L’etnografia a Neuchâtel, un caposaldo museografico [di Cristina Fiordimela]

Duriet_1-657x360

Il Giornale dell’Architettura.it 10 gennaio 2018. Riferimento internazionale, il Museo etnografico di Neuchâtel espone una ricca collezione in una nuova formula espositiva curata dall’atelier Manini Pietrini che s’inaugura con la mostra “L’impermanence des choses”.

In origine Villa de Pury era una villa residenziale dal tipico carattere severo e classicheggiante con qualche reminiscenza della tradizione locale rurale, come era in voga nei palazzi costruiti ai confini dei centri urbani dalla ricca borghesia mitteleuropea di fine ottocento, qui ben rappresentata da Léo Châtelein, all’epoca architetto di punta della cittadina svizzera.

All’interno non mancano le tracce di una fascinazione per l’esotico, come tratto biografico dell’edificio, frutto di una speculazione non-equosolidale, piuttosto colonialista, ad opera del suo fautore James de Pury, commerciante di tabacco prodotto in Brasile.

È in questo miscuglio di presenze/assenze che trent’anni dopo l’edificazione della sontuosa residenza si spegne la vita domestica, intrecciata alle relazioni dell’attività mercantile della proprietà, per lasciare spazio, a partire dal 1904, alla vocazione di casa-museo, accogliendo la collezione etnografica donata alla città di Neuchâtel dal generale Charles Daniel de Meuron nel 1795.

Fu lo stesso Châtelein a riconfigurare gli spazi della villa in assetto museale, rivisto nel 1954 sotto la direzione di Jean Gabus, quando con l’ampliamento della black box, costruzione dedicata alle esposizioni temporanee, la missione del museo si concentra nella ricerca articolata e sperimentale dello studio e dell’esposizione dei temi etnoantropologici.

Detto altrimenti, il Museo etnografico di Neuchâtel(MEN) diventa un riferimento internazionale a proposito di questioni museologiche e museografiche condivise: come è configurato, come si trasforma, come agisce il museo etnoantropologico nella società? Lo studio e l’uso critico dei media è il carattere peculiare di questo museo adottato da Gabus come strumento di diffusione dirompente e interiorizzato come pattern/costante nelle mostre e nei “densi” momenti di discussione e approfondimento curati dal MEN.

L’impulso dato da Gabus con lo scardinamento del “museo prigione” in un’articolazione dell’esposizione e della gestione che potesse restituire l’idea della complessità e dell’interconnessione in una sorta di trittico spaziale composto da museo dinamico (black box) + depositi (sottosuolo) + museo statico (mostra permanente nella villa de Pury), si spoglia oggi delle superfetazioni dell’allestimento permanente basato sulle vetrine, per disvelare la villa con la lettura stratigrafica della sua storia e di ciò che essa contiene.

“Tomografia” ottenuta con la semitrasparenza di una cortina tessile viva-vegetale associata a plateau e sistemi di sospensione modulari che il locale atelier Manini Pietrini ha messo a punto come linea di continuità museografica che si svolge all’interno della villa, di cui sono ora leggibili anche i caratteri architettonici originari, secondo il duplice registro casa-museo/museo etnoantropologico.

Il nuovo impianto museografico interessa anche gli spazi di accoglienza e di gestione, questi ultimi disposti nel sottotetto in modo da privilegiare la qualità del luogo di lavoro con l’apertura visiva verso il parco esterno e il panorama sulla città. A dare risalto al rinnovamento del MEN, che si completerà con il riallestimento della black box (2018-2019), è la mostra inaugurale “L’impermanence des choses”.

Ne traspare l’uso dell’archivio oltre le classificazioni (cronologiche, geografiche, tematiche) e la sua trasposizione museografica con la sostituzione del display nella teca inteso come microspazio, museo nel museo, nell’impronta lasciata da Gabus ed elaborata da altri museologi del secolo scorso tra cui George-Henri Rivière e il museografo Manfred Lehmbruck – forse non a caso accomunati dall’essere viaggiatori/osservatori per ICOM, UNESCO e teorizzatori di visioni “ideali” del museo – all’organizzazione per blocchi aperti/plateau, che in termini di etnoantropologia sono stati interpretati anche dal MAS di Anversa e che in chiave di arte/scienza emergono come problematica aperta nella recente mostra “Resonance II”, curata dal Joint Research Center  JRC -The European Commission’s science and knowledge service.

“La discontinuità delle cose” mette in campo un ulteriore “utensile” museografico: il tableau poétique, quadro/cartello poetico diffuso nella città, ponendo interrogazioni che dal museo si riverberano nel quotidiano, lasciando percepire l’impossibilità di distinguere tra macro e micro storia, tra macro e micro società.

Un approccio che ritorna con una diversa attitudine nella mostra curata dagli studenti dell’Institut d’ethnologie, impegnati attivamente già da fine anni ’90 nella ricerca del MEN, con l’ideazione di esposizioni temporanee. “Le musée réinventé” (Il museo reinventato) è il tema della loro ultima mostra che, usando come media i reperti di archivio, pone al centro dell’attenzione la pratica museale.

Ecco, studentesse e studenti che ripensano il museo non solo sulla carta ma attivandosi e attivando la vita istituzionale e il dibattito intorno al museo, come avviene in altro modo nel network in espansione delle Science Gallery: un restart museale di buon auspicio.

Lascia un commento