Chi sono i Supplenti di Stato, gli apparati che stanno sostituendo la politica [di Marco Damilano]

DESCALZI

L’Espresso 02 agosto 2017. Con i partiti sempre più fragili, altre figure salgono alla ribalta e si offrono come garanti della stabilità. Da Gabrielli a Descalzi, passando per Draghi e lo stesso Gentiloni, ecco i loro nomi.

In questo tempo sospeso, in questa incertezza, in questa lontananza – ancora sei o sette mesi di legislatura, poi infine si voterà («in aprile», prevedono a Palazzo Chigi) e il salto nell’ignoto sarà compiuto (con quale legge elettorale? Chi vincerà? Vincerà qualcuno? Le domande ormai si ripetono, pigre e desolate, nella siccità delle risposte possibili) – in questa quiete surreale che prepara la tempesta, nell’estate italiana 2017 avanza la figura di un nuovo protagonista.

Non intende sostituirsi ai politici, come è accaduto ai tecnici per tre volte negli ultimi venticinque anni (con Carlo Azeglio Ciampi, Lamberto Dini, Mario Monti). Non si offre come salvatore della patria, come avvenne per i giudici di Mani Pulite nel 1992-93, un altro momento cruciale e drammatico della storia repubblicana. È un uomo di Stato ma non fa la riserva, perché non sta in panchina, anzi, sta giocando da protagonista la sua partita.

Il Supplente della Repubblica copre un vuoto, una mancanza di leadership, testimonia la presenza del sistema-Italia con le sue strutture, istituzioni, apparati in una fase di rapidissimi sconvolgimenti internazionali: il ciclone Trump negli Stati Uniti, l’ambizione gollista di Emmanuel Macron in Europa.

Vuole rassicurare l’opinione pubblica, dentro e fuori i confini. E si propone come garante della tenuta del Paese di fronte alla fragilità della politica. In vista delle elezioni e di un risultato che potrebbe rendere impossibile la formazione di una maggioranza. Mentre l’Italia sembra tagliata fuori dalle grandi scelte strategiche, a partire dalla Libia, dove il ruolo-guida invocato da Roma per anni l’ha conquistato la Francia. «Rischiamo di non contare nulla», scuote la testa un esponente del governo.

È la preoccupazione di blindare il Paese in difficoltà che spinge a prendere posizione e parlare, anche fuori dal loro raggio d’azione. È sembrato incarnare il ruolo di supplente  in cui per la prima volta a distanza di sedici anni il capo della Polizia ha strappato con la difesa del predecessore sui fatti del G8 di Genova del 2001 e fatto sapere che lui al posto di Gianni De Gennaro si sarebbe dimesso: «L’irruzione alla scuola Diaz fu una catastrofe. Alla caserma Bolzaneto ci fu tortura».

Più che la ricostruzione del passato, conta la morale del presente. Oggi, recita il non detto delle dichiarazioni di Gabrielli, quella polizia non esiste più, ora il capo sono io: «Sono cambiate molte cose. Guardiamo cosa è accaduto ad Amburgo. E guardiamo invece cosa è accaduto a Roma, in occasione dei 60 anni della firma dei trattati di Roma, e a Taormina con il G7… Consegniamo il G8 alla Storia, perché questo ci renderà tutti più liberi».

Conta la scelta del momento: vecchie alleanze che si chiudono e nuove che si aprono, con la guerra tra Cia e Fbi all’ombra dell’amministrazione Trump, agenzie che per decenni hanno contato in Italia, con i loro punti di riferimento. Un cambio che rende necessaria la cesura con il passato, come si è visto quando il capo della Polizia è di nuovo intervenuto dopo la sentenza nel processo su Mafia Capitale per difendere la procura di Roma e il capo Giuseppe Pignatone dalla critiche per il proscioglimento degli imputati dall’accusa di associazione mafiosa.

Un attivismo mediatico che ha un precedente nella biografia di Gabrielli, quando tre anni fa fu nominato prefetto di Roma mentre la giunta di Ignazio Marino vacillava sotto i colpi dell’inchiesta. Gabrielli non puntava a sostituire Marino in Campidoglio e non ricoprì neppure la carica di commissario governativo, affidata a Francesco Paolo Tronca. Ma provò a dimostrare che in un momento di crisi della politica, con i vertici dei partiti romani che finivano nel gorgo dell’inchiesta e con un Giubileo da organizzare, c’era un’istituzione che reggeva la Capitale d’Italia.

Negli ultimi giorni, in tutt’altro campo rispetto a Gabrielli, ha parlato un altro personaggio solitamente riservato, l’amministratore delegato dell’Eni Claudio Descalzi, con un lungo Forum pubblicato dal Sole24ore (22luglio). C’è il progetto di trasformare l’azienda petrolifera in leader della chimica verde italiana nella stagione della crisi del greggio. La riqualificazione, la ristrutturazione, la rigenerazione di ciò che già esiste, per esempio lo storico impianto di Porto Marghera.

Ma Descalzi si spinge più in là. Con la dichiarazione di fiducia nei confronti del Paese («Credo moltissimo nell’Italia e lo dicono le scelte che stiamo facendo») l’Eni riconquista, dopo molti anni, il suo ruolo storico, testimoniato dalle parole di Paolo Gentiloni a San Donato Milanese l’11 maggio, il primo presidente del Consiglio a visitare la sede centrale dell’Eni dalla fondazione voluta da Enrico Mattei nel 1953: «Il motore degli interessi strategici dell’Italia nel mondo».

Due settimane fa alla Nuvola di Roma Descalzi ha convocato 1400 manager e dirigenti (in tutto erano seimila con quelli in collegamento) in rappresentanza di 33mila dipendenti per illustrare la trasformazione del gruppo. La giornata dell’orgoglio Eni, in un clima inusuale: magliette, ovazioni, selfie con il Ceo, perfino qualche lacrima di emozione, il numero uno sul palco senza cravatta e poi senza giacca che smette i panni del freddo manager e parla da leader appassionato. La volontà di tornare a elaborare una visione strategica dopo i mesi difficili dell’inchiesta della procura di Milano sulla corruzione internazionale in Nigeria.

La difesa degli interessi dell’Eni (e dunque del Paese) si fa durissima in Libia, dove dopo tanto parlare di ruolo-guida dell’Italia nel processo di pace è stato Macron a infilarsi nelle vesti di pacificatore tra il premier Fayez al-Serraj e il suo nemico storico, il generale Khalifa Haftar. Una nuova svolta subita dall’Italia, dopo che la Francia di Nicolas Sarkozy aveva dato il via alla guerra civile con l’intervento militare del 2011 contro Gheddafi.

«La Libia è il nostro primo Paese in termini di produzione, non abbiamo mai lasciato la Libia da sola», ripete Descalzi, in sintonia con Gentiloni. Ma resta nel governo italiano la preoccupazione che la Francia possa lavorare per un progetto di divisione della Libia, già immaginato in precedenza, per favorire le compagnie petrolifere transalpine. E si teme l’assalto francese su ogni dossier, benedetto dalla presidenza Macron: Telecom, Fincantieri, immigrazione.

Su molti di questi fronti è attivo il ministro dell’Interno Marco Minniti: nelle trattative con le tribù libiche, in Europa sull’accoglienza dei profughi, in Italia sulla linea dura con le operazioni umanitarie delle Ong. Una sovraesposizione politica e mediatica che spinge Minniti sempre di più a diventare una specie di super-ministro del governo Gentiloni, con competenze ben più estese del suo ministero.

Come avviene, su altro versante, per il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan. Anche l’uomo di via XX Settembre presidia la trincea europea e quella italiana, si trova nella scomoda posizione di guadagnare margini di flessibilità a Bruxelles per i conti pubblici e rinviare a dopo il voto la tentazione di sfondare il Fiscal compact dichiarata da Matteo Renzi nel suo libro.

A Francoforte il Supplente non parla, si prepara al biennio finale del suo mandato da presidente della Banca centrale europea. «Bisogna essere persistenti, pazienti e prudenti», ha scandito Mario Draghi nell’ultima conferenza stampa all’Eurotower, più taciturno e enigmatico del solito, come ha fatto notare il “Financial Times”: nell’attesa di tagliare il Quantitative Easing il numero uno della Bce ha sforbiciato il tempo delle dichiarazioni.

Ogni decisione sulla sospensione del Qe è rinviata in autunno, la ripresa economica nell’eurozona (e in Italia) è arrivata, ma è meglio tenersi le mani libere. Il rallentamento di Draghi insospettisce i falchi tedeschi alla vigilia del voto politico in Germania. E c’è chi accusa esplicitamente il presidente della Bce di voler aiutare la crescita italiana prima della presentazione della legge di bilancio in Parlamento e soprattutto prima che cominci la lunga campagna elettorale con finale ignoto.

Paracadute che si aprono. La messa in sicurezza del Paese. Timori condivisi al vertice dell’istituzione che più di ogni altra è chiamata a fare da supplente quando il sistema politico si paralizza, come in questi mesi. Il risultato del referendum del 4 dicembre ha cambiato segno alla presidenza di Sergio Mattarella: da silente notabile delle decisioni prese dai capi politici a attore protagonista chiamato a intervenire in prima persona. L’inquilino del Colle ha parlato il 26 aprile quando, ricevendo i presidenti delle Camere, aveva «sollecitato», come si usa dire nei comunicati del Quirinale, la rapida approvazione di una legge elettorale.

Urgenza assoluta, ma l’appello è stato ignorato: è bastato un voto segreto della Camera sui collegi dell’Alto Adige per far saltare il tavolo delle trattative. Ora siamo all’allarme rosso: il Quirinale vede in arrivo l’autunno, lo sfarinamento della maggioranza con la moltiplicazione dei gruppi parlamentari al Senato, i passaggi di campo nell’area centrista, i cambi di casacca, le convulsioni a sinistra che metteranno a dura prova il cammino del governo nella fase finale della legislatura.

L’anticipo del Vietnam parlamentare che potrebbe arrivare dopo le elezioni, in assenza di un risultato certo e di una legge elettorale che assicuri stabilità politica. Vista dal Colle, una prova generale di irresponsabilità della classe politica, mentre l’Italia rischia di sparire dal circuito delle alleanze internazionali e di restare isolata perfino nel Mediterraneo.

Per questo alla conferenza degli ambasciatori riunita alla Farnesina  , che non si addicono al dialogo e al confronto internazionali» sulla questione immigrazione: «Il mondo di oggi non può essere considerato un’arena nella quale siano in brutale competizione sovranità impugnate come clave in una logica di antagonismo o addirittura di scontro». Ma la serietà che il presidente richiede all’Europa è un messaggio anche per i leader italiani: siate seri, c’è pochissimo tempo per evitare lo schianto. Il 26 luglio, ricevendo i giornalisti al Quirinale, Mattarella ha rassicurato sull’economia italiana, lodato gli apparati di sicurezza ed è tornato a rimproverare il Parlamento per la mancata legge elettorale.

E poi c’è il Supplente per eccellenza di questa stagione politica, il premier Gentiloni. Doveva sostituire Renzi per qualche mese, nei piani del segretario del Pd, per poi restituire Palazzo Chigi al suo predecessore. Ora potrebbe durare ancora a lungo, se la data del voto si allontanasse fino alla primavera del 2018. Ma in una situazione di debolezza crescente, perché l’ipotesi di restare al governo anche nella prossima legislatura presuppone che il Pd o il centrosinistra reggano alla prova elettorale. E invece dopo l’estate si prepara una drammatica sconfitta in Sicilia.

I sondaggi, ammettono anche i più renziani tra i dirigenti del Pd, sovrastimano la percentuale del partito che è scomparso nelle grandi città e ora sta virtualmente a quota 25 per cento, la stessa di Pier Luigi Bersani nel 2013. Scende anche il Movimento 5 Stelle, ma è un dato che non consola. Anzi, la debolezza dei due principali partiti aumenterà la confusione, in assenza di leadership politiche che significano «carisma, capacità di fare squadra e una chiara visione», come ha scritto Emanuele Felice (“Repubblica” 25 luglio).

Per ritrovare queste qualità bisogna guardare in altre direzioni, fuori dai palazzi tradizionali del potere: verso la polizia, l’Eni o Francoforte. Apparati e strutture che fanno da supplenza alla politica: il segno che c’è qualcosa che tiene, ma anche di una debolezza estrema. Quel che resta della classe dirigente prova a blindare il sistema-Italia, mentre i leader balbettano frammenti di strategia, tattiche destinate a esaurirsi in poche ore. In vista della bufera annunciata.

 

Lascia un commento