La teoria delle “finestre rotte” e i processi di sensemaking: il caso della statua di Carlo Felice [di Giuseppe Melis]

Carlo Felice

1.L’abitudine di convivere con le finestre rotte. La teoria delle “finestre rotte” fa riferimento a un esperimento di psicologia sociale, condotto nel 1969 presso l’Università di Stanford, dal prof. Philip Zimbardo. Lo studioso dimostrò che non è la povertà ad innescare comportamenti criminali ma il senso di deterioramento, di disinteresse, di non curanza che si genera su una situazione qualsiasi, tale per cui si diffonde la percezione che i codici di convivenza, una volta rotti, inducano le persone a pensare che le regole e più in generale qualsiasi codice di regolazione sociale sia del tutto inutile, generando in questo modo un progressivo deterioramento delle stesse.

L’esempio è proprio quello di un vetro che si rompe e non viene riparato, dando luogo ad un progressivo decadimento dell’edificio, tale per cui dopo il primo vetro rotto, se ne rompe un altro, e così via tutti gli altri elementi dell’edificio. Ecco perché quando non si interviene subito per rimettere in ordine una situazione negativa, presto si innescherà un processo di decadimento senza fine. “Se una comunità presenta segni di deterioramento e questo è qualcosa che sembra non interessare a nessuno, allora lì si genererà la criminalità. Se sono tollerati piccoli reati come parcheggio in luogo vietato, superamento del limite di velocità o passare col semaforo rosso, se questi piccoli “difetti” o errori non sono puniti, si svilupperanno “difetti maggiori” e poi i crimini più gravi” (http://www.unitresorrentina.org/foto/24-forum/85-la-teoria-delle-finestre-rotte).

Dal punto di vista di questo scritto, la non conoscenza della storia della Sardegna, è come una finestra rotta di casa che non viene aggiustata e che fa deperire la casa. Fuor di metafora, i Sardi cresciuti senza conoscere la storia della propria terra e dei propri antenati (ma che non conoscono pure la geografia, la fauna, la flora, la geologia, ecc.) concorrono a far deperire la propria casa: non la conoscono e non la rispettano, non la conoscono e si abituano a non conoscerla e pertanto non sanno di non sapere.

Non solo, ma se non la conosci non la ami e se non la ami ti è indifferente. Se poi invece dicessi di amarla, quanto questo amore è consapevole o piuttosto superficiale ed effimero (basato solo sul mare azzurro, sul sole cocente, sui panorami mozzafiato, ma non su nuraghi e chiese, piuttosto che su pittori e scultori, ecc.).  L’abitudine a convivere con la non conoscenza della propria storia, fa si che le persone possano interagire con il reale affidandosi esclusivamente a ciò che essi vedono e sentono nel contingente, seguendo il vento del momento al pari di una moda. In altre parole mancano di radici, cioè quegli agganci alla propria terra che rende le persone consapevoli di ciò che hanno ma anche di ciò che servirebbe per stare meglio.

È sulla base di queste considerazioni che così come non si avverte la mancata conoscenza della propria storia come una lacuna da colmare, analogamente non si avverte neppure la necessità di conoscere la propria lingua, non si avverte la necessità di tutelare il proprio patrimonio culturale, naturale, ecc. E non avvertendo queste necessità, non ci si rende di vivere in una casa con le finestre rotte e, di converso, ci si abitua a questo modo di vivere tanto che giorno dopo giorno quella casa deperisce, viene meno cioè l’attaccamento alla propria terra e ai valori che essa possiede, sostituiti, forse, da altri valori, comunque estranei ad essa.

Ecco perchè molte persone in generale e giovani di oggi in particolare, di sardo hanno solo la città di nascita, e siccome poi fanno difficoltà ad interagire in modo corretto con questa terra, prima di tutto perché non sono nella condizione di “inventarsi” un lavoro, accade con sempre più frequenza che ci sia chi la percepisce come matrigna, giungendo alla conclusione che per essi c’è solo una via d’uscita: quella di scappare, di fuggire, perché le condizioni di esistenza sono tali per cui non si trova soddisfazione alle proprie ambizioni lavorative, non si sente di appartenere a questa terra, non c’è nulla che li tenga legati, neppure gli affetti che in molti casi paiono effimeri e utilitaristici.

Di fronte a questa situazione chi ha responsabilità di qualsiasi tipo dovrebbe chiedersi: perché ci siamo abituati a vivere con le finestre rotte? Perché una finestra rotta non genera “fastidio”, “dolore”, tali per cui ci si impegna per “aggiustarle”. Cosa si può fare perché si inverta questa cattiva abitudine?

2. Conoscere la storia per riconoscere noi stessi. Il bambino impara a riconoscersi attraverso una sequenza ripetuta di azioni volte a vedersi allo specchio, ad ascoltare la propria voce, a toccare la propria pelle. Nello stesso tempo impara a riconoscere il contesto che gli sta intorno sempre attraverso i propri sensi che sollecitati generano la memoria della sua esperienza. La combinazione di questi atti di riconoscimento interni ed esterni plasma l’identità dell’individuo, la sua personalità, che quindi è, nel contempo, relazionale, posizionale e contestuale. Ciascuno di noi, pertanto, è il prodotto storico delle quotidiane esperienze di relazione con il mondo.

Ciò permette di dire che ciascuno ha una propria identità frutto di questo processo storico ma, a questo punto, si può anche affermare che la formazione di questa identità è fortemente condizionata, per esempio, dall’aver vissuto in una casa con le finestre rotte. Ecco perché tanti Sardi non sentono la mancanza di determinate conoscenze. Perché ci è mancato e ci manca ancora oggi il rapporto con una parte di mondo, quello della storia della nostra terra, nelle sue diverse declinazioni della storia, della geografia, della lingua, ecc..

Se poi accade che le esperienze di apprendimento cui siamo stati sottoposti (a scuola in modo particolare) sono le storie di “altri”, è molto probabile che il processo di auto identificazione avvenga secondo quei modelli “altri”. Il risultato è che tanti sardi sono “apolidi” nella terra che li ha visti nascere e crescere e ciò ha fatto maturare in essi un senso di rapporto schizofrenico, di amore (spesso effimero e superficiale) e odio (rappresentato dalla voglia di scappare).

È ovvio che chi non sa, non ha consapevolezza di non sapere ed è qui che spetterebbe alle classi dirigenti più consapevoli intervenire con appropriati investimenti “infrastrutturali” volti ad “aggiustare” la gran mole di case con le finestre rotte con le quali ci siamo, purtroppo, abituati a convivere: infrastrutturazione che dovrebbe avvenire prima di tutto e soprattutto nelle scuole con l’insegnamento della storia di questa terra, ma anche della lingua sarda.

3. La conoscenza della propria storia come base di processi di sensemaking. Se si conosce la propria storia, si è in grado di riconoscere meglio se stessi e il contesto circostante, si dispone cioè di nuovi codici atti ad identificare la realtà in modo differente. Il che vuol dire che ciò che si osserva viene letto e interpretato in base a nuovi codici e questo vale in generale e vale per i contesti in cui viviamo. Conoscere la propria storia ci rende consapevoli dei vetri rotti con cui si è convissuto fino a quel momento ed è ovvio che in questo modo nasce un fastidio per qualcosa che si capisce dovrebbe essere diverso.

Ecco pertanto che quanto si viene a scoprire che in una delle strade principali della città in cui si vive si trova una statua dedicata ad un personaggio che, grazie al processo di studio della storia, si scopre non essere stato un benefattore ma un tiranno che ha soggiogato la popolazione, l’ha sfruttata per il solo proprio interesse e piacere, allora sorge spontanea la domanda: ma perché a costui è dedicata una statua? E perché addirittura gli è stata dedicata una strada?

Se poi si scopre che la decisione di realizzare la statua nasce in seno a organismi dediti ad acquisire la benevolenza del sovrano per tutelare propri interessi e poi si scopre che tutta la toponomastica di quelle aree venne modificata proprio in quel periodo di dominazione come modo per affermare la sovranità di un regno e sottomettere anche in questo modo la popolazione residente, allora le domande dovrebbero generare un “dolore” ancora più acuto.

Ed è qui che si inseriscono i processi di “sensemaking” di cui è autore lo studioso Karl Weick (1995) che sviluppò le proprie riflessioni intorno ai processi organizzativi e, in quest’ambito, ai processi cognitivi. Questi ultimi “sono quei processi, messi in atto da un soggetto (sia esso un individuo o un’organizzazione), che gli consentono di conferire senso ai propri flussi di esperienza (Bartezzaghi, 2010). Secondo Weick, pertanto, i processi di creazione di senso (sensemaking) coincidono esattamente con i processi di organizzazione (organizing). In altre parole, organizzare corrisponde a dare senso ai flussi di esperienza”(Bartezzaghi, 2010).

Questo significa, per esempio, che le scelte di una comunità, attraverso le sue istituzioni rappresentative, sono l’esito di un processo di sensemaking, perché conferiscono significato ai luoghi e alle relazioni tra luoghi e persone. E questo implica che se una comunità ritiene consapevolmente che alcuni dei significati ereditati dal passato siano inadeguati o controproducenti possa porre in campo delle strategie volte a ridefinire il senso di quegli spazi. Operazioni come queste non solo sono legittime ma sono auspicabili perché è tramite l’attivazione di un ambiente desiderato è possibile favorire una diversa presa di coscienza della comunità residente in quel contesto e, di conseguenza, un’identità più consapevole di ciò che essa vuole essere anche rispetto a terzi con cui entra in relazione.

Va da sé che è proprio la Politica, quella con la P maiuscola, che operando delle scelte nel territorio di sua competenza, che possono essere di fare e di non fare, conferisce un senso a quel contesto, un senso che può essere di comunità consapevole della propria storia proiettata verso il futuro, oppure comunità semplicemente localizzata in un territorio, ma senza legami col passato, che pure vuole costruire un futuro ma lo fa senza radici, da apolide.

Chiaramente, il Consiglio comunale, in quanto rappresentante della popolazione, dovrebbe avere sempre una attenzione particolare nei confronti del territorio e della popolazione che rappresenta, non essendo stato investito con una delega in bianco.

4. Il sensemaking territoriale tra innovazione e barriere culturali. Il termine “Innovazione” è uno di quei concetti ripetuti come non mai, ma proprio per questo rischia di essere abusato e svuotato di significati: si pensi che nel 2014, questa parola è comparsa in più di 14.000 articoli pubblicati in Svizzera, secondo la banca dati dei media elvetici SMD. Letteralmente, “innovazione” significa “novità”, “rinnovamento” ed etimologicamente la parola deriva dal latino “novus” (nuovo) e “innovatio” (equivalente di “qualcosa di nuovo”).

In economia, per esempio, l’innovazione è connaturata all’esistenza dell’impresa: Joseph Schumpeter definiva l’imprenditore come colui che innova, per significare che se manca questa attività non esiste l’imprenditore e non esiste l’impresa. Ora, innovare implica cambiare, eppure quando si deve cambiare si va incontro a difficoltà enormi: accade cioè che anche chi parla di cambiamento, lo pensa per gli altri e quasi mai per se stesso, di conseguenza ci sono persone che entrano in ansia, che vivono il cambiamento come un trauma, come spiegano bene gli psicologi, così come ci sono quelli contrari ai cambiamenti perché dalla situazione esistente traggono dei benefici personali, anche se vanno a discapito di interessi più generali.

Per quanto riguarda la paura del cambiamento essa deriva, essenzialmente, dal timore di uscire dal proprio ambiente “protetto”, anche quando non è considerato perfetto e soddisfacente. Ciò impedisce a molti non solo di vivere il nuovo, ma di allargare gli orizzonti della mente. Eppure è noto che un ambiente protetto, se immobile nel tempo, a lungo andare rischia di diventare una prigione; “c’è chi, per non cambiarlo, preferisce reprimere i propri sentimenti e le proprie esigenze, non volendo rendersi conto che l’affrontare una situazione nuova è un’ulteriore possibilità di migliorarsi, mettersi in gioco, evolvere, dare ascolto ai propri bisogni e desideri” (Steri, 2011).

Ciò che più spaventa spesso è la paura di lasciare il vecchio, il passato, piuttosto che scoprire e costruire il futuro, oltre che aver timore di fallire, magari per l’ennesima volta. Sul piano individuale ci possono essere diverse soluzioni che portano a vincere la paura del cambiamento e a migliorarsi: “lavorare sulla propria autostima per conoscere e scoprire le proprie risorse; non essere impulsivi e vedere nel cambiamento una possibilità di miglioramento; capire che la vita è dinamica e che cambiare significa maturare; allargare i propri orizzonti e darsi una piacevole opportunità di sperimentare e conoscere altro” (Steri, 2011).

Ora, se questo sul piano individuale è un fenomeno di cui si occupano psicologi, come lo si può considerare invece sul piano collettivo, di una comunità insediata in un certo territorio? In altre parole, perché un’azione di innovazione che intende creare nuovi significati in uno spazio urbano, crea paura, ansia, fastidio, terrore addirittura e, conseguentemente, fiera opposizione? Se una comunità per il tramite delle sue istituzioni rappresentative decide di intervenire su un certo spazio per ridisegnare il senso dello stesso, perché questo genera reazioni negative che tendono a contrastare il cambiamento, l’innovazione, l’attivazione di nuovi significati?

E perché mai un’azione legittima di questo tipo dovrebbe configurarsi come un’operazione di “cancellazione” del passato e non come un’ulteriore “stratificazione storica” volta a mettere in ordine qualcosa (aggiustare le finestre rotte) di cui si è presa consapevolezza?

5.Proposte per una riprogettazione consapevole dello spazio occupato dalla statua di Carlo Felice. I punti trattati in precedenza costituiscono l’impianto concettuale su cui si basa la petizione “spostiamo la statua di Carlo Felice”, iniziativa con la quale si chiede all’istituzione municipale di Cagliari di ragionare sul senso dello spazio oggi denominato “Largo Carlo Felice”.

I presupposti da cui nasce l’iniziativa sono da ascrivere alla necessità di aggiustare le “finestre rotte” mettendo in ordine fatti avvenuti nel passato secondo criteri che restituiscano a questo popolo di cagliaritani e sardi la fierezza di chi avendo patito tirannie di ogni tipo, oggi vuole guardare al presente e al futuro conscio del proprio passato. In altre parole, mostrare in modo acritico simboli negativi, nella toponomastica e negli arredi urbani, significa perpetuare l’idea della convivenza con le “finestre rotte” cui si è fatto cenno inizialmente.

Se si vuole intervenire ricostruendo il senso di quegli spazi è necessario essere conseguenti, riposizionando, non cancellando, i simboli di quel passato in contesti più adeguati per poterli riconoscere meglio e ricordare per non cadere più nella tentazione di accettare l’idea della sottomissione al tiranno di turno che ciclicamente la storia mette di fronte, spesso sotto le suadenti spoglie di “benefattori” che pensano solo al proprio interesse (come dimostra peraltro la storia dell’industrializzazione della Sardegna). In concreto cosa significa tutto questo?

In sintesi:

  1. Occorre che la municipalità consideri come elemento indispensabile e irrinunciabile la formazione dei propri giovani alla storia della città e della Sardegna tutta, a partire dalle scuole elementari fino a tutta la scuola dell’obbligo. Ciò nasce dalla constatazione in base alla quale i programmi ministeriali dello stato italiano non contemplano la nostra isola nello studio della storia. Questo è gravissimo per la formazione di un’identità consapevole, che traendo spunto da quanto di bene e di male accadde nei secoli trascorsi generi quelle motivazioni volte a sentire la responsabilità di migliorarsi, di guardare con fiducia al futuro, di considerare le proprie radici importanti sia per la crescita individuale di ogni individuo che per sviluppare il senso di appartenenza al popolo sardo.
  2. La presa di coscienza della propria storia ha come conseguenza quella di mettere ordine tra eventi positivi e negativi. Gli storici ci raccontano che il periodo della dominazione sabauda è stato caratterizzato da condizioni di vita sociale di povertà e arretratezza, di incapacità dei sovrani di capire la natura delle richieste provenienti da diversi strati della popolazione e dalla conseguente adozione di misure volte a reprimere pesantemente, anche con il sangue, ogni anelito di rivendicazione di condizioni di vita migliori. La casa Savoia, inoltre, per imporre la propria presenza adottò tra i diversi provvedimenti anche quello di modificare la toponomastica dei centri abitati tra cui Cagliari: “Nelle intitolazioni delle vie di Cagliari (ma anche delle altre città sarde) è incisa la biografia della nostra nazione, e della sua abdicazione rispetto a se stessa” (Mongili, 2016). È da queste considerazioni che allora emerge (o dovrebbe emergere) quella consapevolezza volta a riprendere in mano il proprio destino, dando un senso più consono a quei luoghi, un senso coerente con l’orgoglio di chi rifiuta la tirannia: questo può avvenire cambiando il nome della strada da “largo Carlo Felice” in, per esempio, “largo 28 aprile 1794. Die de sa Sardigna”. In questa modifica si sostanzia il fulcro dell’operazione di sensemaking richiamato in precedenza.
  3. La logica conseguenza della presa di coscienza che si dovrebbe sostanziare nel riprogettare il significato di quello spazio dal punto di vista simbolico modificando la toponomastica della strada, dovrebbe poi trovare completamento con lo spostamento della statua di Carlo Felice in luogo più consono alla conservazione di una statua rappresentativa di un tiranno. In particolare, per far si che non si dimentichino le gesta di questo tiranno si propone la sistemazione della statua in uno spazio museale nel quale, corredata di appropriata didascalia, possa veicolare il giusto messaggio di conoscenza a quanti vengono a visitare la città, a partire dai suoi residenti e in particolare dagli studenti che dovrebbero essere istruiti adeguatamente come indicato nel precedente punto 1.
  4. Così come sul piano della toponomastica si sostituisce un richiamo positivo ad uno negativo, analogamente, se si reputa che la collocazione più adeguata della statua di Carlo Felice sia la cittadella dei musei di Cagliari, luogo nel quale a suo tempo venne forgiata, si propone la sostituzione con quella di un personaggio che ha combattuto la tirannia dei Savoia, che potrebbe essere Giovanni Maria Angioy, ma potrebbe essere anche un fatto, sempre riconducibile a Carlo Felice, quale per esempio un monumento ai martiri di Palabanda. Monumento la cui realizzazione potrebbe essere realizzata da un artista sardo e donata alla municipalità cagliaritana.

6. I vincoli di legge e le modalità operative. Le statue si configurano come beni mobili e, quando rivestono interesse dal punto di vista storico culturale, sono assoggettate al Codice dei beni culturali e del paesaggio. Dal punto di vista di ciò che interessa la proposta, la statua della quale si richiede lo spostamento, è assoggettata ad autorizzazione del Ministero dei beni culturali ai sensi dell’articolo 21 comma 1, lettera b, mentre al comma 5 dello stesso articolo si precisa che “L’autorizzazione è resa su progetto o, qualora sufficiente, su descrizione tecnica dell’intervento, presentati dal richiedente, e può contenere prescrizioni”.

Dal che si evince che il Comune, una volta deliberata la decisione di spostare la statua, deve predisporre, attraverso il proprio ufficio tecnico, un progetto che spieghi le motivazioni culturali che stanno a base della decisione e le modalità tecnico operative per dar seguito a tale decisione.

Peraltro è già accaduto in Italia che si siano assunti provvedimenti di spostamento delle statue (per esempio http://www.quicosenza.it/news/le-notizie-dell-area-urbana-di-cosenza/cosenza/86077-statue-migranti-su-corso-mazzini), il che significa che salvo i casi di rischio di danneggiamento o distruzione non dovrebbe esserci alcun motivo per negare l’autorizzazione, soprattutto perché poi la ricollocazione nello spazio museale citato ne arricchirebbe il valore storico e culturale, permettendo in quella sede di corredare la statua di ogni informazione utile a dare un senso ad oggi inesistente.

Chiaramente si tratta di un insieme di azioni che comportano spese la cui copertura può essere garantita anche da contributi volontari della cittadinanza, visto che tutta l’operazione nasce su iniziativa di un comitato spontaneo che in virtù della rilevanza simbolica attribuita alla stessa si darebbe carico di lanciare una apposita campagna di crowdfunding. Il Comune potrebbe intanto deliberare la volontà di procedere nella direzione auspicata, stabilire una differenziazione degli interventi e fare la stima dei costi, subordinando la realizzazione al recupero di almeno una percentuale significativa delle risorse necessarie per dar seguito all’iniziativa.

7. Percorsi auspicati e percorsi possibili. Il percorso auspicato è ovviamente quello che contempla le quattro richieste della petizione, quale conseguenza della presa di consapevolezza dell’opportunità di ripensare il senso di quello spazio sito al centro della capitale della Sardegna.

Ovviamente ciò che conta per i promotori dell’iniziativa è avviare il processo di acquisizione di consapevolezza che non è né rapido né scontato per chi manifesta sempre dubbi, paure, oppure è contrario per principio o perché quei simboli sono funzionali ad una idea di società basata su chi comanda e chi subisce. Ciò che appare imprescindibile e non rimandabile è la realizzazione dei punti 1 e 2, riguardanti l’insegnamento immediato della storia sarda nelle scuole e la revisione della toponomastica di quello spazio di città.

Quanto ai contrari per principio o per visione ideologica forse vale la pena ricordare che questa iniziativa, oltre ad aver già fatto discutere centinaia di persone, forse migliaia, ha superato i confini della Sardegna, al punto da meritare la replica piccata di uno degli eredi della famiglia Savoia e del rappresentante dell’UMI (Unione Monarchici Italiani), i quali si sono espressi in modo nettamente contrario ad una ipotesi di questo genere.

Evidentemente, l’iniziativa ha colto nel segno, e chi si oppone, al di là di paure e pregiudizi, forse non ha veramente a cuore la crescita consapevole del popolo sardo, che potrà esserci solo se prenderà coscienza della propria storia e delle vessazioni che ha subito nei secoli, non certo per ordire vendette senza senso, ma per ritrovare quell’orgoglio di popolo che vuole uscire con le proprie forze dalla condizione di dipendenza nella quale fino ad ora ha vissuto e di assumersi responsabilmente l’onore e l’onere delle decisioni riguardanti il proprio futuro.

Bibliografia

Bartezzaghi E. (2010). L’organizzazione d’impresa. Etas.

Mongili A. (2016). Carlo Felice e gli altri. www.sardegnasoprattutto.com/archives/10224

Sotgiu G. (1982). L’età dei Savoia. Brigaglia M. (a cura di). La Sardegna. Edizioni della Torre.

Steri C. (2011). Perchè il cambiamento ci fa tanta paura? http://caterinasteri.blog.tiscali.it/2011/10/27/perche-il-cambiamento-ci-fa-tanta-paura/

Weick K. E. (1995). Sensemaking in Organizations, Sage Publications (trad. it. Senso e significato nell’organizzazione, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1997).

4 Comments

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  2. Carlo Todde

    concordo in pieno, tranne che per l’uso come disgiuntivo della parola piuttosto.

  3. Luca Guala

    viaggio spesso per lavoro in Russia. In ogni città russa c’è una “piazza Lenin” con una statua di V. I. Lenin che nessuno si sogna di rimuovere, anche se il passato comunista, nella Russia moderna, è piuttosto criticato. Però le statue di Stalin sono state rimosse quasi tutte. Forse dovremmo calibrare meglio il nostro concetto di “tiranno”.

  4. Giuseppe Aresu

    In qualche tempo disponi il “campo”, poi spargi i “semi”, alla fine arriva il “raccolto”. La crescita della collettività.

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