Lo scontro tra Arabia Saudita e Iran passa per l’Opec [di Nicola Pedde]

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L’HuffPost 07/04/2016 . Gli equilibri nel mercato petrolifero non sono mai stati così instabili nel corso dell’ultimo quarto di secolo, e buona parte di questa fragilità è stata creata proprio dal dominus per eccellenza della produzione mondiale: l’Arabia Saudita. Il costante crollo dei prezzi, che dopo una discesa inarrestabile di quasi tre anni registra oggi valori prossimi ai 30 dollari al barile, ha ragioni multiple. La crisi economica mondiale ha senz’altro fatto drasticamente diminuire la domanda, limitando sia i consumi per uso civile che quelli della produzione industriale, in un trend di crisi che ha fatto registrare valori in costante calo. Gli stock petroliferi hanno al tempo stesso raggiunto cifre record, permettendo ai mercati di giudicare in modo del tutto stabile il fattore di rischio degli approvvigionamenti, influendo quindi in chiave ribassista sul mercato finanziario e le sue logiche speculative.

L’eccesso di greggio sul mercato in una fase di flessione della domanda e di stock saturi, tuttavia, è anche l’effetto di una precisa e calcolata politica speculativa dell’Arabia Saudita, che sulla leva dei prezzi intende operare una battaglia multipla per il consolidamento delle proprie strategie. Due sono in particolar modo gli obiettivi di Riyadh. Il primo è quello di impedire al settore dello shale oil and gas di diventare una realtà competitiva sul mercato nord americano, andando nel medio periodo ad intaccare il ruolo della produzione tradizionale ed in particolare quello dei produttori Opec. Il secondo è invece quello di impedire all’Iran di sfruttare la revoca delle sanzioni per ristrutturare il proprio sistema energetico e reinserirsi ai vertici della classifica dei produttori.

Per determinare quindi l’antieconomicità del primo obiettivo e per impedire il consolidamento del secondo,l’Arabia Saudita ha deciso di influire pesantemente sui mercati non solo mantenendo ad elevatissimi livelli la propria produzione, ma anche quella della gran parte dei membri del sodalizio dell’Opec, con il risultato di un vertiginoso incremento dell’offerta, della saturazione delle scorte e del contestuale crollo del prezzo del greggio.

Questo obiettivo, nei calcoli di Riyadh, è sostenibile nel breve e nel medio periodo grazie al vantaggio competitivo di un basso prezzo di breakeven per il proprio sistema dell’industria petrolifera che, con un prezzo medio produzione stimato in media tra i 15 e i 18 dollari al barile, permette una maggiore sopravvivenza di mercato rispetto alla maggior parte dei competitor.

Il calcolo saudita del proprio vantaggio competitivo è tuttavia alquanto elementare e fragile, non considerando non solo l’impatto di lungo periodo di un ammanco così significativo nelle entrate delle casse del regno (la produzione petrolifera vale circa l’80% del Pil di Riyadh), ma anche il folle ed incontrollato rateo di spesa corrente per sostenere le discutibili scelte politiche e strategiche dell’Arabia Saudita nella regione, che hanno intaccato non poco il valore complessivo delle risorse economiche nazionali.

Se è quindi vero – in linea del tutto teorica – che Riyadh potrebbe spingere il mercato sino ad un ulteriore crollo dei prezzi al di sotto della forbice dei 25-30 US$, restando l’Aramco in attivo grazie ad un costo di produzione in media inferiore, è altrettanto vero che al tempo stesso le casse dello Stato verrebbero velocemente prosciugate nel mantenimento della spesa corrente e della protezione degli interessi finanziari della famiglia reale, determinando di fatto il collasso economico dell’Arabia Saudita in un lasso di tempo considerevolmente breve.

È quindi una sorta di gioco d’azzardo quello dei sauditi nei confronti del mercato globale e dell’odiato Iran, che rischia tuttavia per la prima volta di compromettere la stabilità del regno e di fatto la sua continuità. L’obiettivo attuale dei sauditi è oggi quello di consolidare il proprio ruolo attraverso un congelamento della produzione petrolifera proposto ai membri dell’Opec nell’ottica di mantenere elevato il proprio output a danno di quello di paesi come l’Iran, che, forti della revoca delle sanzioni, cercano al contrario di incrementare la produzione per generare flussi positivi di cassa da investire sul potenziamento della produzione e della diversificazione industriale.

Anche il prezzo di breakeven iraniano è altamente competitivo, potendosi con ogni probabilità collocare nella stesso range di quello saudita, ma Tehran non può permettersi in questo momento il lusso di una produzione al prezzo di costo, dovendo al contrario cercare di massimizzare i ritorni della produzione per accelerare al massimo l’ammodernamento di infrastrutture ormai obsolete e non più in grado di assicurare alcun concreto incremento dei ratei produttivi. Per impedire che questo accada, l’Arabia Saudita ha quindi chiamato a raccolta i membri dell’Opec, proponendo un congelamento della produzione al fine di favorire una stabilizzazione dei prezzi e una graduale ripresa, cercando di quindi forzare la mano dell’Iran in direzione di una strategia produttiva di fatto del tutto contraria agli interessi di Tehran.

La conferenza del 17 aprile e l’incremento della conflittualità tra Iran e Arabia Saudita. Il prossimo 7 aprile l’Arabia Saudita ha organizzato una riunione straordinaria dell’Opec aperta anche alla partecipazione russa (che non è parte del cartello dei produttori), con all’ordine del giorno la proposta di congelare i livelli di produzione concordando una strategia di crescita del mercato tra i vari attori del mercato.

Una proposta allettante, se fosse sincera e se soprattutto non fosse lanciata proprio da chi ha volontariamente contribuito ad affossare il mercato nel perseguimento dei propri obiettivi politici e strategici. Riyadh non sembra tuttavia porsi alcuno scrupolo in questa direzione, coinvolgendo anche la Russia – i cui dati economici sono terribilmente negativi – nell’ottica di una sinergia di mercato che possa alla fine esercitare forti pressioni su Tehran affinché adotti quelle strategie suicide che i sui nemici nemmeno troppo velatamente le richiedono a gran voce.

Forti di un pre-accordo sigòlato con i Russi a Doha lo scorso febbraio (e sostenuto anche dal Qatar e dal Venezuela), i sauditi intendono adesso presentare questa strategia all’Opec nel corso di una riunione straordinaria che si terrà ancora una volta in Qatar, e che ha come scopo primario quello di raccogliere il maggior numero di adesioni, mettendo al tempo stesso alle corde l’Iran, potenzialmente isolandolo dal resto della comunità dei produttori.

Per convincere i propri sodali, Riyadh presenta dati incoraggianti di mercato costruiti su timide crescite del prezzo favorite da una intensa speculazione degli ultimi giorni – spinta dalle sole aspettative di successo della prossima riunione Opec – e su previsioni globali di netta crescita a partire dal 2017 quando l’Asia dovrebbe tornare a trainare la crescita dei mercati.

Questo dato, tratto dall’ultimo outlook dell’Agenzia Internazionale dell’Energia (l’AIE), ipotizza una ripresa dei mercati considerando ormai prossima una disponibilità finanziaria al sostegno degli investimenti, senza tuttavia dare alcuna concreta indicazione di come – e soprattutto quando – questo potrebbe materializzarsi in misura tale da poter definitivamente annunciare un trend in controtendenza del mercato petrolifero. Quello che Riyadh propone e chiede all’Opec, quindi, è l’adesione ad una strategia di congelamento della propria produzione petrolifera in base ai valori dello scorso gennaio (che per l’Arabia Saudita corrispondono a 10,6 milioni di barili al giorno), promettendo una crescita del mercato e dei prezzi entro 12/18 mesi.

Quello che invece Riyadh non dice, ma che è evidente, riguarda la vera natura di un accordo di tal fatta. La produzione che l’Arabia Saudita si impegnerebbe a congelare è tutt’altro che limitata, di fatto non mutando in alcun modo l’attuale orientamento del mercato e le sue potenzialità. Riyadh non ha proposto alcun taglio significativo alla propria produzione, quindi, dimostrando di voler proseguire nell’intento di indebolire da un lato il comparto energetico statunitense ma, soprattutto, di voler impedire qualsiasi ipotesi di crescita economica per l’Iran.

Come ha giustamente ricordato l’analista d Bloomberg Julian Lee in una recente intervista, l’apertura dell’Arabia Saudita ad una discussione sui prezzi non può in alcun modo essere definita come un gesto di altruismo. La strategia che sottende alla conferenza del 17 aprile è quindi quella di dare qualche parziale risposta alle – giustissime – domande dei membri del cartello produttivo, senza tuttavia voler in alcun modo mutare la strategia di fondo. I prezzi devono quindi restare nell’ottica di Riyadh nell’ambito di una forbice medio-bassa, e questo andamento – per produrre i risultati desiderati – deve mantenersi costante per almeno un altro anno. L’Arabia Saudita cercherà quindi di favorire incrementi minimali e altalenanti per fornire una risposta ai propri alleati regionali e di cartello, ma non intende permettere nell’immediato alcun significativo mutamento dell’orientamento generale del mercato.

La risposta iraniana e il “blocco navale” saudita. La risposta della Repubblica islamica alla proposta saudita di congelamento è stata chiaramente negativa. Per bocca del proprio ministro del petrolio, Bijan Zanganeh, Theran ha chiesto come precondizione per la partecipazione al vertice la concessione di una deroga all’Iran fino al raggiungimento di una quota produttiva comparabile con quella pre-sanzioni, e quindi orientativamente collocata tra i 4,3/4,5 milioni di barili al giorno.

Sulla proposta di Tehran si sono invece registrate due diverse tendenze in Arabia Saudita, con il netto rifiuto espresso da Mohammad bin Salman al Saud – potente e molto discusso figlio dell’attuale sovrano, autore ed artefice di una politica particolarmente aggressiva nei confronti dell’Iran – e la cauta valutazione della richiesta tra le frange che si oppongono al contrario alla radicale linea politica dell’attuale esecutivo.

Appare chiaro a Riyadh come l’Iran non intenda in alcun modo aderire ad un congelamento della produzione, percepito come un attacco diretto ai propri interessi economici ma anche e soprattutto alla luce di una ripresa delle esportazioni che nel mese di febbraio ha fatto già registrare un incremento che ha permesso di superare la soglia dei 2 milioni di barili al giorno (oggi circa 2,25 Mbd), con prospettive incoraggianti di crescita sui mercati asiatici e di vitale importanza per il consolidamento politico dell’attuale governo iraniano.

Sembra quindi alquanto improbabile che al vertice di Doha del 17 aprile si possa raggiungere qualche forma di accordo, e molti tra i membri dell’Opec sembrano essere allarmati al punto di invitare alla cooperazione anche i produttori non-membri, nel disperato tentativo di limitare l’output produttivo altrui mantenendo tuttavia i massimi livelli il proprio.

L’unica possibile soluzione all’impasse negoziale appare quindi connessa all’adozione di una maggiore flessibilità saudita, che tuttavia colliderebbe con l’obiettivo primario di colpire l’Iran, rendendo in tal modo estremamente difficile e delicata la definizione della proposta in seno all’Opec. A complicare ulteriormente la crisi, purtroppo, è invece stata ancora una volta l’Arabia Saudita il 4 aprile, quando ha annunciato la decisione unilaterale di voler impedire il traffico navale nelle sue acque territoriali  (e quelle del Bahrain) a qualsiasi nave su cui sia caricato greggio prodotto in Iran.

Una ritorsione intesa secondo Riyadh ad ammorbidire la posizione dell’Iran sul congelamento della produzione, che non ha alcuna capacità di produrre effetti concreti al traffico navale iraniano nel Golfo Persico ma che rischia di inasprire lungo un percorso di crisi senza ritorno le già tesissime relazioni tra Arabia Saudita ed Iran.

Il nervosismo dell’Arabia Saudita sembra ora spingersi in direzione di una strategia più aggressiva, fatta anche di una possibile prossima svalutazione del riyal saudita e dell’incremento della competitività sul fronte dei prezzi, con il rischio tuttavia di un pericoloso quanto potenzialmente inarrestabile declino economico, da cui Riyadh potrebbe non riuscire più a risollevarsi

*Direttore Institute of Global Studies

 

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