Idee contro gli eco-furbi e sugli investimenti pubblici in energia [Adriano Bomboi]

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Concordo con Nicolò Migheli ed il suo articolo sulla piaga delle speculazioni energetiche che riguardano la Sardegna, come nel settore eolico e fotovoltaico. Le rinnovabili sono diventate un business per i classici predatori del territorio che incassano il frutto di questi investimenti, per poi, in breve tempo, abbandonare i campi a se stessi, e con tonnellate di ferraglia da smaltire. Ma vorrei sviluppare un ragionamento sul seguente passaggio di Migheli per arrivare a delle proposte:

Poiché l’energia è bene comune e le reti sono complesse, deve essere il pubblico a realizzare gli interventi. L’energia non può essere il far west, lasciata all’anarchia dei privati. E’ come chiedere ad ognuno di tracciarsi la strada da casa sua, col risultato di paralizzare la circolazione”.

Fino al 1999, prima della parziale privatizzazione di Enel, avvenuta grazie al Decreto Bersani del Governo D’Alema (D.L. 16-03-1999, n. 79), l’Italia non aveva ancora recepito la Direttiva comunitaria europea 96/92/CE- 1996. Il mercato, monopolistico e ingessato, privo di seri investimenti per il miglioramento degli impianti e delle reti (da allora passeranno a Terna S.p.a.) impediva una diversificazione delle fonti di approvvigionamento e in Sardegna consolidava il prezzo al rialzo dell’energia. Nel 1997 il problema portò alla simbolica occupazione della centrale Enel di Fiume Santo nel sassarese da parte di Sardigna Natzione. La successiva liberalizzazione creò le condizioni per risolvere i problemi ma di fatto non li affrontò mai seriamente. I vecchi potentati economici del settore sopravvivono sotto nuove forme ed il debole contesto sovranitario dell’Autonomia regionale, tra l’altro priva di un proprio Antitrust, consente di perpetuarli.

Uno di questi riguarda l’inquinante produzione energetica Sarlux, una joint-venture della Saras di Sarroch, che grazie alla delibera dei prezzi (CIP6, che dovrebbe promuovere l’incentivazione di energia da fonti rinnovabili), vende in realtà al nostro mercato l’energia ottenuta dagli scarti della raffinazione del petrolchimico. Naturalmente grazie al benestare della politica che non ha nulla da obiettare. Non a caso i consumatori pagano di più in bolletta le cosiddette essenzialità ad E.on, Enel ed al gruppo ottanese di Clivati, col probabile obiettivo di tenere il loro indotto, a fronte di impianti isolani pressoché obsoleti in rapporto al costo medio di produzione del kilowattora.

Infatti, da quando esiste l’elettrodotto SAPEI da 1000 megawatt che dal 2011 collega la Sardegna alla penisola, le essenzialità non avrebbero più ragioni di esistere, poiché l’isola non andrebbe più considerata come mercato chiuso e con produttori, che non investono, da sostenere. Mentre si esporta addirittura un surplus di produzione energetica locale ed i Sardi continuano a spendere più di altre Regioni per tenere in piedi questa baracca. Sarebbe interessante sentire al riguardo la posizione dell’assessore regionale ai lavori pubblici Paolo Maninchedda, sovranista e colbertista.

Oltre a queste rigidità di mercato causate dall’interventismo pubblico, che sigillano al rialzo i costi per il tessuto aziendale e civile della Sardegna, va ricordato che il pubblico non ha mai seriamente investito nell’infrastrutturazione energetica del territorio. Uno dei vari problemi, lamentati anche dal Movimento Pastori Sardi, non riguarda unicamente il prezzo dell’energia distribuita nel tessuto urbano, ma la scarsa presenza dei reticolati elettrici nel sistema rurale, che a differenza di altre Regioni in questo ambito ci vede notevolmente indietro. I motivi possono essere due: un economista potrebbe dire che il nanismo aziendale nell’agro-allevamento della Sardegna non giustifica un incremento degli investimenti nel settore.

Mentre un sospettoso potrebbe aggiungere che non ci sono abbastanza buste paga ricavabili per averne un valido ritorno elettorale, e dunque il tema non merita sufficienti attenzioni. Una delle varie soluzioni a questo problema, oltre a quella di pervenire ad un Antitrust locale, come proposto da Sa Natzione, fu promossa anche dai sardisti e da Paolo Maninchedda, sovranista, all’epoca meno colbertista, che propose la facoltà di estendere all’auto-produzione l’energia rinnovabile da parte delle aziende agricole stesse. In questo modo si rimuoverebbe automaticamente il problema degli speculatori esterni dell’energia, sempre a caccia di campi su cui intrufolarsi, e si lascerebbe al libero mercato locale la facoltà di decidere spontaneamente quanta energia produrre in base al fabbisogno necessario.

Perché non è la politica che deve decidere quanta e quale energia serve al nostro mercato. Ciò potrebbe persino stimolare numerose piccole aziende alla cooperazione negli investimenti. La difficoltà di reperire il credito da parte dei singoli e i rallentamenti apportati da Enel nell’interconnessione di tali impianti hanno fin’ora impedito il decollo di questa soluzione, ma su cui dovremmo tornare a ragionare.

In conclusione, è proprio la supposta anarchia dei privati che potrebbe aiutarci a risolvere la situazione, contro le suddette manfrine del settore pubblico. Il quale non può, non è mai riuscito a farlo e non vuole occuparsi con efficienza di una soluzione.

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