La trasparenza dei processi di accoglienza e il dialogo con le popolazioni sono un antidoto al razzismo [di Antonietta Mazzette]

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La vicenda degli immigrati che per la prima volta, in modo significativo, sembra riguardare anche la Sardegna, può essere l’occasione per noi di sperimentare un modello diverso di accoglienza e integrazione. Le esperienze negative che si sono diffuse altrove possono essere un monito per i nostri governanti. A tale proposito, mi permetto di sottoporre alla riflessione i seguenti elementi.

Il primo è di tipo conoscitivo. Considerato che il numero di persone, seppure destinato a crescere, è abbastanza modesto (si aggirerebbe intorno alle 2-3 mila unità), sarebbe opportuno conoscere le vite di ognuna di queste persone. E, giacché, dalle parole del questore di Cagliari, emergerebbe il fatto che non si tratterebbe di una fase di provvisoria sosta, bensì della “meta definitiva”, sarebbe utile capire da quale sistema (seppure dissestato) sociale, culturale e di regole questi immigrati provengano.

Il secondo riguarda la necessità, fin da subito, di creare un canale comunicativo tra le nuove popolazioni e quelle locali. Per far ciò, è preliminare insegnare a questi stranieri la nostra lingua, non solo perché gli addetti ai lavori (forze dell’ordine, volontari, intermediari culturali e amministratori) siano messi in condizione di lavorare meglio, quanto, soprattutto, per consentire agli stranieri di conoscerci. I luoghi più idonei di insegnamento sono le scuole che, nella fase estiva, possono rimanere aperte a questa esigenza.

Il terzo elemento, conseguentemente, ha a che fare con il dare ai nuovi arrivati gli strumenti per capire in quale contesto sociale essi si trovino e quale sistema di regole debbano rispettare, non ultimo perché, al pari di ogni altro cittadino, anche per loro il rispetto dei diritti dovrebbe andare di pari passo con quello dei doveri.

Il quarto è far sì che il processo di integrazione non appaia ai sardi come un’usurpazione delle risorse, di per sé scarse. Ciò è tanto più necessario quanto più è elevato il livello di sofferenza dei sardi in termini di disoccupazione e povertà. Perché ciò non accada, è necessario coinvolgere più attori sociali e istituzionali (comprese l’università e la scuola) ed anche rendere noti e trasparenti tutti i passaggi, in particolare quelli riguardanti il concreto uso dei finanziamenti (a chi vanno, come vengono spesi, chi ne beneficerà anche in termini lavorativi). Le variegate forme di razzismo e intolleranza che si stanno diffondendo nel resto d’Italia, a partire dal Nord, sono anche il frutto di una cattiva gestione e di politiche che troppo spesso si alimentano di lacerazioni e contrapposizioni sociali, ma anche di poca trasparenza.

Il quinto elemento riguarda il bisogno di evitare forme di segregazione e ghettizzazione. Non solo perché ciò creerebbe disagi oltre che per gli stranieri, anche per le popolazioni locali, inducendo il cosiddetto effetto NIMBY (non nel mio giardino), ma anche perché l’accoglienza si tradurrebbe prevalentemente in una questione di controllo dell’ordine pubblico piuttosto che di controllo sociale. Mi rendo conto che c’è una prima fase di emergenza in cui gli stranieri devono essere accentrati, controllati (anche per motivi di salute pubblica), e così via. Ma la fase successiva la dovrebbero gestire direttamente i singoli territori e le amministrazioni comunali, naturalmente sotto la regia complessiva del governo regionale.

La vicenda degli arrivi di bambini, uomini e donne che fuggono dagli orrori della guerra e dalla fame è un fenomeno complicato ma che può essere governato con intelligenza, umanità e senza sprechi. I diffusi fatti corruttivi che hanno accompagnato anche questo fenomeno e di cui continuano ad arrivare mediaticamente gli echi, dovrebbero sollecitare la nostra attenzione ed allerta, a partire da quella degli amministratori.

La trasparenza dei processi di accoglienza e il continuo dialogo con le popolazioni locali costituiscono un antidoto certo. Inoltre, per i tanti giovani laureati e no, potrebbe costituire un’occasione (anche lavorativa) per mettersi in gioco, così come può esserlo per tutti quegli adulti che potrebbero prestare la loro opera volontaria: penso ai tanti insegnanti ora in pensione. Ciò che appare evidente è che le istituzioni regionali non devono essere lasciate sole in un momento così difficile.

One Comment

  1. Concordo con l’impostazione e con le proposte di Antonietta Mazzette. Occorre passare subito all’operatività, posto che si chiarisca quanti e chi tra gli immigrati decidano di fermarsi in Sardegna. Sembra che la gran parte vuole solo transitarvi e pertanto evita di farsi “riconoscere”, per non essere costretta a rimanervi contro la propria volontà. Ci sono molte altre questioni da chiarire, in capo al Governo italiano e all’Unione europea (la quale purtroppo colpevolmente non si è fatta pienamente carico del “problema” rispetto alle sue dimensioni straordinarie e drammatiche). Ma questa situazione non deve costituire motivo per noi sardi per rimandare la costruzione delle risposte più adeguate. Appunto perchè complesse e difficili richiedono studio e capacità di aggregare tutti i soggetti che possono intervenire utilmente, creando il consenso più vasto possibile, senza sottovalutare la capacità (contrastante e distruttiva) di quanti sollecitano il razzismo, purtroppo presente in certa misura in tutti noi. Ci possiamo riuscire se mettiamo in campo le nostre migliori risorse umane. Utilizzando la metafora della cucina: ci sono tutti gli ingredienti per realizzare una buona torta, ma occorre che i cuochi si mettano d’accordo. E i cuochi sono i nostri amministratori, in primis quelli regionali. Per proseguire fuori di metafora, ecco i principali ingredienti da mettere insieme: gli immigrati, i nostri giovani (e non solo) disoccupati, i nostri pensionati che vogliono rendersi utili (gratuitamente), le molte strutture immobiliari e inutilizzate (o parzialmente utilizzate) di cui disponiamo, i finanziamenti dedicati di provenienza comunitaria, le esigenze di lavori socialmente utili… Tutto va fatto nella massima trasparenza con chiare regolamentazioni, tra cui quelle che potremo chiamare “regole d’ingaggio” per quanti troveranno occupazione e reddito nelle diverse attività. Si può e si deve agire nel rispetto della legalità e con i tempi rapidi che la situazione richiede. Ecco perchè le prime a doversi mobilitare sono le Istituzioni, teoricamente già dotate di capacità organizzative, tra queste, come ha ben ricordato la prof. Mazzette, l’Università e la Scuola sarda.

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