Il Padiglione Casmez alla Fiera di Cagliari [di Aldo Lino]

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La Khaima, la tenda dei nomadi berberi, é disposta sopra un’armatura formata da due pilastri che sostengono una barra scolpita. Questo portico in legno é poi ancorato con una banda di tessuto a dei picchetti per mezzo di robuste corde. La tenda é realizzata dall’assemblaggio di bande di lana. Intorno, dei picchetti tendono la tela a 80 cm dal suolo, lasciando circolare l’aria in estate. In inverno invece si aggiungono tappeti, stuoie e quant’altro per fermare il vento e la sabbia.

In un ricco e meditato saggio, contenuto nel volume su Adalberto Libera pubblicato in occasione della mostra tenuta nel 1989 al Palazzo dell’ Albere a Trento, Franco Purini scriveva: “qualsiasi edificio può essere considerato, nella gerarchia dei suoi componenti, come una società di analoghi a quella umana. La concentrazione delle sue strutture portanti in pochi punti e la conseguente introduzione di grandi sbalzi acquistano per traslazione il significato di una semplificazione e di una radicalizzazione della composizione della compagine sociale, ridotta a pochi e importanti nuclei resistenti posti a una distanza tale, come i grandi piloni del Palazzo della Regione a Trento, da potersi osservare reciprocamente quasi come parti di un altro edificio. L’introduzione di grandi sbalzi consente inoltre la localizzazione di punti di vista dell’organismo che, pur essendo interni al manufatto, risultano anche, per la distanza dei suoi elementi di sostegno, come virtuali osservatori esterni. Calcolata enfasi tettonica, questa pratica dell’esasperazione strutturale, … si configura come la scoperta di una sovrastruttura simbolica che si traduce in un giudizio, e in una speranza, sull’intera società. Lo sbalzo rappresenta la società che si protende, che si progetta in un futuro desiderato”.

Questa linea di ragionamento, questo campo di lavoro, questa marcata sagoma incisa nell’orizzonte degli ideali umani, la ritroviamo costantemente in tutta la lunga esperienza professionale di Libera. Dai disegni giovanili degli studi sulle mensole, ai primi schizzi per il Palazzo della Civiltà italiana (volte incrociate con appoggi puntuali agli estremi), alle due versioni del Padiglione reclame per esposizione degli isolatori FIL (rotonde piastre semplicemente incastrate sulla lama verticale del logo dell’azienda o aggressivi becchi sporgenti da un traliccio in calcestruzzo, entrambi a reggere i grappoli di tazze di porcellana o di vetro isolante porta conduttori), agli eleganti balconi che vestono il fianco dei villini della Società Tirrena a Ostia, o a quelli più asciutti ed essenziali, ma ossessivamente ripetuti, della Casa INA di Trento, alle rampe delle scale e ai setti portanti delle case del quartiere Tuscolano, attaccati a terra come fossero pilastri, i fasci dei piloni di acciaio a sostegno del corpo di fabbrica della sede della Democrazia cristiana all’EUR…

Un tema di riflessione che emerge in tutti i periodi dell’attività di Adalberto Libera, quasi una linea di ragionamento parallela alla sua produzione più ufficiale, quella dei più celebrati e conosciuti Sacrario alla Mostra della Rivoluzione fascista, Palazzo dei ricevimenti e congressi all’EUR e Palazzo delle poste all’Aventino (esperienze tutte relative al suo cosiddetto “periodo romano”). Per non parlare della singolarissima esperienza della Casa Malaparte a Capri: capolavoro indiscusso eppure opera controversa, che comunque e in ogni modo, è il manifesto di un’intenzione, della volontà di sperimentare l’architettura razionale anche dentro i caratteri formali della mediterraneità, restituendo al razionalismo una presenza significativa nell’area geografica delle nostre latitudini, presenza che non si poteva alimentare solamente con le proposte e le realizzazioni del centro e del nord Europa.

Tema di riflessione che ritroviamo, in un’interessante sintesi, nel pregevole manufatto in calcestruzzo del Padiglione della Cassa per il Mezzogiorno alla Fiera campionaria di Cagliari (oggi nota come Sala Figari perché ha ospitato a lungo una grande tavola del pittore Filippo Figari), La fugace presenza locale del maestro ci ha restituito un’opera che testimonia con efficacia uno degli aspetti più significativi della ricerca progettuale di Libera.

Quattro appoggi puntuali, a formale due telai dal singolare profilo, che reggono le travi, ora intradossate ora estradossate, della struttura secondaria cui i solai, con i loro campi, si aggrappano e si appoggiano alternativamente, in linee di volta in volta orizzontali e inclinate. Si viene a formare così, nell’insieme, una coppia di grandi ali, separate da una sottile striscia di cielo, in equilibrio per mutuo contrasto grazie a due esili, impercettibili cerniere, che si toccano, penetrandosi reciprocamente, solo per pochi centimetri.

Sul fondo, a fermare lo sguardo, si ergono tre raggi di una sorta di sole nascente, un geometrico ventaglio di quadrati, col fianco a profilo cuneiforme per consentire loro di stare in piedi da soli senza altri sostegni, moduli misuratori della composizione architettonica dello spazio, nel piano e nell’alzato. Unico elemento verticale oltre agli indispensabili appoggi a terra, segno evidentemente leggero e passeggero, che si smaterializza da se come presenza costruita, ma materializza efficacemente anche l’interpretazione simbolica della speranza che si ritrova nelle parole di Franco Purini.

E su un terreno più squisitamente tecnico e funzionale, sul terreno delle scelte tipologiche, come giustamente fa notare Gianraffaele Loddo nel suo lavoro di studio sul Padiglione, le scelte di Libera sono chiarissime nelle poche parole della relazione di progetto: “Dato il clima tipicamente mediterraneo di Cagliari si è pensato ad un organismo adeguato a quelle condizioni climatiche e cioè ad uno spazio adombrato e ventilato” . Lo stesso Loddo ci suggerisce una possibile interpretazione dell’idea iniziale del progetto: “Libera aveva compiuto un viaggio in Marocco nel 1951 ed era tornato notevolmente impressionato dall’architettura locale … l’idea di fondo è semplice ma geniale, con una straordinaria, ma non casuale, assonanza con i costumi delle popolazioni nomadi del deserto … le cui abitazioni sono costituite da pali di legno su cui stendono pelli o tappeti lasciando le parti laterali completamente libere …”.

Questo riferimento è probabilmente quello che ha condizionato anche la scelta delle misure metriche e delle proporzioni in altezza. Per cui il Padiglione sembra quasi essere attaccato a terra con forza, quasi conficcato nel suolo, dove sembra che ci si debba abbassare per entrare, nonostante i cinque metri di sviluppo in altezza della parte centrale. Il tutto a scapito di una snellezza architettonica e ariosità spaziale che ci avrebbe maggiormente convinti e coinvolti.

Peraltro lo stesso Libera, su un particolare che viceversa quasi scatena la nostra fantasia e la nostra sensibilità, il taglio superiore dei solai, taglio che fa penetrare all’interno una bellissima lama di luce zenitale, è ancora più avaro di parole: “ Le quattro cerniere di appoggio e le due del solaio sono state messe in evidenza; al colmo la soletta è stata tagliata a tale scopo …”. Quindi nessuna suggestiva e sapiente manipolazione dello spazio con la complicità della luce, costretta ad una brusca accelerazione per entrare tutta insieme nella stretta feritoia: semplicemente un gesto di onestà e di sincerità strutturale.

La struttura appunto, pur nella sua complessità formale e arditezza statica, obbedisce soltanto a una scelta di semplice necessità, come viene esplicitato sempre nella relazione di progetto: “ … accettare la scelta statica e riconoscere in essa, senza l’ausilio di altri elementi di estetica gratuita, quei caratteri e quei valori figurativi che soli potessero essere il supporto e la coincidente sostanza dei valori estetici … “. Ritroviamo in queste parole il Libera della prima formazione, il Libera dei giovanili studi di matematica e di ingegneria che indubbiamente gli hanno lasciato nel cuore la passione per l’essenza delle cose, dei manufatti, delle tecniche e tecnologie, dei materiali, della materia, e il piacere di rendere evidente il nervosismo strutturale, celato e intestino che le compone.

Su questa linea possiamo leggere la copertura del padiglione, con la soletta tesa come una sottile pelle a rendere evidenti, con ostentata presenza, tutte le costole dell’organismo. Paradossalmente, anche nelle sue artificiali protesi, le grandi ancore d’acciaio che imbrigliano i capricci delle bizzarre travi di cemento: ironia della sorte, un problema statico intervenuto in corso d’opera è stato risolto col ricorso all’aiuto di due coppie di tiranti in acciaio, affioranti dai fianchi della trave quasi come curiosi bassorilievi, improbabili decorazioni della struttura, che fanno trasparire dell’armatura a dispetto della generosità delle sue dimensioni.

Il leggero “dinosauro” di Eugenio Montuori della Stazione Termini a Roma (progetto e realizzazione quasi contemporanei), qui diventa una bestia primordiale affaticata, sorpresa dall’incerto calpestio del terreno malfermo e cedevole su cui si appoggia, presuntuoso animale che articola con difficoltà le sue appendici, Le cosiddette “ali di gabbiano” dichiarano palesemente l’ambizione ma non riescono a planare come vorrebbero, rimangono basse, forse bagnate e quindi appesantite. A dispetto dell’opinione che, a posteriori comunemente diffusa, le vuole meraviglie dell’architettura del secondo dopoguerra.

Tutto ciò comunque non toglie che, parafrasando in ultima considerazione le stesse parole di Libera sull’opera di Pier Luigi Nervi, con questa fabbrica l’architetto trentino riesce a creare un edificio “che si identifica con la sue strutture” che “non ha una cultura che lo blocchi”, dove la forma nasce dal di dentro, lasciandosi alle spalle l’immaginario del mondo figurativo di tutte le tendenze culturali e gli stili precedentemente indagati, “… non bisogna pretendere dall’architettura troppa arte, basterebbe fare delle cose corrette… “. A meno che la correttezza costruttiva e la necessità statica e strutturale non siano anche qui, quello schermo inattaccabile di cui ci parla Claudia Conforti, che scrive, anche per questo caso di una “.. prova felicemente funambolica… “, “… schermo che, come nelle opere più felici di Morandi e di Zorzi, si è rivelato soprattutto un’astuzia difensiva dell’estro artistico …”.

Adalberto Libera ebbe poi altre occasioni di lavoro nel dopoguerra a Cagliari, ma questa del Padiglione della Cassa per il Mezzogiorno resta quella più significativa per leggere il tormentato approdo di un intellettuale che si era perso nella burrasca delle certezze del razionalismo e dei suoi interessati tutori. Burrasca che travolse un’intera generazione di architetti che, arrivati con grande entusiasmo all’Esposizione universale del 1942 a Roma, trovarono lì “ … il cimitero delle … sconfitte, (dove) ognuno ha perso come poteva … “.

*Architetto. Dipartimento di Architettura di Alghero Università di Sassari

One Comment

  1. aldo lino

    Grazie alla redazione di Sardegna Soprattutto di avermi ospitato!

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