Il nostro normale è anormale negli sguardi altrui. Su Tullio De Mauro e i parlamentari del PCI [di Alessandro Mongili]

altara

Tullio De Mauro è morto in questo inizio di 2017. C’è un episodio della sua vicenda intellettuale e umana che lo lega alla nostra storia, e che mi ha sempre incuriosito. Si tratta di un episodio che lui amava raccontare, sui suoi rapporti con la cosiddetta “sinistra sarda”.

L’episodio si riferisce agli Anni Settanta e a un incontro con i parlamentari sardi del PCI, fatto per spiegar loro i vantaggi e la giustezza di una politica linguistica di parità, la stessa che oggi è inscritta nella Carta europea delle lingue che l’Italia, unico Paese d’Europa, non ha ancora ratificato. Alla sua dotta ma chiara spiegazione risposero i nostri compagni parlamentari: “Professore, lingua sarda? Ma perché ci vuole condannare al passato? Perché dobbiamo restare arretrati noi sardi?

In questo dialogo c’è tutta la storia della sinistra sarda e delle sue politiche di “sviluppo”, e c’è tutta la storia del suo fallimento, quella dello sviluppo senza progresso, e alla fine senza neanche sviluppo. Unu sperdimentu, diremmo in sardo.

Però c’è anche un equivoco di fondo. Quello che i ceti che dominano la Sardegna – sostanzialmente le burocrazie amministrative e accademiche, il ceto politico parassitario dei franchising che fanno capo a Roma o a Milano con camarille aggiunte e agGiunte a denominazione d’origine perfino locale, la classe imprenditoriale assistita, un agguerrito gruppo di intellettuali e artisti che vivono di soldi pubblici e senza un pubblico – pensano che sia “sviluppo”, cioè l’adozione imitativa di linguaggi considerati elevati in ragione della loro origine esogena, cioè italiana, non lo è nello sguardo di chi si trova effettivamente su un piano meno provinciale del nostro.

Questa potrebbe essere materia infinita per i comici se costoro non fossero troppo presi dal ridere dell’accento sardo. Si tratta di una situazione grottesca in cui i gruppi che comandano in Sardegna scambiano per modello da imitare cose italiane che i grandi italiani, come lo fu certamente Tullio De Mauro, non possono che trovare imbarazzante.

E’ il caso del rispetto della diversità linguistica e dei diritti di parità che questo rispetto genera.  Nella sua recente Prefazione a Letterature nascoste di Anna Bògaro, pubblicata nel 2010, De Mauro sosteneva che

Nonostante il solenne impegno dell’articolo 6 della Costituzione del 1948, ci son voluti anni di fatiche e di pene perché l’intellettualità italiana e la classe politica si rendessero conto che, sì, in Italia si parlano anche lingue diverse dall’italiano e dal variegato blocco dei dialetti italiani settentrionali (galloitalici e veneti) e centromeridionali”, un rendersi conto molto limitato, che ci mette fuori dall’Europa e dal mondo civile non solo occidentale.

Prendere a modello l’Italia è, per noi Sardi, sempre pericoloso, perché è l’Italia ad essere “arretrata”, se proprio lo si vuole.

In questi giorni sto organizzando con alcuni attivisti una Cunferèntzia aberta de su sardu, che si terrà a Nuoro presso l’Exmè, sabato 14 Gennaio (www.acordu.eu, per informazioni ulteriori). Ancora oggi, e sembra incredibile, in pratica è quasi impossibile trovare persone che sappiano scrivere in sardo, se non con ricerche degne dei servizi segreti, e senza scomodare aderenze a LSC, Arrègulas o a qualsiasi tentativo di sistematizzazione. Proprio semplicemente scrivere in sardo, anche malissimo.

Nulla, la gente ne ha quasi paura. Questa situazione avrebbe, credo, scandalizzato De Mauro, o qualsiasi altra persona civile che abbia la fortuna di vivere in un posto civile.

3 Comments

  1. Giovanni Scano

    Sul sardo, da sinistra (credo).
    Sviluppo e progresso non sono sinonimi, come diceva Armando Cossutta negli anni settanta. Se per sviluppo si intende la semplice crescita degli indicatori economici. Perché vi sia progresso ci deve essere anche, secondo me, miglioramento della qualità della vita. Per un po’ di tempo, con la politica dei piani di rinascita, questo in Sardegna c’è stato.
    Poi però i nodi sono venuti al pettine. Non poteva durare a lungo un’industria basata su materie prime di importazione. E per di più con l’abbandono o quasi di quei settori che fino ad allora avevano costituito l’economia della Sardegna: agricoltura e pastorizia. L’attività mineraria è stata redditizia finché si era in regime di autarchia, in parte forzata, a causa delle sanzioni contro l’Italia da parte della Società delle Nazioni per l’invasione dell’Etiopia. Dopo la guerra è diventata antieconomica.
    La soluzione poteva essere, e ancora è, secondo me, nello sviluppo razionale, programmato dell’agricoltura e di un’industria agroalimentare ad essa collegata. Tutto dovrebbe avvenire nel rispetto dell’ambiente e della natura. Non dobbiamo chiedere alla terra più di quanto la natura è in grado fisiologicamente di riprodurre. Se si riuscisse anche a organizzare la commercializzazione dei prodotti, sarebbe un’ottima cosa. Ciò dovrebbe costituire la base economica strutturale per poi allargare il discorso al turismo, all’artigianato, alle attività culturali e a tutto ciò di cui ha bisogno una società sviluppata e progredita.
    Negli anni sessanta e settanta il sardo era la lingua dei ceti popolari. L’italiano lo usavamo solo a scuola e anche a scuola solo per parlare con gli insegnanti. Non ci si vergognava affatto di esprimerci in sardo. Un po’ avveniva il contrario. Quei pochi che erano stati fuori dal paese per qualche tempo per vari motivi, magari in collegio, in seminario, … quando tornavano parlavano in italiano. Ma era sufficiente qualche giorno perché riprendessero a parlare in sardo. Altrimenti sarebbero stati emarginati. Magari qualche genitore avrebbe voluto che i figli parlassero solamente italiano, abbandonando il sardo. Per distinguersi dagli altri. Questi pensavano che ciò fosse indice di progresso e di modernità. Ma anche allora i figli non sempre facevano la volontà dei genitori.
    Ricordo il caso di un bambino che era nato in Belgio, a Charleroi, da genitori sardi: il padre del mio paese, la madre della Gallura, mi pare. Arrivato in paese che aveva sette/otto anni, parlava un miscuglio di italo-franco-belga. Io ero allora in prima media e cominciavo a studiare francese. Così ogni tanto gli chiedevo qualcosa. Ne sapeva comunque più di noi. Dopo qualche tempo parlava perfettamente in sardo come tutti noi.
    Coi miei genitori ho sempre parlato sardo, senza eccezione alcuna. Ciò non vuol dire che non mi incoraggiassero a studiare, senza assillarmi troppo, per la verità. Loro proponevano, nei limiti, molto ristretti, delle loro possibilità: la decisione spettava a me, anche quando non ero ancora maggiorenne. Si limitavano a spiegarmi che saper leggere e scrivere, allora si diceva ancora così, significava essere liberi, non dover pregare nessuno per leggere o scrivere una lettera, per esempio. Mio padre in particolare mi diceva che così sarei stato meglio in grado di conoscere i miei diritti e di poterli difendere. Lui faceva su giorrunnaderi e si occupava un po’ di sindacato. Così credo di aver imparato bene l’italiano, come lingua veicolare, in pratica. Ma tutte le lingue un po’ lo sono. Il sardo è rimasto, ovviamente, la mia lingua materna.
    Secondo me il sardo è una lingua come tutte le altre. Né migliore, né peggiore. A noi piace di più perché è la nostra. Ma la stessa cosa può dire chiunque, quale che sia la sua lingua.
    In campo linguistico non possono esserci verità rivelate. Le regole non possono essere che convenzionali. La legittimazione è data dall’uso. Ci sono parole che nascono e parole che muoiono. Lingue che nascono e lingue che muoiono. Anche la definizione terminologica tra lingua e dialetto è alquanto arbitraria. È anch’essa una verità convenzionale. Anche a tale riguardo vi sono delle contraddittorietà. Per esempio: se ci basiamo sull’opinione prevalente tra gli studiosi del settore, il sardo (inteso come l’insieme delle parlate logudoresi e campidanesi) è una lingua e l’olandese no, è un dialetto tedesco; se ci basiamo sul fatto che sia la parlata di uno stato nazionale, l’olandese è una lingua e il sardo no. Per cui, entro certi limiti, tutto può essere discutibile.
    La funzione fondamentale della lingua è la comunicazione. A tutti i livelli. Tutto il resto è secondario. Il messaggio è al centro della comunicazione. La lingua è lo strumento, il veicolo. Naturalmente, progressivamente a scalare, anche tutti gli altri aspetti della lingua hanno la loro importanza.
    Riguardo al sardo scritto, ritengo che sia ancora tutto, o quasi, da inventare. Per quanto ne so io. Come si è fatto in passato per tutte le lingue, credo si debba partire dalla trascrizione della lingua orale. All’inizio i due codici, quello orale e quello scritto, coincideranno. Poi, piano piano, come è avvenuto per tutte le lingue, tenderanno gradualmente a differenziarsi. In quanto la lingua orale tende a evolversi più rapidamente mentre la lingua scritta è tendenzialmente più conservatrice e segue maggiormente le regole. È per questo che l’inglese scritto ci appare molto diverso rispetto alla pronuncia e la stessa cosa possiamo dire del francese. In maniera differente tendono ad apparirci l’italiano e il russo di cui spesso diciamo, noi soprattutto per l’italiano, che si leggono come si scrivono.
    Le trascrizioni che abbiamo dei secoli passati sono state influenzate (troppo) dal catalano, dal castigliano e dall’italiano. Per cui hanno valore come documenti storici ma non possono costituire, secondo me, una base per il futuro ipotetico sardo scritto. Per questo, bisogna partire dalla lingua orale.

  2. Su Putzu

    Su cummentu de Giovanni Spano suta s’artìculu galanu meda de Lisandru Mongili paret iscritu in sos annos setanta o otanta de su sèculu passadu, o in cussos de su Treghentos, influentzadu comente est (tropu) dae su toscanu istudiadu fiorentinu. Pro su chi nd’ischit s’autore su sardu iscritu est galu una “tabula rasa”, totu de fraigare, totu de imbentare!

    “Riguardo al sardo scritto, ritengo che sia ancora tutto, o quasi, da inventare. Per quanto ne so io. Come si è fatto in passato per tutte le lingue, credo si debba partire dalla trascrizione della lingua orale. All’inizio i due codici, quello orale e quello scritto, coincideranno. Poi, piano piano, come è avvenuto per tutte le lingue, tenderanno gradualmente a differenziarsi. In quanto la lingua orale tende a evolversi più rapidamente mentre la lingua scritta è tendenzialmente più conservatrice e segue maggiormente le regole”.

    Giai fatu! Semper chi custos ùrtimos trinta annos non siant istados unu bisu ebbia.

    E tando s’autore sigat a iscriere in fiorentinu standard perfetu, o in inglesu o tzinesu — pro issu tantu est su pròpiu ca su chi est de importu est solu a si cumprendere a pare. Nois chi pensamus chi limba chèrgiat nàrrere puru identidade amus a sighire a preguntare sos ditzionàrios sardos, sos libros de grammàtica sarda, sos libros de sintassi sarda, e a iscrìere e a lèghere libros de cada genia, romanzos originales e romanzos bortados, chircas iscientìficas, tesis de làurea, istòrias pro pitzinnos, rivistas, artìculos de giornale, artìculos in internet, blog, facebook, telegram… e l’amus a fàghere semper de prus.

  3. Giovanni Scano

    E’ berusu! Ma po cosasa meda, deu dda pentzu ‘ncora cument’ a insarasa. E’ berusu ca sa lingua no e’ sceti comunicatzioni. E’ atras cosasa meda. Ma sa cosa prusu ‘mportanti e’ sa comunicatzioni. Deu dda pentz’ aicci. A mimi mi paxid’ a iscrì in sadru, in ‘talianu, in francesu, in ‘nglesu, in russu, … Dipendi’ da su chi ollu nai e a chini ddu nau.
    Sa cosa pru’ bella e’ ca dogn’ unu dda poi’ pentzai a modu su.

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