Il respiro delle rovine può far rinascere le città [di Salvatore Settis]

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 la Repubblica, 27 marzo 2017. Un vento nuovo soffia sulle città: il respiro delle rovine urbane e della loro rigenerazione. Tre sono le cause principali che vanno seminando le città di rovine: la deindustrializzazione, con la sua scia di fabbriche abbandonate, ma anche di quartieri residenziali che si svuotano quasi da un giorno all’altro; l’abbandono dei centri storici, sempre più dedicati allo shopping e all’intrattenimento; infine, il crescere delle nuove povertà (che includono gli immigrati ma anche gli emarginati), con la conseguente formazione di ghetti urbani.

In tutti questi casi, mentre la città perde la sua forma storica e si espande indefinitamente, sorgono nel suo vivo tessuto nuove barriere: i confini della città diventano confini nella città, dove gli abbienti s’insediano in aree più confortevoli, e gli altri si concentrano nei suburbi.

Potenti meccanismi di rimozione collettiva ci impediscono di cogliere questo processo nella sua preoccupante estensione; solo qualche volta ne vengono a galla aspetti che colpiscono l’immaginazione, come in quella che fu la capitale americana dell’automobile, Detroit, dove dopo le rivolte urbane del 1967 e una crisi che continua fino a oggi, i grattacieli del centro convivono con le baraccopoli tutto intorno, e intanto centinaia di abitazioni abbandonate crollano via via, e la campagna guadagna spazio sulla città, in una sorta di imprevisto ritorno alla natura.

Anche nello stato di New York (per esempio a Buffalo) sono numerosissime le zombie homes, abitazioni abbandonate da chi, dopo la “bolla immobiliare”, non riusciva a pagarne il mutuo e ha preferito sparire nel nulla. Ma «nelle rovine si nasconde la ricostruzione», come ha scritto Béla Tarr (Le armonie di Werckmeister), e nelle città più colte (e più prospere) il recupero delle rovine urbane genera progetti ed esperienze del più grande interesse.

L’esempio migliore è lo High Line Park a West Manhattan. Corre lungo la West Side Line, una linea ferroviaria che per cinquant’anni servì una zona di New York a forte densità industriale, poi cessò di operare verso il 1980, e parve destinata alla demolizione. Ma dopo oltre vent’anni di abbandono se ne è fatto un bellissimo, funzionale parco urbano, poco più largo dello spazio occupato dai binari ma lungo oltre due chilometri; una delle destinazioni più popolari di New York, che contribuisce anche alla conoscenza della città, osservata dall’alto.

I binari sono stati lasciati in vista lungo quasi tutto il percorso, e questa preesistenza “archeologica”, insieme con le vedute sulla città e sul fiume, dà alla passeggiata lungo la High Line il gusto e il tono di un’esplorazione della memoria, ma anche di una promessa per il futuro. Non v’è città al mondo che abbia rovine urbane più di Roma; e non penso qui alle baraccopoli e ai suburbi, che pure vi sono, ma proprio alle rovine della Roma antica. Monumenti che sono lì non da vent’anni, ma da venti secoli, ma stiamo rischiando di non vederli più (un antico sottosegretario ai Beni Culturali ha chiamato il Colosseo «un inutile dente cariato »).

La lunghissima convivenza con i resti della Roma pagana e imperiale ha finito col farle apparire come una sorta di quinta teatrale, senza una vera funzione se non quella di alimentare sogni imperiali; e infatti i principali rimaneggiamenti nell’area dei Fori furono fatti in occasione della visita di Carlo V (1536), poi in epoca napoleonica, e infine da un governo fascista che vantava, a vuoto, il ritorno dell’impero sui colli fatali di Roma.

Ma non siamo mai riusciti a venire veramente a patti con l’intensa presenza delle rovine, che a Roma penetrano in ogni quartiere, anche nelle periferie. Attorno alla nuda pietra, per citare il titolo di un bel libro di Andreina Ricci (Donzelli), non siamo riusciti a costruire un progetto urbano che integri quelle rovine nello spirito e nella vita della città. Parliamo astrattamente della loro tutela, ma non di come integrarle nella città, da cui anzi ritagliamo con burocratica cecità “parchi archeologici” e aree vanamente “protette”, senza che il cittadino comune sappia nemmeno bene perché.

Sarà forse più facile intervenire su una ferrovia abbandonata a New York che su rovine vecchie di secoli in Europa? Ma allora perché ad Atene sono riusciti a trasformare tutta l’area intorno all’Acropoli in un mirabile parco urbano, una trama di sentieri che raggiunge i Propilei e si snoda lungo le antiche mura, ma anche verso il monumento di Filopappo, secondo il geniale disegno di Dimitris Pikionis?

In Italia questo esempio è stato sì riconosciuto (premio Carlo Scarpa della Fondazione Benetton, 2003), ma non capito né preso a modello. La sua sostanza è presto detta: traformare un’“area archeologica”, che come tale rischia di essere uno spazio dell’esclusione, in un vero e vivo pezzo di città, prezioso ma per tutti, senza biglietto di accesso; e dunque farne uno strumento di conoscenza per i cittadini, che è la sola base per una vera tutela.

C’è un nesso fra questa cura sottile, colta, mirata delle preesistenze archeologiche e la recente decisione delle autorità greche di vietare (per quanto ben pagata) una sfilata di moda sull’Acropoli, perché incompatibile con la dignità del luogo? Sì, il nesso c’è: perché fra coltivare la memoria storica mediante i rituali della cittadinanza (una passeggiata intorno all’Acropoli, o sulla High Line) e svendere i monumenti al migliore offerente, considerandoli un’inutile scatola vuota da riempire di “eventi”, c’è davvero un bivio radicale.

A Roma, la scelta è: integrare pienamente le rovine nella città facendone patrimonio di conoscenza dei cittadini, o ritagliarle come pompose scenografie di un qualche business da quattro soldi?

 

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