Sinistra, nuovi partiti vecchi linguaggi [di Enzo Scandurra]

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il manifesto, 17 gennaio 2017.  In occasione del congresso di Sinistra Italiana, alcuni parlamentari ex Sel hanno scritto (come informa il manifesto del 15 gennaio), ad altri che entrerebbero nella nuova formazione, di abbassare i toni dello scontro politico: «La cultura dell’intolleranza è incompatibile con il progetto politico che insieme stiamo animando».

Quale che ne sia stata la ragione, è un’espressione da non sottovalutare e bene ha fatto il manifesto a citarla in vista di uno scontro che potrebbe avvelenare l’atmosfera del congresso fondativo, tanto quanto le diversità dei contenuti e della linea politica.

Se molte persone, e tra queste, molti giovani, avvertono la politica come un luogo estraneo, questo avviene anche, o soprattutto, per il linguaggio utilizzato e per le forme dello stare insieme dei partiti tradizionali (quali che siano). C’è violenza nella politica: una violenza (verbale, di rapporti, di relazioni) che respinge chi pensa ad essa come il mettersi insieme per risolvere i problemi comuni.

Il messaggio di un mondo nuovo, o almeno diverso dall’attuale (meno ingiustizie, meno disuguaglianze, più occasioni di studio come conoscenza critica, più occasioni di lavoro vero, eccetera), esige un nuovo e adeguato linguaggio che non è solo questione di forma, ma di relazioni, di emozioni, di passioni che aspettano da anni di essere accolte e valorizzate: il vero rimosso della politica.

Un Partito deve anche assolvere una funzione pedagogica, ricreare una cultura del vivere insieme, rifondare un linguaggio per la democrazia (così come era nei propositi di Tullio De Mauro), altrimenti i giovani saranno attratti dalle semplificazioni (anche e non solo) dei Cinque Stelle, dalla loro grinta aggressiva e falsamente contestataria dei poteri dominanti. Purtroppo vale anche per i giovani la legge di Gresham, il banchiere inglese che sosteneva l’assunto che la moneta cattiva scaccia sempre quella buona. Fine e mezzi non sono separabili: se il fine è giusto allora anche i mezzi per raggiungerlo devono essere autentici, sani; non si può bleffare con chi attende o lavora da anni per un vero cambiamento.

Credo che parte del successo ottenuto da Pisapia a Sindaco di Milano sia dovuto al suo carattere mite, di gentiluomo di altri tempi. Ricorderete il dibattito finale tra lui e la candidata Letizia Moratti in televisione: quando stavano ormai per scadere i tempi, Moratti – sapendo che il suo avversario non avrebbe potuto replicare per mancanza di tempo -, tirò fuori una vecchia e archiviata questione di un procedimento penale a carico del futuro sindaco.

Il sentimento di stupore si disegnò sul viso di Pisapia, prima ancora che di indignazione. Moratti dovette successivamente chiedere scusa; ma, tutto sommato, non aveva fatto altro che ricorrere alle vecchie tecniche della politica (e della boxe): colpire dove l’avversario sanguina per decretarne il ko tecnico, legittimo o meno che sia il gesto (e in questo caso addirittura falso).

Nel suo recente libro, Passione politica, Paul Ginsborg (insieme a Sergio Labate), si chiede: «Quanti tentativi di costruzione di soggetti collettivi sono stati vanificati da un vizio passionale, un eccesso di egoismo o d’arroganza. Molto più che per motivi ideali, il loro insuccesso è spesso causato da una competizione fra primedonne e da una diffidenza astuta esercitata anche nei confronti dei propri compagni, che spesso finisce per trasformare la necessaria condivisione in inimicizia. Come se pretendessimo di contestare l’ordine del neoliberismo usando le sue armi più efficaci». La lezione femminista con la sua solidarietà di genere, non è mai entrata nella pratica politica diffusa, dove il modello machista e guappista di De Luca miete successo.

Dal canto suo, il condottiero Renzi, dopo una istantanea, quanto astuta e opportunistica, pausa, torna alla carica riconoscendo «qualche errore» (la Repubblica del 15 gennaio): «Brucia, eccome se brucia. Tanto che il vero dubbio (durato l’arco di qualche giorno, nda) è stato se continuare o lasciare. Ma poi uno ritrova la voglia di ripartire». Vecchia astuzia politica anche questa che traspare (tra gli altri vizi) nella continuità di aggressione al sindacato («usano anche loro i voucher»). Nessuna autocritica, nessun pentimento, nessun lutto, se non il rimpianto di non essere stato così furbo all’altezza della situazione.

Allora nel nuovo statuto del partito nascente – Sinistra Italiana – quei nuovi contenuti che molti aspettano, dovrebbero essere espressi e spiegati con parole nuove come: mitezza, umiltà, dialogo, solidarietà, e, perfino, direi, amore e rispetto per l’altro: l’avversario, che sempre è portatore di una qualche ragione con la quale vale la pena di confrontarsi e dalla quale si può sempre imparare qualcosa.

 

One Comment

  1. Giovanni Scano

    Condivido grosso modo quanto si afferma nell’articolo.
    Riguardo al linguaggio utilizzato in politica (e anche nel sindacato, talvolta), penso che sarebbe anche ora di finirla con l’utilizzo di metafore belliche o bellicistiche e di termini aggressivi e negativi: invece di battaglia o lotta politica (la battaglia delle idee), si potrebbe utilizzare competizione; invece di scontro politico si potrebbe dire confronto; e così via. Bisogna passare dal nemico all’avversario (pro tempore), al contendente. Forse si tratta di un retaggio di quando la politica era una cosa quasi totalmente maschile.
    Dal punto di vista politico, penso sia stato comunque un errore da parte di Fassina, D’Attorre e altri la scelta di lasciare il Partito Democratico. Che senso ha avuto, da parte di Stefano Fassina, la sua candidatura a sindaco di Roma? Nessuno. Con tutti i difetti che ha e le problematiche che lo attanagliano, penso che il PD sia tuttora l’unica organizzazione politica davvero democratica, che dà, è vero con molti limiti e problemi, a ciascuno la possibilità di partecipare con le proprie idee e di contribuire, anche in maniera travagliata, talvolta, alla vita del partito e, all’occorrenza, anche al suo cambiamento. È quindi, secondo me, adesso, in Italia, l’unico soggetto politico che possiamo, nonostante tutto, chiamare partito. Nel senso stabilito dall’articolo 49 della nostra Costituzione.
    Le altre organizzazioni politiche italiane, compresa, quindi, secondo me, Sinistra Italiana, hanno il difetto di non rientrare appieno in quanto scritto nell’articolo 49 della Costituzione.
    Inoltre, tali organizzazioni, come erano una volta quelle nate negli anni Settanta alla sinistra del Partito Comunista, hanno dal mio punto di vista il grosso difetto di non avere un progetto politico complessivo coeso e coerente. Una visione complessiva delle problematiche del mondo odierno, della loro possibile gestione e trasformazione in senso migliorativo, magari in maniera alternativa a quella oggi prevalente. Diciamo che questi movimenti giocano di rimessa, non a tutto campo, raramente formulano delle proposte complessive originali. Si limitano ad avere progetti settoriali, parziali, mancano di una visione d’insieme. Partono, cioè, da delle critiche, più o meno fondate, a seconda delle volte, che rivolgono ad altri soggetti politici. In questo caso al Partito Democratico. Svolgono, quindi, nel migliore dei casi, una funzione di stimolo. Tanto valeva allora stare nel Partito Democratico e proporre lì le loro idee. Senza stare troppo a preoccuparsi di quanto dice Renzi o chi per lui.

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