Il processo di deindustrializzazione sarda e l’assenza di un progetto industriale [di Janscky]

Votade bator mortos

Ammettiamolo, viviamo – nostro malgrado – in un’epoca di decadenza, nella quale la frase profetica di Marx ed Engels, che recita «l’insicurezza e il movimento perpetui distinguono l’epoca borghese  da tutte le precedenti […], dove si volatilizzano le immobili gerarchie sociali», leva il sonno agli economisti borghesi, involandoli con ali membranose in un tremendo abisso denso di incubi.

Molti sanno che la Sardegna – periferia dell’azienda Italia – ha imbucato la via dello smantellamento del tessuto industriale, però solo pochi sono a conoscenza del fatto che, oltre alla chiusura delle industrie tradizionali del tessile, della meccanica e della siderurgia, oggi stanno segnando pesantemente il passo anche le industrie dell’alta tecnologia – pregio e vanto di tutte le amministrazioni che si erano lanciate nella sfida della New Economy – nonché quelle del settore energetico su tutto il territorio nazionale.

Di fatto, la raffineria di Gela (Caltanissetta) ha appena paventato la possibilità di licenziamento per 3000 lavoratori dello stabilimento, senza contare quelli dell’indotto, che già è corsa voce anche in Sardegna che la medesima sorte potrebbe delinearsi all’orizzonte, sempre più cupo e plumbeo, degli operai sardi della SARAS, facendo correre lungo le loro schiene un brivido che, ahimè, è destinato a spegnersi in regioni deretaniche. Secondo quanto afferma il presidente dell’Unione petrolifera, Alessandro Gilotti,
commentando i licenziamenti presso l’impianto siciliano, sarebbe a rischio non solo il sito di Gela, ma tutte le raffinerie italiane, “anche le più moderne ed efficienti, a causa di una competizione internazionale insostenibile”.

In base a quanto riportato dall’Unione petrolifera, nel 2014 i consumi di petrolio italiani dovrebbero attestarsi intorno a 56 milioni di tonnellate, chiaro sintomo di una produzione industriale in costante declino, a fronte di una capacità di raffinazione di 99 milioni di tonnellate che produrranno un surplus di oltre 40 milioni di tonnellate. Volendo tirare le somme, l’elegia funebre della raffinazione italiana Gilotti la pronuncia con la frase conclusiva: “Parlare di investimenti in questa situazione non è possibile, anche perché economicamente non ha senso tenere in piedi attività industriali che non hanno prospettive“.

Nondimeno, come anticipato sopra, a mostrare sintomi di profonda sofferenza è anche il comparto dell’ICT, come sanno bene i lavoratori della società Akhela, i quali, proprio nei giorni scorsi, sono stati i destinatari di una missiva che preannuncia esuberi e tagli al personale, giustificati dal… “nobile” fine di mantenere in vita l’azienda. Si sa, bisogna sacrificarne alcuni per imprimere il suggello di nobiltà sulla fronte degli altri. E più tardi, benché sia superfluo aggiungerlo, anche coloro i quali vengono risparmiati oggi, domani diverranno l’agnello sacrificale da immolare sull’ara.

Qua nell’isola lo schema è sempre stato lo stesso: dal Continente arriva un imprenditore – che qualcuno ha amorevolmente ribattezzato prenditore , spolpa l’azienda suggendone ogni linfa finanziaria e vitale, affida il lavoro sporco a qualche tagliatore di teste e fa chiudere la baracca a un cinico uomo di numeri. E per Akhela pare debba andare proprio nel medesimo modo, dopo che lo stato e la Regione hanno contribuito con ingenti investimenti, tanto che ogni lavoratore è arrivato a costare ben 700 mila euro annui, contro una media nazionale di appena 100 mila euro. La domanda «Dove sono andati  a finire tutti i quattrini?“ è sciocca e speciosa. Tutti lo sanno.

I politici lo sanno! Gli operai lo sanno! solo che ogni volta che questi ultimi si danno la risposta, hanno la sensazione di danzare in mezzo ai demoni. Tutti loro erano stati assunti con i Contratti di Programma, tranquillizzati dagli ingenti finanziamenti per lo sviluppo economico e dalla promessa di prospettive di crescita del settore, adulati da favole su garanzie di mantenimento occupazionale, ma la realtà che si profila attorno è che la situazione sia in caduta libera, poiché l’emorragia industriale in atto rischia di far
collassare l’intera economia, così come si evince dalla concomitanza di situazioni di emergenza occupazionale legate ai casi Euralluminia, Keller ed E-on, per citarne solo alcune.

La cosa interessante è che Akhela possiede cinque sedi nazionali, ma solo su Macchiareddu è stata aperta la procedura di mobilità, sede che la Direzione continua a dipingere come la bad company, dove si concentrano i costi inutili. In questo modo, migliorando artificiosamente la redditività delle altre sedi, che sembrano apparentemente sane, possono essere portate avanti ulteriori operazioni di cessione, così come avvenuto recentemente per il ramo /finance/ di Roma, mettendo in modo irresponsabile a rischio la tenuta occupazionale e l’integrità dell’azienda.

Inoltre, ciò che salta subito agli occhi, è il fatto che la stortura della procedura implica una riduzione degli occupati nel settore produttivo della sede sarda, ma non tocca affatto il management,ovvero dirigenti e responsabili di primo livello, cioè proprio coloro ai quali è imputabile il macroscopico fallimento della gestione aziendale. Come dire, siamo alle solite. Si tratta, quindi, della becera politica di tagli del personale fondata sulla sciocca idea che si abbia a che fare con dipendenti superflui e con una chiara volontà di smantellamento della società vista l’assenza di un piano industriale che sia capace di rilanciare l’azienda stessa.

Tuttavia, come se non bastasse, Il risultato è che per l’ennesima volta l’isola si trova a svolgere il ruolo di colonia per sedicenti imprenditori, senza trascurare il fatto che il progetto Akhela era nato con ingenti finanziamenti pubblici del Piano di Rinascita destinati al Mezzogiorno italiano.

Ora, i lavoratori, giustamente spinti dalla necessità di salvaguardare il proprio posto di lavoro – molti hanno figli a carico, mutui da pagare, debiti contratti negli anni – sono anche pronti a sacrificarsi, proponendo addirittura essi stessi un contratto di solidarietà all’azienda e a quei vertici manageriali che sono stati o poco attenti all’andamento del bilancio o conniventi con un macchinario ben strutturato che in Italia, troppe volte, ha impoverito società e interi reparti produttivi che godevano di buona, se non
ottima salute. Gli esempi FIAT, Parmalat, Eni, Alitalia sono ben chiari a quanti hanno anche solo distrattamente seguito le vicende attraverso i telegiornali tra un una forchettata di spaghetti e l’altra.

Volendo analizzare la realtà economica e sociale da un più elevato livello di astrazione, va ricordato che a soffrire è l’intero mercato economico e del lavoro: i consumi sono in netto calo, la produzione langue, gli ordinativi scemano e la pletora di merci giace invenduta nei magazzini, sotto lo sguardo attonito di impotenti economisti. Ciò che appare più preoccupante è che anche la classe media, quella che un tempo veniva definita con un certo orgoglio aristocrazia operaia, ha imboccato ormai il cammino tenebroso della proletarizzazione.

Le certezze sono svanite, i discorsi sulle possibilità delle nuove tecnologie dissolte, l’entusiasmo per prospettive di quanto mai prossime e prorompenti crescite diradato come inconsistente nebbia. In verità, dal giorno in cui le cose hanno preso ad andare male, non vi è stata barba di progressista o ghigno di riformista capace di negare l’evidenza. Questi signori, nonostante abbiano cercato di mettere in conto tutte le sciagure finanziarie, nella loro incerta comprensione della crisi, non avevano previsto un tracollo economico di siffatta magnitudo.

Così, ora hanno iniziato a convocare alla corte di sua maestà il Capitalismo esperti di economia, e forse anche veggenti, cartomanti, maghi… e questi si prodigano nel gettare i pesi delle proprie congetture sui piatti della bilancia e, con lo sguardo attento dei pesatori di brillanti, di veleni e di polvere da sparo, scrutano le lancette e tutti i loro più infinitesimi spostamenti, per poi abbandonarsi in sterili riflessioni e frasi arzigogolate che da alcuni anni terminano tutte con la frase: «Signori, la crisi terminerà a breve!».

E via con l’entusiasmo generale, e con squilli di tromba e inviti all’ottimismo e alla fiducia, ma – come sanno bene i lavoratori sardi, e non solo, che giorno dopo giorno vanno ad ingrossare le file dei senza riserve – in un baluginare allucinato e febbrile essi procedono a tastoni, come un non vedente in una stanza semibuia.

Intanto, sono passati i giorni, i mesi e gli anni, e gli slanci di euforia vanno via via scemando, mentre la crisi continua con la propria ferocia a trangugiare, famelica, lavoratori, imprese e società a centinaia. Eppure, qui nell’isola i lavoratori di Akhela si sono perfino spinti coraggiosamente a confrontarsi con il governatore regionale al fine di ottenere qualche rassicurazione, ma la realtà è che nessuno possiede la formula per rimettere in sesto la situazione economica contingente. Similmente a quanto avvenuto nelle epoche passate, il Capitalismo avrà bisogno di misure di ben altra portata: come Cleopatra usava immergersi nel latte d’asina per mantenere la pelle del proprio corpo giovane, questo sistema di produzione necessiterà di un bagno di giovinezza fatto nel sangue di milioni di proletari di tutto il mondo, al fine di riprendere slancio e vivere un’altra fase espansiva e di crescita, come quella avutasi nel periodo immediatamente successivo al primo e al secondo conflitto mondiali.

*di Janscky for WEEK END MAGAZINE

 

One Comment

  1. Gianni Puggioni

    Scusami – pero veramente non capisco dove stai andando a parare. Sarebbe molto utile se spieghi la logica e i vantaggi di continuare a investire soldi pubblici in industria piuttosto che altri settori.
    Le attività industriali in Sardegna non si fanno perchè non ne vale la pena.
    Mercato piccolo, costi alti e lavoratori poco formati per quello che costano.
    Perchè continuare a mandare i soldi pubblici (cioe pagare noi cittadini centinaia di euro ciascunk per fare lavorare 3000 operai… Eh?!) per mantenere un comparto che non sta in piedi?
    Molti prodotti industriali sardi ai prezzi attuali sono fuori mercato.
    E’ dura guardare la realtà ma è meglio di fare gli struzzi.
    Da venditore di prodotti industriali sardi capirei il tentativo, ma se mi metto nei panni dei cittadini, la maggiorparte Quando va al supermercato se qualcosa è poù caro lo sceglie solo se la qualità lo giustifica. Purtroppo la Sardegna produce roba di qualità media a prezzi enormi, resi normali solo dai sussidi pubblici.

    E dura accettarlo ma per me i soldi sarebbero spesi meglio in altre cose.
    Saluti

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