Il valore materiale ed immateriale della pastorizia sarda [di Giuseppe Pulina]

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Quanto vale la pastorizia sarda? E’ possibile, cioè, fornire una stima robusta che ci consenta di valutare i valori materiali e immateriali della pastorizia della nostra isola? La domanda non è oziosa, soprattutto alla luce dell’aspro dibattito che si è innescato in questo sito circa le presunte arretratezza e diseconomicità del nostro settore agropastorale rappresentate dalla Società Flumini Mannu nelle Relazioni di accompagnamento ai suoi progetti. Così parrebbe sia stato. Dato il mestiere che esercito e che da quasi 40 anni mi occupo di questo settore, credo che la risposta al quesito non possa che basarsi su elementi oggettivi, numeri e dati.

Iniziamo dal fatturato del settore. Le produzioni ovine e caprine hanno generato, nell’annata appena trascorsa, un prodotto lordo a bocca di azienda (cioè, prima della trasformazione) di circa 720 milioni di euro (600 milioni il settore ovino e 100 quello caprino) ovvero il 40% di quello dell’intera agricoltura, occupando una superficie di oltre 1,2 milioni di ettari (fra seminativi, pascoli, prati pascoli, meriagos e cespugliati) pari ad oltre il 60% dell’intera superficie isolana.

I settori a monte (fornitori di beni e servizi) e a valle (trasformazione e prima commercializzazione dei prodotti) della pastorizia sarda, hanno generato un fatturato di oltre 350 milioni (di cui soltanto 150 milioni di alimenti zootecnici), i primi, e un fatturato differenziale (dedotto cioè il valore del latte e della carne pagata agli allevatori) di oltre 170 milioni (di cui 120 milioni a favore dei caseifici), i secondi. In sostanza, la filiera ha un fatturato aggregato di 1,3 miliardi annui, superiore all’intero valore del PSR 2014-2020 (e questo in risposta a chi sostiene che la pastorizia sia assistita).

Nel settore aggregato trovano lavoro oltre 17.000 allevatori e coadiuvanti e almeno 2.500 altri lavoratori. Sotto il profilo commerciale, la Sardegna è leader indiscusso a livello mondiale nell’export dei formaggi ovini, con oltre 200 milioni di euro nel 2014, a distanza seguita dalla Francia con 30 milioni di euro. Le aziende agropastorali in Sardegna sono circa 14.000 (di cui 12.500 ovine), per una dimensione media di 220 femmine adulte (cinquant’anni fa erano appena 70!) e una dimensione media (comprese le terre pubbliche pascolate) di circa 100 ettari.

Oltre la metà delle imprese è dotata di impianti di mungitura meccanica e circa l’80% di ricoveri per animali, alimenti e attrezzi. Quasi tutte possiedono una trattrice e altri mezzi operativi. L’acqua potabile e l’energia elettrica sono la norma. Il valore del capitale bestiame presente è di 1 miliardo di euro, quello di edifici e annessi di circa 5 miliardi di euro; il valore fondiario (cioè quello della nuda terra) non si conta, ma i miglioramenti fondiari degli ultimi 50 anni, ne hanno generato un aumento valutabile in oltre mezzo miliardo.

Il capitale umano, inteso come formazione e qualificazione degli addetti alla pastorizia (dato di difficilissima valutazione), può essere stimato in circa mezzo miliardo. In sintesi, valutando a blocco i valori degli impianti di trasformazione, di macellazione, dei mangimifici e di tutto ciò che contorna il sistema agropastorale sardo, in circa 5 miliardi, possiamo affermare che quest’ultimo vale complessivamente circa 13 miliardi di euro. Ometto di valutare le esternalità della filiera, fra cui il paesaggio e il mantenimento di cultura e tradizioni (lascio questa stima all’amico Nicolò Migheli, molto più competente di me in questo campo).

Come è evidente, il sistema agropastorale sardo rappresenta una delle voci più importanti dell’economia delle zone interne della Sardegna, valorizza risorse naturali, quali il pascolo (l’80% degli alimenti consumati dai piccoli ruminanti sono erba), occupa in maniere sostenibile la maggiore estensione del suolo isolano, ne connota profondamente il paesaggio fisico e antropologico e rappresenta il maggiore elemento di mantenimento del metabolismo sociale di aree affette da pesanti fenomeni di spopolamento. Per capire meglio a che punto siamo nel processo di modernizzazione del settore ovino e caprino e riflettere con cognizione di causa sul fatto che se venisse meno l’attività pastorale la Sardegna perderebbe la parte più profonda della sua anima, riporto un brano di un mio libro in fase di pubblicazione che ripercorre la storia della pastorizia dal dopoguerra ad oggi.

La pastorizia sarda ha subito, dal dopoguerra ad oggi, tali trasformazioni che le condizioni di origine sembrano tanto remote quanto incredibili. I drivers principali sono stati la stabilizzazione aziendale, l’aumento, a volte anche notevole, del capitale bestiame dominato dal singolo allevatore, la mercantilizzazione quasi totale della produzione, la meccanizzazione aziendale, l’introduzione delle tecnologie alimentari, sanitarie e di gestione in grado di migliorare decisamente il livello di vita dei lavoratori e l’apertura della pastorizia verso ambiti di servizio una volta esclusivo appannaggio dei compendi naturalistici o dei parchi. Il futuro della professione pastore in Sardegna si presenta migliore del cinquantennio appena passato: un mercato del formaggio in via di espansione e i corsi delle esportazioni in rialzo fanno ben sperare per la conservazione del più importante settore produttivo agricolo isolano. La condizione è che la pastorizia rientri al centro dell’attenzione collettiva della Società sarda e che non sia relegata ai fatti di cronaca nera o alle proteste, a volte violente, degli allevatori per reclamare il sostegno per la loro sopravvivenza.”

2 Comments

  1. Giuliano

    Leggendo questo articolo e analizzandone i numeri si possono trarre le seguenti considerazioni: 1) la pastorizia rappresenta il 4% del P.I.L. sardo a fronte di un’occupazione del territorio pari a 1,2 milioni di ettari; 2) ogni ettaro destinato alla pastorizia produce circa 1000€ all’anno fra attività dirette ed indirette; 3) un impianto solare termodinamico potrebbe sottrarre circa 230 ettari, con un calo del P.I.L. pari a 230.000€ all’anno; 4) nell’impianto solare termodinamico lavorerebbero a regime 50 persone percependo uno stipendio lordo di almeno 25.000€ all’anno e producendo un P.I.L. pari a 1,25 milioni di euro all’anno; 5) solo contando gli stipendi diretti, senza contare la realizzazione dell’impianto (personale e aziende realizzatrici) e l’indotto, l’impianto produrrebbe 1 milione di euro in più all’anno di P.I.L. Non capisco perchè si voglia mettere in alternativa e competizione la pastorizia con il solare termodinamico, visto che i terreni sottratti a questa attività sono pari a 0,025% del totale. Ma quanti sono i pastori che operano in quel territorio?

  2. Giuliano

    Sono perplesso, pensavo che a questi semplici calcoli il Prof. Pulina avesse qualcosa da dire, magari spiegare perchè contrapporre attività differenti che non si danneggiano visti i numeri risicati dei terreni occupati. Diversa è la situazione della chimica verde, dove ingenti quantità di terriorio verrebbero coltivate a cardo.

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