Classi dirigenti adeguate cercansi [ di Domenico Cersosimo]

st_lorenzetti

L’Italia è avvitata in una lunga deriva di ristagno culturale, ideale e progettuale, che impoverisce la vita civile e il benessere collettivo. La grande depressione economica dell’ultimo quadriennio ha aggravato le cose, soprattutto nel Mezzogiorno, da troppo tempo in strutturale condizione di svantaggio. Il paese appare viepiù sfibrato e sfarinato, rassegnato al peggio. Al Nord e al Sud.


Per risalire la china è urgente un ritorno a una capacità di progettazione del futuro, alla mobilitazione di forze innovative, alla fiducia nel cambiamento. E’ decisivo un cambio delle aspettative.  Lo sviluppo è possibile solo se gli innovatori prevarranno sui rentier, se le ragioni del cambiamento vinceranno su quelle dello status quo. Se si affermerà, nella politica e nell’economia, nelle chiese e nella cultura, nel sindacato e nell’amministrazione una classe dirigente adeguata che sappia combinare visione e pragmatismo, profezia e azione.

Da molto l’Italia soffre un deficit acuto di classi dirigenti di qualità: nelle scuole e nel Parlamento, nelle professioni e nelle imprese, negli ospedali e nei musei, nei partiti e nei consigli regionali, provinciali, comunali. Nel Sud in modo più evidente, più diffuso, più profondo; gli innovatori sono più soli e i rentier più protetti. I “Dardanarii”, come Francesco Saverio Nitti definiva affaristi, speculatori e intermediari che agiscono “più per impedire che altri facciano che per fare”, hanno dominato e continuano a infestare il Mezzogiorno più che altrove.

Abbiamo classi dirigenti che vivono di se stesse, chiuse in asfittici gironi orizzontali autoreferenziali. Ogni girone sovrapposto agli altri, senza interazioni e retroazioni, senza relazioni ascendenti e discendenti. Forse è il prezzo della modernità, della società e dei poteri a strati, dell’incomunicabilità verticale. Più che altrove abbiamo classi dirigenti inossidabili, immobili, impenetrabili. Che si riproducono in circuiti incestuosi, familiari, esclusivi, di casta. Nelle professioni e nella politica, nel pubblico e nel privato. Il ceto politico, in particolare, è sempre più insterilito in un tatticismo permanente, congenitamente incapace di collegarsi con altri soggetti, con altri circuiti sociali e istituzionali e dunque è destinato ad implodere.

Non sono pochi però coloro che anche nel Sud rischiano e tentano l’innovazione: imprenditori che anziché inseguire i sussidi pubblici domandano servizi collettivi efficienti e efficaci; insegnanti che nonostante le condizioni ambientali avverse sperimentano didattica e formazione eccellente e che vorrebbero trasferire in altri contesti; attori teatrali e artisti che cercano di rompere i circuiti asfittici del localismo e delle sovvenzioni pubbliche clientelari; sindaci e funzionari competenti che con fatica praticano forme di partecipazione allargata e trasparente della cosa pubblica; parroci che animano comunità locali per il lavoro e la legalità; medici e infermieri capaci e umani; genitori di disabili che costruiscono ambienti inclusivi per dare dignità e cittadinanza ai loro figli; giovani laureati che intraprendono esperienze feconde di lavori socialmente utili. E tanti altri ancora.

Esperimenti e tentativi di cambiare il Mezzogiorno si compiono in più parti quotidianamente. Non mancano gli innovatori che praticano e domandano cambiamento. Il problema è che sono poco visibili e ancor meno ascoltati e, soprattutto, isolati gli uni dagli altri. E’ tuttavia questo il nucleo di base di una nuova classe dirigente del Sud. Che ha bisogno di continuare a ben lavorare e, soprattutto, a trovare collegamenti tra le diverse esperienze per aggregarsi e intrecciare un racconto comune, accrescendo visibilità, fiducia e capacità di radicamento nei luoghi di lavoro, di studio, di vita.

Lascia un commento