Tullio De Mauro: una vita spesa per la questione della lingua [di Silvano Tagliagambe]

demauro

Nel 1961, nell’ambito delle celebrazioni centenarie dell’unità d’Italia, la Rai varò un progetto culturale che aveva l’obiettivo di fare il punto sulla storia della cultura italiana, nelle sue diverse articolazioni, nel secolo postunitario. A un giovane studioso di 29 anni, che per volere del suo maestro Antonino Pagliaro aveva appena avuto l’incarico dell’allora quasi unico corso di Filosofia del linguaggio in Italia alla Sapienza di Roma, furono affidate sei conversazioni sulla storia linguistica italiana.

Questo giovane era Tullio De Mauro, il quale basò la sua trattazione sul paradosso di una lingua nazionale proclamata tale da secoli, ma in realtà estranea a gran parte della popolazione. De Mauro ne aveva avuto esperienza diretta grazie al fatto che quattro anni prima aveva vinto il concorso a un posto di assistente volontario presso l’Istituto Universitario Orientale di Napoli, dove restò per i successivi tre anni, che era allora la sola facoltà cui si accedeva da qualsiasi canale mediosuperiore.

Le schiere di studentesse e studenti che provenivano da ogni recesso del Sud, tutti animati dal desiderio di promozione sociale al rango di universitari, spesso erano ancora dialettofoni puri, a dimostrazione del fatto che quella di Dante restava ancora, in gran parte del nostro paese, una lingua d’elezione.

Le lezioni, di dodici cartelle ciascuna, attirarono l’interesse di Vito Laterza, che ne propose la pubblicazione, avvenuta due anni dopo la loro messa in onda, con un supporto di note e apparati documentari così ricco da dilatare il volume dalle 72 pagine di conversazione alle cinquecento circa del libro, uscito con il titolo Storia linguistica dell’Italia unita.

È interessante ricordare che nella massa di materiali in appendice al testo spiccava una citazione gramsciana poi diventata famosa a proposito di questioni linguistiche: “Non è giusto dire che queste discussioni siano state inutili e non abbiano lasciato tracce sulla cultura moderna… Ogni volta che affiora, in un modo o nell’altro, la questione della lingua, significa che si sta imponendo una serie di altri problemi, la necessità di stabilire rapporti più intimi e sicuri tra i gruppi dirigenti e la massa popolare-nazionale”. Come ricorda lo stesso De Mauro in una sua autobiografia Vito Laterza gli telefonò per dirgli che, a suo parere, in questa citazione era racchiuso “il senso vero del libro”: per questo gli chiese il permesso di stamparla sul frontespizio.

Il seguito di tutta la ricchissima attività di questo grande esponente della cultura italiana, che ci ha lasciato alla vigilia dell’Epifania è stato, per sua stessa ammissione, una sorta di lungo susseguirsi di corollari e di verifiche sul campo dei principi visti o intravisti in questa sua prima ricerca. A cominciare dalla Storia linguistica dell’Italia repubblicana, scritta con il dichiarato proposito di continuare fino all’oggi quel primo studio che si fermava al secondo dopoguerra. L’opera tratteggia con grande efficacia e capacità di sintesi il quadro delle condizioni linguistiche e culturali dell’Italia a metà Novecento: un paese contadino segnato da bassa scolarità, analfabetismo, predominio dei dialetti.

Individua poi i mutamenti di natura economica, sociale, politica e le luci e le ombre di quel che è avvenuto nel linguaggio: largo uso dell’italiano nel parlare, ma continua disaffezione alla lettura, nuovo ruolo dei dialetti, scarsa consuetudine con le scienze, mediocri livelli di competenza della popolazione adulta, difficoltà della scuola. L’ultimo capitolo, infine, mostra come tutto ciò incida sui modi di adoperare la nostra lingua: sul vocabolario e la grammatica che usiamo, parlando in privato o in pubblico, o scrivendo testi giornalistici, amministrativi e burocratici, letterari o scientifici.

Prosecuzione e compimento di queste due fondamentali ricerche storiche sono stati il primo lessico dell’italiano parlato (1993), il primo tesoro dell’italiano letterario del Novecento (2007) e gli otto volumi del Grande dizionario italiano dell’uso (UTET 2008): intensi sforzi, coronati da un indiscutibile e meritato successo, di rivisitazione scrupolosa e complessiva del lessico italiano, ispirata alle esigenze di superare angustie e approssimazioni nella tradizione lessicografica italiana.

Accanto a questi altri lavori che hanno avuto fortuna e notorietà e traduzioni in varie lingue, come il bellissimo disegno introduttivo agli studi semantici (1965), tuttora guida preziosa per i docenti che vogliano basare il loro insegnamento sull’obiettivo di promuovere e sviluppare un’autentica competenza linguistica, gli studi su Wittgenstein (1966), il commento e la reinterpretazione degli scritti sia maggiori e più noti, sia inediti di Saussure (1967 e 2003), la rivisitazione delle idee linguistiche di Gramsci (1996).

A questa intensa attività di ricercatore appassionato De Mauro ha saputo abbinare  l’impegno in imprese pratiche editoriali ispirate alla volontà di stabilire un legame tra l’alta cultura specialistica dei più vari campi e cerchie ampie di lettori, come furono i “Libri di base” (1980-89) e il molto e proficuo lavoro tra e con insegnanti dei CIDI – Centri di Iniziativa Democratica degli Insegnanti – dell’MCE – Movimento di Cooperazione Educativa – e del GISCEL – Gruppi di Studio e Intervento nel Campo dell’Educazione Linguistica. Il fine dichiarato era quello sviluppare le linee di un’educazione linguistica che, fissate nelle Dieci tesi per un’educazione linguistica democratica (1975), ora tradotte anche in altre lingue, favorisca la capacità di espressione e di comprensione dei discenti e la loro piena e partecipe inclusione nella vita sociale, secondo quanto raccomandato da diversi articoli della Costituzione della nostra Repubblica, segnatamente il comma secondo dell’art. 3 e l’art. 34.

Anche questa assidua attenzione per questioni pratiche apparentemente lontane dalla ricerca seppero invece portarlo, a dimostrazione del legame tra lo studio dei problemi teorici e le applicazioni che se ne possono trarre, a mettere in discussione le correnti teorie lineari della comprensione linguistica e a elaborare e sviluppare studi teorici diversamente orientati sulla natura complessa e tutt’altro che uniforme e sequenziale, del comprendere linguistico.

Questa non linearità e complessità sono dovute al fatto che, sotto la superficie della ormai larga convergenza verso una stessa lingua, si celano linee di frattura profonde che non passano più attraverso differenze regionali o di reddito, ma attraverso altre forti disparità: il divario nel rapporto con lettura e scrittura, nella capacità di accesso a capire o comporre testi scritti; il conseguente divario nell’accesso alla rete; la difficoltà di padroneggiare concetti e ragionamenti di ordine statistico, matematico e scientifico; infine le diversità di reali competenze anche a parità di livelli formali di istruzione. È inevitabile che tali disparità si riflettano negli usi della lingua comune.

Anche per questo costante impegno civile a De Mauro sono stati affidati incarichi pubblici di rilievo, come l’Assessorato alla cultura nella Regione Lazio (1976-77) o il Ministero della pubblica istruzione (200-2001), al quale fu chiamato a gran voce anche in virtù della pressione dal basso delle organizzazioni degli insegnanti che aveva contribuito a formare e con le quali aveva lavorato, accomunate da un esplicito rigetto nei confronti di alcuni dei provvedimenti di riforma del suo predecessore Luigi Berlinguer.

Era la prima volta che la politica assecondava il volere della base del personale scolastico, o almeno della sua parte più qualificata e impegnata. Per questo era lecito aspettarsi dalla sua attività di ministro una politica orientata, in modo ben più deciso e marcato di quanto non sia avvenuto, a stimolare e favorire l’innalzamento quantitativo e qualitativo dei livelli di istruzione delle giovani generazioni e degli adulti, lo sviluppo di processi d’insegnamento e apprendimento in grado di diffondere e radicare il bisogno e l’apprezzamento della cultura intellettuale, in tutte le sue espressioni, e della ricerca scientifica. Non è stato così, anche per la breve durata del secondo governo Amato, varato il 26 aprile del 2000, che ha concluso la sua esperienza il 12 giugno del 2001.

In un anno non era certamente possibile sradicare vizi e difetti accumulati nel lungo periodo e porre rimedio alle fratture e agli ostacoli che ne erano derivati. Forse però si poteva adottare qualche misura concreta per cercare almeno di arginare un processo di decadenza in seguito al quale, come lo stesso de Mauro amava sottolineare, a star male non è l’italiano come lingua, ma sono invece troppi italiani, anche nelle scuole, quanto a diffuse capacità di cultura, perché non dotati di strumentazione sufficiente.

Nel vasto mercato delle lingue l’italiano come lingua straniera da apprendere e coltivare vanta una lunga tradizione che in questi anni si sta ulteriormente rafforzando, in virtù dell’amore per la musica, specialmente il melodramma, per le arti fiorite nel nostro paese, per il mondo antico e le sue vestigia concentrate sul nostro suolo, fattori tradizionali ai quali, negli ultimi decenni, se ne sono aggiunti altri, dal cinema alla moda e al design, all’interscambio economico e culturale.

Nell’undicesimo secolo della sua vita, l’italiano col suo lessico è tornato a offrirsi, a chi lo parla con consapevolezza, per essere utilizzato e utilizzabile anche nel colloquiare, a tutto campo, con il mondo tecnologico e industriale, scientifico, filosofico e civile moderno. Sulle ali di questa crescita e di questo consolidamento dell’uso dell’italiano a livello internazionale, di cui il De Mauro studioso era ben conscio, il De Mauro ministro avrebbe forse potuto farsi promotore di una maggiore e migliore consapevolezza di queste opportunità e dei vantaggi che se ne potevano trarre da parte dell’intera comunità nazionale, a partire dal sistema scolastico.

Lascia un commento