Autonomia e autonomisti in Sardegna [di Antonio Gramsci]

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Una vera e propria corrente separatista non esiste in Sardegna. Il sardo, per sua natura apatico e diffidente, rifugge da idee di carattere nettamente rivoluzionario e preferisce cullarsi nell’attesa messianica che qualche Governo italiano, in un giorno ancora molto in là da venire, commosso di tanta rassegnazione regali alla Sardegna, magari come strenna natalizia, un governo regionale bello e confezionato, tale da soddisfare il gusto di tutti senza disturbare il chilo a nessuno. E nella dolce attesa il sorrisetto sardonico affiora alle labbra per commentare gli sforzi che alcuni solitari compiono per creare in Sardegna un movimento, non separatista, chè la parola brucia – ma semplicemente autonomista.

La riesumazione del verbo autonomista non risale a molto tempo fa. E’ bastato che un avvocato lanciasse al pubblico un suo opuscoletto dal titolo suggestivo «Autonomia?» perchè tutti si precipitassero per acquistarlo, per leggerlo, per commentarlo. Un giornale ispirato dallo stesso autore impossessatosi della materia cercò di dare maggior consistenza all’idea, sforzandosi di divulgarla e di chiarirla. E questo fu un bene, perchè, ad onor del vero, non brillava per eccessiva chiarezza, anzi lasciava nel lettore il dubbio che neppure l’autore percepisse nitidamente i fini a cui tendeva. Si ebbe così una specie di epidemia autonomistica.

Tutti ne parlavano, tutti ne chiedevano a voce bassa, però, nei lieti conversari, come si usa tra persone dabbene. Non si trattava, in fondo, di una cosa tanto malvagia: una autonomia regionale onestamente concepita, senza velleità rivoluzionarie, un problema da studiare pacatamente, un ‘accademia, insomma, in cui si sarebbero potute cimentare le forze più giovani dell’isola. Gli stessi deputati sardi, che pure ad ogni idea nuova sentono traballare sotto il deretano il cadreghino di Montecitorio, la accolsero con malcelata simpatia. Chi lo sa: essi sarebbero potuti diventare i numi del minuscolo olimpo sardo!

Passata però questa settimana di passione autonomistica, gli entusiasmi cominciarono a svanire ed oggi dell’innumere falange non è rimasta che un’esigua pattuglia che compie le sue evoluzioni a tempo perso sulle colonne dei quotidiani locali. Dopo questo preambolo è d’uopo che i lettori abbiano una nozione, di quelli che sono gli scopi che si propongono di raggiungere gli autonomisti e di quali mezzi intendono valersi.

Due giovani si sono occupati con una certa serietà di intenti della questione: un socialdemocratico: il dott. A. Corsi e un combattente il prof. E. Pilia. Il primo, prendendo lo spunto dagli scritti precedenti e da un progettato Commissariato Civile per la Sardegna, esamina le varie soluzioni del problema regionale e si pronuncia favorevolmente a un ampio decentramento amministrativo. In sostanza questo: al potere centrale dovrebbero essere lasciate le funzioni di carattere generale quali la politica estera ed interna, la giustizia, servizi pubblici e tutti quei problemi riguardanti tutto lo Stato, mentre il consesso regionale (i consessi provinciali dovrebbero sparire per dar luogo a questo) dovrebbe avere larghissime attribuzioni, tali da consentire che esso assolva al compito di provvedere a tutte le molteplici esigenze locali. Ne conseguirebbero necessariamente altre sostanziali modifiche nella pubblica amministrazione, quali l’abolizione delle Prefetture, l’autonomia dei Comuni ecc ..

Questa riforma – secondo il Corsi – annullerebbe quindi i disastrosi effetti della elefantiasi burocratica che rallegra il nostro paese. Mentre il dott. Corsi esamina il problema da un punto di vista che … chiameremo nazionale il prof. Pilia, caldo sostenitore della autonomia, lo studia da un punto di vista essenzialmente regionale. In un opuscolo egli si sforza di darne le basi, i limiti e le forme.

Come in una rapida visione cinematografica egli ci presenta dalle origini, tutte le dolorose vicende storiche della Sardegna, fino alle ultime sopportate con pazienza e rassegnazione, all’ombra dello scudo sabaudo, per dedurne che solo da un governo regionale l’isola può sperare nel risanamento dei suoi non pochi e non lievi mali. La Sardegna maltrattata, sfruttata nei suoi uomini e nelle sue ricchezze, per risorgere a novella vita deve governarsi da sè. Questo il motivo dominante, e a confortare la tesi: cifre sul movimento commerciale, statistiche sulla produzione, dati matematici inoppugnabili sulle nostre ricchezze. Conclusione dunque: la Sardegna può fare da sè.

Tanto il Corsi che il Pilia per diverse vie arrivano però alle stesse conclusioni pratiche. Il Pilia inoltre ci dà un abbozzo del come la Sardegna dovrebbe reggere i propri destini: costituzione di un Consiglio Regionale elettivo con attribuzioni quasi identiche a quelle indicate dal Corsi. Distinzione delle finanze isolane da quelle della nazione, pur contribuendo l’isola in giusta proporzione alle spese dello Stato. Potere esecutivo esercitato da un Commissario civile di nomina parlamentare, ecc ..

Il lettore giunto a questo punto si domanderà dove è andato a finire il separatisrno sardo. Rispondiamo subito: il separatismo – secondo il Pilia – avrà ragione d’essere soltanto quando la rivoluzione comunista avrà trionfato in Italia.

«Solamente quindi contro un’Italia bolscevica dominata dalla tirannide di un proletariato industriale crapulone e ozioso i contadini sardi possono e debbono pensare a rivendicare tutta intera la loro secolare libertà». Ecco in poche righe condensata l’essenza del separatismo sardo. E chi scrive così si propone di ringiovanire la Sardegna! Alla larga da questo Voronoff in 64°!

Queste note ho scritto alla vigilia del Congresso del PSd’a che raccoglie la maggior parte degli ex combattenti sardi, Congresso che si ripromette di trattare ampiamente tutte le questioni isolane e principalmente quella dell’autonomia. Per non offendere la verità è bene si sappia che il proletariato sardo – quello che dovrebbe sopportare le spese al momento buono – è assente a queste inutili accademie.

* Gianfranco Contu, Il pensiero autonomista  e federalista sardo in Tuveri, Asproni, Lussu,Gramsci e Simon Mossa, Cagliari 2008 pp.120-121 da «L’Ordine Nuovo»  12 aprile 1921.

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