Materiali per un’urbanistica sostenibile: è necessario diversificare i Piani urbanistici comunali [di Alan Batzella]

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A metà degli anni ’90 le Regioni italiane hanno avviato un’azione legislativa che presenta innovazioni che non trovano riscontro nella legge urbanistica nazionale (LUN n.1150/1942) e nella Legge regionale sarda (LR n.45/1989).

Con essa si è tentato di superare l’anomalia della LUN in base alla quale le conformazioni edificatorie stabilite dai piani sono a tempo indeterminato, mentre i vincoli di natura espropriativa hanno vita effimera, legata al tempo di validità del vincolo e/o della sua riproposizione.

La pianificazione comunale viene a comporsi di una parte strutturale (individua le diverse caratteristiche dei suoli) e di  una parte operativa (definisce i limiti e i caratteri dell’edificabilità dei terreni situati nelle zone individuate).  Il Piano strutturale (PS) definisce dove e come si può intervenire, ma non dice niente sul quando. A questo risponde il Piano operativo (PO) che trasforma le indicazioni precedenti in operazioni definite nei termini temporali e sulla base di risorse economiche e finanziarie certe.

Il primo è  piano delle tutele e delle compatibilità nelle strategie a lungo termine; il secondo ha il compito di rendere compatibili, nel breve periodo, i diritti della cittadinanza  con i diritti della proprietà immobiliare. Per l’attuazione del piano operativo si introducono le verifiche sia di sostenibilità sia di fattibilità degli interventi e, al fine di conseguire l’indifferenza della proprietà di fronte alle scelte della pianificazione, si introducono i nuovi istituti della perequazione (degli interessi della proprietà immobiliare) e della compensazione (con l’attribuzione di diritti edificatori ai proprietari delle aree vincolate, utilizzabili in altra localizzazione).

L’innovazione più evidente e più importante che compare nei piani di nuova generazione è la separazione dei due tempi e di due diverse modalità di trattazione e poi di attuazione del Piano generale (PUC). Il  PUC tende a distinguere le componenti più stabili che organizzano e caratterizzano il territorio, dalle aree o zone per cui è prevedibile, addirittura desiderata, o comunque ammissibile una più rapida trasformazione.

Le prime comprendono la configurazione geofisica e orografica, ed i vincoli (sovraordinati) che ne tutelano le caratteristiche essenziali, ma anche le grandi infrastrutture (sulle quali il Comune non ha competenze) e anche l’insediamento così come esso si è costituito e determinato nel tempo. Per questo il piano prevede normative di mantenimento, eventualmente accompagnate da stratagemmi normativi per favorire il miglioramento delle caratteristiche degli edifici e, soprattutto, degli spazi pubblici, attraverso la lenta sommatoria nel tempo di micro-trasformazioni urbane.

Per le aree destinate o destinabili a trasformazioni intensive, oltre alla loro individuazione ed eventuale perimetrazione, il piano generale (o meglio il livello strutturale del piano comunale) indica invece più o meno sommariamente le funzioni ammissibili (in genere un variabile mix di funzioni, piuttosto che funzioni specifiche univocamente determinate), le quantità edilizie (massime ed eventualmente minime) e le eventuali procedure di attivazione, ovvero le regole della trasformazione.

L’attuazione del Piano, in particolare, non si configurerà più come una sorta di ingrandimento di scala delle previsioni dello strumento generale, sia pure arricchito di dettagli tecnici, ma come un insieme complesso di attività di progettazione e valutazione, che richiedono competenze tecnico-professionali molto diverse da quelle che tradizionalmente hanno presieduto alla formazione del piano. In questo erano infatti concettualmente riassunti –anche se forse dati troppo per scontati- anche i suoi meccanismi attuativi.

Non a caso molte delle più recenti proposte di riforma urbanistica tendono a raccogliere e raccordare l’insieme degli interventi possibili in un determinato lasso di tempo (relativamente ristretto), desiderati –sostanzialmente dall’amministrazione in carica- e fattibili, in uno strumento (il piano operativo) che costituisca lo snodo programmatico e appunto operativo tra le necessità e opportunità di intervento eventualmente configurate dal piano generale (o strutturale) e gli interventi veri e propri.

Questo meccanismo, solo in apparenza macchinoso, soprattutto se inserito in un’ottica di cooperazione tra i diversi livelli amministrativi, risponde in realtà all’esigenza di semplificazione a monte delle procedure. Si assume infatti che il piano strutturale sia concordato con le altre amministrazioni – e non solo con quella addetta all’approvazione formale del piano- il che annulla, o comunque riduce di molto, la necessità di approvazioni successive alla definitiva formalizzazione delle scelte comunali.

Nella stessa logica, a valle dell’approvazione del piano strutturale, tale meccanismo contribuisce a dare relativa certezza agli operatori coinvolti o interessati, alla stessa amministrazione e in definitiva alla cittadinanza. Le attuazioni del piano  sono infatti di competenza comunale, e le relative decisioni possono quindi essere assunte abbastanza a ridosso dell’avvio degli interventi. In questo tipo di configurazione il piano strutturale dovrebbe garantire sul lungo periodo le condizioni generali, mentre il piano operativo è  pensato per organizzare le decisioni pubbliche e private di intervento sul medio-breve periodo, che è di maggior interesse per gli investimenti nel settore, sia pubblici sia privati.

In tal senso il piano operativo non è pensato come strumento attuativo in senso tecnico , ma piuttosto come un programma di un insieme di interventi (infrastrutturali e di trasformazione), ciascuno dei quali potrà  articolarsi e specificarsi in veri e propri progetti.

In definitiva lo sdoppiamento del piano garantisce i caratteri di flessibilità e adattabilità indispensabili per l’esercizio delle nuove modalità multidimensionali di governo, anche per dare operatività agli strumenti di livello superiore. Ma consente anche di ridurre o azzerare con maggiore semplicità, al termine del periodo di applicazione del piano, gli eventuali residui di potenzialità edificatorie non portati all’attuazione, e lasciare così maggiore libertà di manovra alla successiva fase di pianificazione.

Questo modello di attuazione dei PUC, peraltro rifiutato dal disegno di legge della Giunta Pigliaru, che ripropone tal quale il PUC onnicomprensivo vecchia maniera, ha comunque un senso compiuto prevalentemente nei Comuni o aree interessati da una certa dinamica demografica, dove la trasformabilità di ulteriori suoli è giustificata da un fabbisogno oggettivamente dimostrabile e dove la  “piramide delle età” non sia sbilanciata in favore degli ultrasessantenni.

Molto genericamente sarebbe idoneo per i Comuni con popolazione superiore a 4.000 abitanti, pari a 82 insediamenti su un totale di 377 (meno del 22%).

Per tutti gli altri Comuni i problemi insediativi assumono aspetti radicalmente diversi, e questioni come fabbisogno abitativo, espansione residenziale e dotazione di servizi a fronte di uno spopolamento allo stato dei fatti inarrestabile, assumono un ruolo mai visto prima, ragion per cui i relativi Piani, devono essere in qualche modo semplificati fino ad  una configurazione del tutto diversa, più direttamente esecutiva.

In questo  fase strutturale e operativa si integrino in un quadro pianificatorio denotato da un maggior livello di approfondimento; argomento sul quale la discussione professionale ed accademica -ma anche quella politica- è del tutto inesistente.

Il rapporto poco sopra evidenziato tra Comuni in qualche modo vitali (poco più di un quinto del totale) e gli altri (poco meno di quattro quinti) è forse l’indicatore più rappresentativo della “distrazione” con cui la Giunta regionale ha ipotizzato di aggiornare la precedente Legge urbanistica.

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