Welfare teutonico e rigore italico [di Raffaele Deidda]

l43-angela-merkel-121108110440_big

Hartz IV è la legge che regolamenta il sistema di welfare della Germania. Prende nome da Peter Hartz, presidente della commissione che la elaborò. Prevede l’erogazione di sovvenzioni statali ai disoccupati di lungo periodo. La condizione è che il disoccupato non resti inattivo rinunciando a cercare un’occupazione. Deve infatti dimostrare di mantenere una presenza attiva nel mercato del lavoro e, se non accetta di essere rioccupato, subisce dei tagli dell’indennità fino all’interruzione definitiva degli assegni. Sono circa 6,2 milioni di persone che percepiscono i sussidi statali, 3.4 milioni di famiglie. Gli importi per i single partono da 374 euro mensili, più il costo dell’affitto di un appartamento. Per le famiglie il contributo è di 337 euro per ogni adulto e di 219 per ogni bambino, più le spese dell’affitto. Nel caso in cui, pur avendo un lavoro, una persona non riesca a mantenere la famiglia, interviene il supporto della Hartz IV.

Sono entusiasti i “germanisti” nostrani che vedono nel modello tedesco la “best practice” da esportare nel proprio paese, il vero e unico motore dell’economia europea coniugata col welfare. Ma è davvero tutto oro quello che luccica? Vero è che la legge Hartz fu approvata per fronteggiare il problema dei “professionisti della disoccupazione”, i fannulloni per vocazione, fenomeno inviso alla maggior parte dei cittadini tedeschi, ma ha prodotto soprattutto una forte moderazione salariale. In particolar modo con la nascita di agenzie che assumono i lavoratori a termine per poi cederli con la formula dell’affitto alle imprese. Annullando, di fatto, la garanzia del posto di lavoro. Ha inoltre consentito lavori con paghe risibili, da integrare con i sussidi statali. Configurando quella che per i tedeschi è considerata la più grave scorrettezza comunitaria degli italiani: gli aiuti di Stato alle imprese. Il risultato è stato comunque quello di far uscire dal mercato le aziende degli altri paesi UE, soprattutto italiane.

L’oro comincia a luccicare sempre meno perché i bassi salari e gli alti profitti non hanno stimolato la ricerca tecnologica e la formazione dei tecnici, che vengono importati da altri paesi. Le imprese tedesche hanno inoltre sempre meno sbocchi nei paesi europei deindustrializzati e in recessione. Guardano pertanto soprattutto ai mercati di Russia, Brasile, India, Sudafrica, Cina. Alcuni osservatori ritengono che anche gli atteggiamenti non proprio amichevoli nei confronti degli USA, fra i quali l’espulsione dalla Germania di alcuni diplomatici statunitensi accusati di spionaggio, siano stati una forma di resistenza alle pressioni americane per l’attuazione di sanzioni contro la Russia. Voluta dagli industriali tedeschi che perseguono alleanze e accordi commerciali con i Paesi Emergenti, i cosiddetti BRICS, di cui la Russia rappresenta una delle componenti più rilevanti. Per conseguire questo risultato la Germania deve continuare ad assicurarsi la moderazione salariale e l’eliminazione della concorrenza industriale degli altri paesi europei. Austerità ed euro sono i cardini che sorreggono la strategia economica tedesca.

Venendo all’Italia, la legge di riforma del mercato del lavoro italiano, la cosiddetta Jobs Act, nelle ambizioni del Governo Renzi dovrebbe “rivoluzionare il sistema di tutele sociali saldandolo al pacchetto di disposizioni per il riordino e la semplificazione dei rapporti di lavoro”. Il parere di Chiara Saraceno: “Anche Matteo Renzi, come chi lo ha preceduto (Monti e Letta), sembra ritenere che il problema principale del mercato del lavoro in Italia sia la rigidità dei contratti, non la carenza di domanda”. Qui, infatti, sta il vero punto: ha senso riformare ancora il mercato del lavoro senza aver proceduto, o procedere al contempo, alla riorganizzazione dell’apparato produttivo del paese?

Il rischio è che si aggravi il vuoto imprenditoriale e strategico e che la moderazione salariale e la deregolamentazione del lavoro incentivino le imprese a spostarsi verso i settori a basso contenuto tecnologico, dove prevale l’uso dell’occupazione non qualificata ed è scarsa la produttività. Ci sono poi i fondi per “allungare” l’Aspi (il sussidio di disoccupazione introdotto dalla riforma Fornero che sostituirà la Cigs in deroga) per i lavoratori a basso reddito? Ci sono i soldi per il sostegno alle giovani madri lavoratrici e agli “over 50” disoccupati da avvicinare alla pensione? Parrebbe di no. L’Italia non ha gli stessi soldi della Germania da dedicare al welfare. L’Italia è un paese indebitato e in recessione. Si può uscire dalla crisi solo con una ulteriore flessibilizzazione dei contratti di lavoro?

Alla ripresa dei lavori a settembre, (era più urgente portare casa la riforma del Senato prima della pausa estiva!) il Senato sarà chiamato a esprimersi sulla legge delega connessa al decreto Poletti, poi toccherà alla Camera. Si tornerà a discutere di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, di semplificazione delle procedure e degli adempimenti in materia. Ci sarà comunque, ancora tanto rigore. I soldi che la Germania mette strategicamente a correre per il welfare, l’Italia non li ha.

Il problema è che, nonostante i proclami del Governo, non ci sono neppure le risorse per rilanciare il sistema produttivo di questa nazione, che in un passato non remoto è stata la quinta più ricca del mondo. Dopo gli Stati Uniti, il Giappone, la Germania e la Francia.

Lascia un commento