È il momento di decidere da che parte stare. Il neo-premier afferma che sono finite le visioni del mondo, le ideologie, ma nella coalizione c’è fortissima quella della Lega. E se il M5S non vuole farsi assorbire, dovrà prendere una sua posizione. E anche l’opposizione deve rigenerarsi [di Marco Damilano]

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L’Espresso 08 giugno 2018. Pierre Carniti è morto mentre il Senato votava la prima fiducia al nuovo governo. Aveva 81 anni, la voce roca dal fumo dei sigari e dai mille comizi, era nato a Castellone, papà operaio, «a casa eravamo in otto e c’erano due stanze, una per viverci, l’altra per dormire, abbiamo fatto la fame. Non mi chiedete quale è stato il mio primo incontro con la realtà che chiede aiuto al sindacato: io dentro questa realtà ci sono nato…», raccontava.

Divenne il capo dei metalmeccanici della Fim-Cisl all’inizio degli anni Settanta, durante l’autunno caldo, 270 mila tute blu iscritte, e poi segretario della Cisl. Un riformista, un cattolico non democristiano, un socialista. «Ha grinta, tenacia, è intransigente, uomo dai rancori lunghi, le sue famose furie improvvise gli salgono alla gola anche durante le trattative, “quando vogliono farmi credere che Gesù era morto di freddo”», lo raccontava Giampaolo Pansa.

Soumayla Sacko aveva 29 anni, era venuto dal Mali, viveva in Calabria, era sindacalista anche lui, impegnato nell’Usb, l’Unione sindacale di base. Organizzava le lotte per i diritti dei braccianti agricoli sfruttati nella piana di Gioia Tauro e costretti a vivere nell’inferno della tendopoli di San Ferdinando. Lo hanno ucciso a fucilate mentre stava raccogliendo lamiere abbandonate per le baracche con due compagni. Lavoratori pagati due euro all’ora, senza nessun rispetto delle condizioni minime di lavoro, come racconta l’inchiesta di Antonello Mangano in edicola sull’Espresso da domenica 10 giugno.

Pierre Carniti e Soumayla Sacko erano due sindacalisti, di due epoche diverse. Due difensori dei lavoratori, in un tempo antico e nel nostro presente. L’Italia passata in tempi brevissimi nel dopoguerra dalla fame al benessere, dal sindacato dei poveri al pan-sindacalismo dei diritti, delle rivendicazioni (e dei privilegi di una generazione) negli anni Settanta-Ottanta, prima della grande ristrutturazione capitalista.

E l’Italia dei giorni nostri, del lavoro atomizzato, precario, il lavoro che non c’è, l’Italia dei nuovi fantasmi, gli invisibili con regolare permesso di soggiorno e ridotti a schiavi, senza cittadinanza e senza il diritto di esistere. Nella diversità della loro vita e della loro fine, specchio delle abissali trasformazioni del Paese in questi decenni, sono stati due combattenti, di parte, certi della parte che avevano deciso di rappresentare, sicuri di stare da una parte sola.

Pensavo a Carniti e a Soumayla mentre assistevo da una tribuna di Palazzo Madama all’esordio parlamentare della squadra ministeriale presieduta dal professor Giuseppe Conte. Eccolo, il Governo del Cambiamento.

È stata la settimana del nuovo presidente del Consiglio Giuseppe Conte, tra discorsi in Aula, parate e voto di fiducia. Per molti italiani è uno sconosciuto, un oggetto misterioso. Ma non per tutti: nell’inchiesta di copertina di questa settimana L’Espresso racconta la rete di amicizie e conoscenze, tra cardinali e politici, che hanno costruito il famoso curriculum del nuovo premier. Con un approfondimento sulla vita passata di Conte e il suo lavoro come avvocato. Ne emerge il ritratto completo di un arcitaliano: un po’ amico dei renziani e un po’ dei berlusconiani e adesso presidente del “governo del Cambiamento”. Il direttore Marco Damilano racconta cosa trovate nel nuovo numero dell’Espresso

Matteo Salvini ingobbito sui banchi, come se fosse sempre sul punto di esplodere. Luigi Di Maio con il sorriso stampato sul volto, felice di esserci. Paolo Savona arcigno-marmoreo, già monumento di se stesso. E poi Danilo Toninelli concentrato, Alfonso Bonafede emozionato, il ministro degli Esteri Enzo Moavero terreo in volto, come un condannato al patibolo che annuisce alla lettura dei capi di accusa, molti sconosciuti.

In mezzo a loro, il nuovo premier, perfettamente calato nella parte, come un attore di fiction che interpreta il ruolo del capo del governo, la pochette e i gemelli ai polsini, l’umiltà ostentata e un’ambizione trattenuta a stento eppure visibile, la rivendicazione in aula del populismo con una retorica di altri tempi, meno spensierati: «Se populismo è attitudine ad ascoltare i bisogni della gente ebbene allora le forze politiche che sostengono questo governo meritano questa qualificazione!». Se fosse questo il populismo, verrebbe da rispondere, allora tutti i partiti dovrebbero essere populisti. Ma così non è, o non è soltanto.

E allora, mentre il neo-presidente del Consiglio si avventurava nella lettura ecumenica delle sue cartelle programmatiche, qualche riga per tutti, come un papa che fa gli auguri di Natale e Pasqua in tutte le lingue, tornavo a pensare a Soumayla e agli spari che lo hanno stroncato, a Carniti e alle lotte sindacali di una stagione lontana e mi chiedevo: ma questo governo, il premier Conte, i suoi prorompenti vice di M5S e Lega, da che parte stanno?

Può sembrare una domanda ingenua. E il premier Conte ha già dato una risposta nel suo primo intervento parlamentare: destra e sinistra non ci sono più, «non esistono più forze politiche che hanno visioni complessive del mondo», i programmi vanno giudicati sulla base «dell’intensità del riconoscimento dei diritti della persona», c’è una sola parte che vale, il popolo, senza aggettivi, connotazioni ideologiche o sociali, il popolo che vota e i suoi rappresentanti espressione della sua volontà, gli esecutori del contratto, i partiti che non possono essere neppure definiti così.

Ma vale la pena continuare a chiedersi da che parte stanno il nuovo governo, la maggioranza gialloverde che Salvini vorrebbe chiamare gialloblu, chi rappresenta e chi intende rappresentare. Perché dalla risposta a questa domanda dipende anche la definizione dell’opposizione. Che tipo di opposizione sarà messa in campo rispetto a questo governo e a questa maggioranza? Con quali modalità? Sì, da che parte starà l’opposizione?

Per Matteo Renzi, leader tutt’altro che in disarmo del Pd o di quello che verrà, il nuovo governo non è il bipolarismo di domani, un accordo temporaneo che sarà sciolto con l’obiettivo di M5S e Lega di egemonizzare i due schieramenti che si confronteranno nei prossimi anni, ma una nuova coalizione, destinata a durare e a diventare una cosa sola. Un pentapartito populista, come l’ha definito Marco Minniti. I primi passi del nuovo governo autorizzano a pensare che sia così, e la personalità del premier ne è la sintesi.

Conte è il Forlani populista, un populista in grigio, un populista vanesio. Un Coniglio mannaro, pronto ad azzannare. Ma è anche, visibilmente, un esponente del nuovo Movimento 5 Stelle, quello che si è formato nelle urne il 4 marzo, molto diverso dalla matrice iniziale impressa da Gianroberto Casaleggio e dal suo interprete Beppe Grillo.

Sul pullman del nuovo M5S sono saliti notabili, rotariani di provincia, professori di terza o quarta fila, professionisti vogliosi di emergere, con la strada sbarrata nei partiti tradizionali fin troppo affollati di ceto politico ma con le praterie spalancate nel capiente e accogliente contenitore elettorale e ora governativo messo su da Di Maio.

Conte è un arci-italiano, ce lo raccontano Emiliano Fittipaldi e Vittorio Malagutti sull’Espresso in edicola da domenica 10 giugno: senza cambiare una piega del suo abito, poteva essere berlusconiano negli anni Duemila, renziano nel 2014, oggi è un premier pentastellato. Non soltanto per trasformismo personale, qualcosa che lo colloca stabilmente in continuità con la vicenda nazionale, ma perché sempre più incerti, instabili, mobili, sono diventati i confini di queste creature politiche.

 

 

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