I “gender studies” tra ricatto ideologico e distorsione della realtà [di Simona Argentieri]

decido

MicroMega.it 10 gennaio 2018. Sono stata molto confortata dal leggere su MicroMega (Almanacco di Filosofia, n. 8/2017) la traduzione di alcuni articoli dedicati alla critica dei cosiddetti “Gender Studies”, articoli scritti in occasione della recente uscita in Germania di un libro collettaneo, che ha avuto vivaci ripercussioni sulle pagine culturali dei maggiori giornali tedeschi.[1]

Non occorre che riassuma le pesanti e fondatissime imputazioni che sono state formulate a carico di J. Butler & Co (tra l’altro molto bene, in modo convincente e documentato): il distacco dalla realtà, l’insensibilità per le sofferenze delle donne meno privilegiate (dal velo alle mutilazioni genitali), la corruzione ideologica degli studenti, lo slittamento dal terreno dei diritti fondamentale a quello di rivendicazioni pseudo-identitarie, la censura dei dissidenti in nome del politicamente corretto, l’ossessione autoreferente per la terminologia e gli astrusi neologismi; in sintesi il tradimento degli ideali e degli obbiettivi del primo femminismo.

Voglio invece sottolineare che il mio conforto non nasce dalla rivelazione di una verità nascosta, ma al contrario dal vedere finalmente esplicitate delle accuse essenziali ed elementari, basate sul buon senso e sulla valutazione di fatti che sono sotto gli occhi di tutti. (Alcune mie considerazioni analoghe sono state ospitate proprio sulle pagine di MicroMega). Seppure dunque mi sento ora meno sola, continuo a non capire perché delle osservazioni negative tanto ovvie continuino ad essere un fenomeno raro e isolato, a rischio di impopolarità.

Gli autori della polemica, che denunciano questa corrente di pensiero quale tomba del femminismo e implicito contro l’umanità e la ragione, hanno infatti riscosso consensi, ma anche feroci (seppure a mio parere scarsamente argomentate) controaccuse.

Probabilmente molte persone, pur essendo in disaccordo con le paradossali affermazioni delle teoriche e dei teorici degli Studi di Genere, evitano di esporsi per non subire la violenza di ritorno delle critiche di omofobia, transfobia, razzismo… che vengono rivolte a chi osa anche minimamente dissentire (ne sono stata bersaglio più volte, non solo da parte dei gruppi specificamente organizzati; ma anche da parte di istituzioni e gruppi editoriali prestigiosi che non volevano correre il rischio di essere tacciati, insieme a me, di atteggiamenti politicamente scorretti).

O magari, più banalmente, non si mettono in contrasto non tanto per codardia, quanto per pigrizia; perché discutere è faticoso, tanto più che non sono loro stessi, ma altri (altre) a pagare direttamente il prezzo -ad esempio col burka o la lapidazione- di queste cervellotiche dottrine.

Su un solo punto delle vigorose critiche mosse da Vukadinović a Butler & Co non sono d’accordo: quando scrive che nei venti anni trascorsi “non c’è un solo lavoro prodotto dagli studi di genere che abbia influenzato in maniera significativa […] il dibattito sociale e politico”. Magari così fosse!

Io penso invece che il loro sistema di pensiero, superficiale e ripetitivo, fatto di slogan semplicistici e esente da qualunque implicazione di umana realtà, abbia permeato subdolamente una intera cultura, propagando uno stile di pensiero socio-politico che va molto oltre le specifiche questioni dell’identità di genere.

Altrimenti non si spiegherebbe il progressivo coinvolgimento delle strutture sanitarie pubbliche nei disastrosi acritici interventi di ‘riassegnazione di genere’; il progetto oramai diffuso in gran parte dell’Europa, in Australia (in Italia è alle porte) del ‘blocco ormonale della pubertà’ in bambini di 9 o 10 anni, per rendere poi più facile il futuro intervento chirurgico; la ridicola conflittualità sul diritto o il divieto di accesso alle toilette con le etichette per maschi e femmine da parte di chi non si sente né l’uno né l’altro.

E in più, la coesistenza -non solo nello stesso territorio, ma anche nella mente di tante singole persone- di razzismi e pregiudizi che convivono con la formale accettazione di ogni aberranza. O, per scendere su un terreno più spicciolo, il ‘dibattito’ mediatico recente (che prevedeva, è ovvio, solo risposte binarie di favorevole/contrario) se si dovesse incoraggiare o no un bimbetto di tre anni ad indossare la gonna della sorellina.

Come sempre, non penso a menti diaboliche capaci di corrompere e plagiare tante brave persone ingenue secondo un meccanismo di causa effetto, ma credo piuttosto a una circolarità: alla tendenza generale a cedere per inerzia al ricatto ideologico, a rifuggire dal pensiero e dall’assunzione di responsabilità. Penso a una intera società che non è la vittima, ma la matrice di un tollerantismo sciatto, secondo il quale ogni incuria può essere giustificata e ogni ingiustizia può essere perpetrata in nome del concetto distorto del ‘rispetto’ dell’alterità.

La maggior colpa di nicchie culturali ed accademiche come le cattedre degli Studi di Genere è dunque a parer mio l’aver sprecato la grande occasione di proteggere e promuovere valori autentici del femminile e dell’umano (dal velo al diritto di parola, dalla sessualità alla genitorialità, al lavoro e allo studio) per concentrarsi nel gioco sterile del loro linguaggio autoreferente.

[1] Il riferimento è al dossier pubblicato su MicroMega contenente gli articoli di Vojin Saša Vukadinoviuć, “Dall’emancipazione della donna alla difesa del burqa”, Judith Butler e Sabine Hark”Diffamazione”, e di Alice Schwarzer ”Razzista a chi?”. Il libro citato è Beißreflexe. Kritik an queerem Aktivismus, autoritären Sehnsüchten, Sprechverboten [Riflesso di morso. Critica dell’attivismo queer, delle nostalgie autoritarie,delle censure], Querverlag 2017

Lascia un commento