Un progetto per la città: la ricomposizione di urbs e civitas [di Silvano Tagliagambe]

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Nei giorni scorsi ho ricevuto il BookPerformance Report del 2014 del libro People and Space. New forms of interaction in the city project, che ho scritto nel 2009 con Giovanni Maciocco, attesta una diffusione e un successo crescenti in Europa e negli Stati Uniti con 4.161 capitoli scaricati soltanto lo scorso anno a fronte dei 3.081 del precedente. Al di là della legittima soddisfazione per questo risultato mi sono chiesto le ragioni di questo interesse, anche all’estero, per un’opera il cui motivo conduttore è la critica dell’illusione, tipica del Movimento Moderno, che il miglioramento dell’ urbs, della città costruita e compatta, determini automaticamente il miglioramento della civitas, della città come comunità e come sfera pubblica.

Questa illusione ha provocato la concentrazione di tutti gli sforzi e gli interessi su un tipo di pianificazione che, disinteressandosi del rapporto specifico con i luoghi come contesti determinanti di cultura, tradizioni, storia, costumi, abitudini, ha avuto il duplice effetto di trasformare le città in non-luoghi e di smarrire ogni interesse per la pòlis come referente privilegiato dell’azione politica.

Questo punto di vista probabilmente spiega il motivo di attualità dell’analisi compiuta e le ragioni dell’interesse con cui viene seguita non solo nel nostro paese: sul piano politico la crisi della civitas si traduce nella rinuncia a impegnarsi a raccogliere, dopo averlo coltivato, il consenso popolare attorno a una progettualità (ormai inesistente), con conseguente concentrazione, in modo esclusivo, sulla soddisfazione delle rivendicazioni di una soggettività irrelata, individualizzata e ripiegata su di sé – ossia preoccupata di far valere, a seconda del contesto, il proprio godimento, la propria egemonia, una richiesta di riparazione per le proprie frustrazioni.

Ne sono scaturiti due processi involutivi i cui effetti sono sotto gli occhi di tutti: la deriva demagogica della politica, col risultato di limitarsi ad assecondare l’umore popolare del momento, e quella speculativa dell’economia, con il disprezzo verso tutto quanto ostacoli la libera affermazione e il domino delle élites. Per un verso, l’arte di compiacere le aspettative del demos e, per l’altro, l’insofferenza verso norme e divieti.

Il libro, denunciando la mancanza di un progetto, di ogni apertura sul futuro, che priva il tempo di qualsiasi orizzonte e spessore e obbliga a vivere nell’immediatezza, nella costante e disperante ripetizione quotidiana di sé, senza alcun orizzonte di attesa e di speranza, metteva in evidenza un fenomeno di cui allora si intravedevano appena i primi sintomi: la minaccia del disimpegno politico attraverso la politica stessa, che oggi si manifesta in modo eclatante attraverso la vistosa caduta d’interesse per la pratica del governo, per gli affari pubblici e per la partecipazione, testimoniata dalla crescente e ormai dilagante astensione dal voto.

La crisi delle forme tradizionali di mediazione sociale, che si esprime nella sempre più palese insofferenza per il faticoso ma imprescindibile lavoro della negoziazione tra i diversi interessi in gioco, sposta il baricentro dell’interesse e dell’azione politica dalle istituzioni, come il Parlamento, alla comunicazione mediatica, palcoscenico ideale per una recita a soggetto. Con la crisi della civitas e della mediazione tra psiche e communitas viene compromessa la mediazione necessaria alla socializzazione. L’illusione tipica del modernismo si è così tradotta sempre più nell’abbaglio di far vivere un soggetto a pretese totalizzanti, privo degli argini dettati dal vivere-in-comune Siamo tutti sempre più soli e isolati, nonostante la pletora e la potenza degli odierni mezzi comunicativi.

Il nostro volume del 2009 non si limitava però alla denuncia: esso proponeva un recupero della fluidità sociale a partire dalle situazioni dove sono presenti embrioni di civitas, cellule staminali di cittadinanza che si manifestano con pratiche sociali inedite. Queste situazioni sono gli spazi intermedi, che si presentano in forme che associano urbs e civitas – spazi fisici e spazi di possibile coesione sociale – in modi originali, attraverso pratiche sociali dello spazio non convenzionali, come avviene nelle periferie, nelle banlieue, in tutti quegli spazi della città non ancora consolidati e definiti e che sono per questo in attesa di altri significati.

In questo senso è cruciale il ruolo dei soggetti senza voce o soggetti di confine, che vivono appunto in questi spazi intermedi: soggetti considerati a torto marginali, che costituiscono ed esprimono le minoranze della città, di una città che non ha più una maggioranza coesa e consolidata. Per riprogettare la città come civitas occorre dunque assumere il concetto di minoranza come punto di vista esterno e alternativo a quelli tradizionali, dando voce ai soggetti più deboli e indifesi e prendendo le distanze da ogni tentazione di imboccare la scorciatoia di un passaggio in qualche modo lineare della politica dalla pianificazione astratta e a tavolino all’attuazione senza mediazione e senza partecipazione.

Solo partendo da questo concetto la politica può tornare ad assumere il compito di far emergere valori condivisi e di generare nuove istituzioni, senza procedere nella direzione di una sintesi politica nel senso usuale – del partito, del sindacato o di qualsivoglia altro soggetto collettivo tradizionale – per cominciare invece a cogliere e a tessere un processo di diffusione a rete e di passaggio da uno spazio, quale quello attuale, di reciproca estraneità a un processo di convergenza e di intersezione di microstrutture politiche e sociali, che è l’unico punto di partenza oggi possibile per ricominciare a rimettere la storia in cammino.

 

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