Gli incendi che cambiano; e noi come cambiamo? Che dire poi del Ddl Pigliaru sul governo del territorio che non cita il rischio incendio [di Giuseppe Delogu]

Incendio-Isili

Nel 2017 fu organizzato un bel corso da Elighes s.r.l., spin-off dell’Università di Nuoro, a cui hanno partecipato professionisti e studenti di varie parti d’Italia e quelli del Corso di Laurea in Scienze Forestali e Ambientali di Nuoro per riflettere sul fenomeno degli incendi di nuova generazione e su come fare per affrontarli in modo proattivo.

L’estate 2018 sarà ricordata per essere stata statisticamente meno colpita dagli incendi (non posseggo ancora i dati ma – a occhio – mi pare che siamo tornati a livelli più bassi rispetto al 1995, anno di minimo storico, fino a questo 2018). Tutto bene dunque?

Certamente si dirà che le condizioni meteoclimatiche ci hanno aiutato, con una piovosità che ha raggiunto livelli impensabili per i mesi di luglio e agosto, ma anche che il sistema regionale è stato adeguato con un apparato “tra i migliori d’Italia” e una pronta risposta ad ogni focolaio.

Eppure – dato che sono mancate le condizioni “mediatiche” perchè di incendi si parlasse – il fenomeno, improvvisamente si è nascosto. Not in my backyard, non nel mio cortile: non è successo nulla in casa nostra e perciò, perchè parlarne? Ma il nostro cortile è diventato più grande. La Grecia a luglio, la California subito dopo ci dimostrano che il fenomeno è ben lontano dall’essere risolto. Anzi, si è aggravato.

E, se non quest’anno, tornerà più virulento che mai a ricordarci che siamo una terra di fuoco. Un anno di calma relativa dovrebbe essere lo stimolo a riflettere su come gli incendi sono cambiati e tenderanno a cambiare in peggio, sempre più, nei prossimi anni, mettendo a rischio vite umane e beni materiali, oltrechè ambientali.

In sintesi:

a) l’abbandono della terra e la crescita della superficie forestale senza gestione. Dal 1985 al 2005 la Sardegna ha aumentato di oltre il 30% la sua superficie forestale, superando 1.200.000 ettari di “bosco” (in questo concetto sono comprese anche le superfici a macchia mediterranea e gli arbusteti), pari a poco più del 50% della superficie territoriale. Sono aumentate le superfici forestali ma non sono gestite. L’unica gestione è la Non-gestione (opzione possibile ma essendo generalizzata diventa un grave limite).

Nonostante tentativi di pianificazione (sulla carta) la visione osservativa e contemplativa della foresta rimane un dogma, alimentato da certo estremismo urbano, lontano dal sentire di molte popolazioni rurali per le quali la foresta appartiene alle comunità, che la devono poter utilizzare nei modi e nei tempi che l’ecologia applicata e le norme consentono.

b) la crescente convivenza di insediamenti turistici e residenziali “immersi nel verde”, dove il verde (invernale) diventa giallo e secco (d’estate). Residences, parcheggi in costa, privi delle più elementari strutture di autoprotezione. Bastano le annuali ordinanze antincendi? Posso dire che sono ormai insufficienti, gravemente insufficienti, per come gli incendi possono propagarsi. Può una fascia parafuoco di 30 metri (se ben tenuta) ostacolare le fiamme di un incendio convettivo che lancia salti di fuoco a 300-500 metri di distanza? Possono gli idranti in prossimità delle case (spesso anche quando l’acqua non c’è!) spegnere fiamme che raggiungono 900-1000°C?

Da questo punto di vista il tema è più urbanistico che di “protezione civile”. Sta per essere approvato un disegno di legge regionale che si definisce “Norme per il governo del territorio” e che cita (ricordo a memoria) 15-17 volte il rischio idrogeologico ma neanche una volta il rischio incendio; eppure il tema della protezione dei residenti e dei turisti da un fenomeno ricorrente con frequenza costante e violenze inaudite dovrebbe essere presente, ben presente nei promotori di una legge come questa.

Per esempio, pretendendo l’applicazione di aree di gestione del verde, esterne ed interne, ai residences nello stesso progetto insediativo, e per quelli già esistenti la costruzione di un sistema integrato di prevenzione attiva a scala di paesaggio.

Il Piano Regionale Antincendi è un documento che riflette le linee guida diramate a seguito della L. 353/2000, ma è ormai decisamente insufficiente. Infatti non va oltre una sommaria analisi a scala regionale e un elenco di procedure di funzionamento dell’apparato.

A scala inferiore (per esempio a livello provinciale o di bacino, o a “scala di paesaggio”) non esiste nulla. Si passa direttamente dal livello regionale al livello della responsabilità individuale per inapplicazione delle disposizioni dell’ordinanza.

Ma di chi è la proprietà del rischio? Possiamo dire che questo sistema metta in chiaro davvero di chi sia la responsabilità dei danni eventuali da incendio? Di chi è la responsabilità se un incendio – nonostante i grandi e coraggiosi sforzi degli operatori per spegnere – attraversa limiti comunali, supera proprietà, interseca aziende agricole, distrugge produzioni, animali, fino a giungere, come a Mati in Grecia lo scorso luglio, a uccidere 92 persone? Di chi è la responsabilità se la mia casa brucia perchè il mio vicino possiede un terreno abbandonato dove la macchia densissima giunge a 4-5 metri di altezza e le fiamme possono arrivare anche a 10-15 metri di lunghezza?

Esistono in tutto il mondo studi, applicazioni, esperienze che portano ad una sola necessaria strada: quella della gestione dei combustibili (non possiamo infatti modificare le condizioni meteo nè modificare la morfologia, le altre due componenti del triangolo del fuoco).

E dobbiamo identificare azioni pianificate, da rendere obbligatorie in una legge urbanistica, non nelle prescrizioni antincendio mutevoli di anno in anno, che identifichino a scala di paesaggio in particolare i punti critici, aree vaste (non solo fasce parafuoco) come sistemi agricoli in cui effettuare radicali azioni di riduzione del combustibile prima dell’estate, che possano interrompere il percorso del fuoco da qualunque parte arrivi.

Gestire secondo principi di “pirogiardinaggio” le pertinenze delle case, eliminando i punti di contatto delle chiome con sistemi tecnologici (linee elettriche, depositi di gas etc.). Ciascun Comune dovrebbe studiare alla sua scala i punti critici, i punti di gestione attiva dei combustibili, la viabilità, i punti di cambio del comportamento del fuoco. E questo non compare nelle pianificazioni di emergenza incendi previste dai dispositivi della Protezione Civile. Nel migliore dei casi sono piani di “pronto soccorso”. Ma non di prevenzione.

Occorre cogliere l’occasione di questa calma, strana estate per riproporre con decisione la via della “Prevenzione Civile” in superamento della idea di “Protezione Civile”. Nessuno ci può salvare, se non noi stessi.

 

2 Comments

  1. Vittorio Leone

    Concetti lucidi e chiari che fanno ben comprendere come la strada sia quella della prevenzione. Ma anche qui c’è da intendersi: prevenzione vuol dire intervenire a scala di territorio per renderlo meno vulnerabile, e a scala di componente umana, per restituire la capacità di reagire ( leggi resilienza) a quanti vivono sul territorio ma non possono, o non vogliono, o non sanno intervenire.

  2. Damiano Serpi

    Niente di più vero e giusto, scritto con la competenza di chi ama davvero la sua terra. Chi ha grande esperienza e conoscenza delle cose non può che concordare che la chiave di tutto sta nella prevenzione attenta e soprattutto responsabile. Un modo diverso di intendere la protezione civile per farla diventare prevenzione civile diffusa e consapevole. Questa è la strada maestra che, ahimè, ho paura resterà per molto tempo ancora, o forse per sempre, un piccolo sentiero che percorreranno sempre più in pochi. C’è chi ci ha creduto sino in fondo ma ha dovuto arrendersi, mi auguro, per la Sardegna, che altri abbiano miglior fortuna.

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