova nel complesso scolastico il suo luogo d’incontro e il fulcro di ogni forma di vita associata.

Il legame fra scuola e città è di carattere organico. La vitalità di un complesso scolastico dipende dalla vitalità dell’unità cui appartiene. Il servizio che la scuola è chiamata a rendere alla comunità può essere determinato solo avendo ben presenti le caratteristiche funzionali della comunità. In tutta l’edilizia scolastica italiana si è sempre trascurato questo aspetto fondamentale. L ‘edificio scolastico è tradizionalmente inteso come un insieme di aule, completato da pochi uffici, da una palestra, da impianti igienici più o meno completi e, nei casi migliori, da un giardino. Spesso ci si limita alle aule, agli uffici e ai gabinetti. La causa di queste manchevolezze non è sempre la povertà di mezzi finanziari o la colposa inosservanza delle norme regolamentari. Quando si perde la vera funzione della scuola in tutto il complesso urbanistico, si può anche rinunciare a cuor leggero a questo o a quel servizio: l’essenzialità di esso diventa materia opinabile.

Concludendo, bisogna aver chiaro soprattutto un punto: il problema dell’edilizia scolastica non è un mero problema quantitativo; né è soltanto un problema di buona o cattiva architettura. Per risolverlo, occorre trasferirlo sull’unico piano cui attiene, sul piano urbanistico”.

 

 

 

 

 

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