Nel Retablo più bello della città il ricordo del crimine più efferato[di Maria Laura Ferru]

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Non capita spesso che una scena secondaria dia la chiave di lettura di tutta un’opera ma, nel caso del Retablo dei Beneficati conservato al Museo del Duomo, è successo proprio così. A osservarlo bene, l’angelo che si libra davanti ad una apertura a finestra tiene indirizzata la punta della bacchetta su un agglomerato architettonico nel quale non è difficile scorgere la chiesa ed il convento di san Domenico posti nel quartiere di Villanova a Cagliari. Davanti ad essi, se si dispone di un buon ingrandimento, si possono scorgere anche la chiesa e il campanile di san Giacomo dalla caratteristica forma a torre.

Tra i primi ad accorgersene e a scriverne fu lo storico cagliaritano Marcello Lostia che, nella sua opera sul signore di Mara Arbarei, mise in relazione quello scorcio realistico di paesaggio cagliaritano con i fatti di Cagliari che, iniziati nel 1552 nel quartiere di Castello, ebbero proprio nel convento di san Domenico triste ed efferato epilogo. Va da sé che, con tale impostazione, la datazione dell’opera e l’attribuzione stessa risultano logicamente da collocare nella seconda metà del Cinquecento.

Passata al vaglio di un esame avvertito, l’opera rivela che il pittore non si limitò a quel primo suggestivo avviso ma concepì tutto il quadro in maniera che fosse ricordo e monito dei tristi avvenimenti. Nella scelta dei due santi da collocare ai fianchi della Madonna è concentrato infatti il secondo avviso-ricordo: si tratta di san Bartolomeo e di san Girolamo così come Bartolomeo e Girolamo furono i nomi delle tragiche vittime di quei terribili fatti. Nel trattamento delle fisionomie e dell’atteggiamento di ciascuno dei due santi, di cui diede una versione che allude alla diversa vicenda di sofferenza che i due uomini ebbero nella realtà, il pittore fu insuperabile.

Bartolomeo Selles era consigliere della città di Cagliari quando, alcuni giorni prima della Pasqua del 1552, venne bastonato in pubblico da persona che dopo averlo assalito riuscì a fuggire senza essere individuata. Da quell’episodio derivò la fine della tranquillità dell’onesto consigliere e la sua esistenza fu segnata dalla depressione cui appare improntato anche il volto del san Bartolomeo. Il quale santo non tiene i suoi tradizionali attributi di santità con l’orgoglio del combattente ma li tiene con la rassegnazione del non-violento. E’ questo quello che racconta il pugnale tenuto a punta in su, a mo’ di penna, a sottolineare la natura pacifica dell’uomo che fu totalmente sconvolto dalla violenza degli avversari. Sconvolto fino a perdere il senno. Ai suoi piedi, nel Satana inconsueto con le braccia bloccate da ferri, si può leggere l’augurio di galera che il pittore sembra rivolgere agli avversari del povero, infelice Bartolomeo Selles.

Quanto a Gerolamo Selles, fratello di Bartolomeo, il ricordo della sua fine atroce fu trattato magistralmente dal pittore. L’uomo, del tutto estraneo alla vicenda del fratello ma in pericolo proprio per il legame di parentela, si rifugiò nel convento di san Domenico dove un manipolo di sicari forzò il luogo sacro per trapassarlo a fil di spada nel cortile del loggiato. A ben guardare la scena del san Girolamo in ginocchio di fronte al crocifisso, per quanto perfetta nei rimandi canonici, è difficile sfuggire alla forte impressione che il pittore abbia voluto rappresentare in realtà Girolamo Selles nell’ultimo attimo della sua vita mentre si lascia cadere atterrito davanti al suo assassino in un ultimo tentativo di supplica vicino al pozzo, nel cortile del convento di san Domenico.

Del resto risulta significativo anche il fatto che il pittore abbia scelto di rappresentare la scena del san Girolamo in preghiera e non quella del santo nel deserto intento alla scrittura perché la prima risultava più consona alla rappresentazione allusiva. Infine, dietro il san Girolamo, un leone dall’espressione umana: come non ricordare che a Venezia e in altre città nel Cinquecento le segnalazioni dei soprusi e dei delitti il pavido cittadino poteva farle infilando il suo biglietto nella buca a bocca di leone?

E forse fu proprio con quest’ultima trovata che il pittore chiarì all’osservatore che tutto il quadro aveva valore di denuncia, denuncia anonima naturalmente per non correre inutili pericoli: il quadro in effetti non ha firma né data. Tuttavia la collocazione nella seconda metà del Cinquecento non può non portarci a Michele Cavaro, cui per altro rimanda anche l’altissima qualità estetica del dipinto per il quale trasse modelli da varie stampe di Raffaello, adattate però ad una visione originalissima del solito e scontato tema di “madonna e santi”.

Con questo quadro Michele Cavaro, il Pintòr, si qualificò pittore civile impegnato nel sociale più di quanto finora fosse stato dato di sospettare.

*Esperta di ceramica sarda e perito in argenti antichi

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