Si presenta a Cagliari l’opera prima di Rosario Musmeci dove capita di smarrire la dimensione del presente e di cercare “ciò che non è più” [di Giuseppe Amoroso]

rosario

Cagliari, Venerdì 28 ore 18,30, Chiostro Hostel Marina, Scalette San Sepolcro,  sarà presentato il prezioso primo romanzo di Rosario Musmeci “Il terzo scatto” (La città del sole, pp. 137). Dialogheranno con l’Autore Vito Biolchini, Franco Masala, Maria Antonietta Mongiu. Legge passi dell’opera  Lia Careddu. Organizzano LAMAS, www.sardegnasoprattutto.com, Miele Amaro (NdR).

Romanzo breve, intenso, costellato di sorprese, variabili punti di vista, incisi che frangono il tempo, incroci dinamici delle parti dialogiche, rallentamenti dai quali si sventaglia un’accelerazione imprevedibile, Il terzo scatto (La città del sole, pp. 137) di Rosario Musmeci, pur muovendosi lungo la traiettoria della narrativa tradizionale, ne viola con decisione i canoni più frequentati privilegiando un intreccio di capitoli secchi, quasi di struttura autonoma.

Una sorta di piccoli episodi che, nel rosario di una compagine romanzesca in subbuglio, sgrana tematica dure e grandi passioni. Siciliano d’origine e sassarese d’adozione, l’autore — come ha indicato Aldo Morace in una imprescindibile lettura — “sembra aver fagocitato dalle due isole la potenza espressiva che ne ha caratterizzato la narrativa tra i due secoli”.

L’eco del romanzo ottocentesco, e l’asse Verga-Deledda, occhieggiando infondono un timbro di malinconia cupa, un avviso di venti scuri che, pur avvolgendo le varie storie, tuttavia non ne distrae il “senso di marcia”: brivido (con un filo d’ironia) di un disguido dell’esistenza, lascia un’esca di antico, di ancestrale, che giova alla definizione delle varie figure e all’atmosfera del libro.

Un impasto linguistico di vernacolo siciliano e lingua nazionale (le cui distinte funzioni, monologhi di Carlo e le parti degli altri, sono chiarite da Aldo Morace) sommuove la scrittura, alla quale conferisce l’araldica vidimazione di un mistilinguismo utile a tradurre la cifra più segreta di situazioni a confronto.

L’autore irradia in un narrato scolpito e mormorante i depistaggi, gli spiazzamenti (accesi dal crescendo delle tensioni  o problematizzati da tagli coraggiosi) di quel tenore psicologico, descrittivo e morale e storico che anche  in  un semplice microepisodio riesce  a privilegiare tipologie comuni o eccentriche, gesti della quotidianità e fatti esposti a un “vento che non ha parole”,  per poter osservare sotto superfici  protettive tutto quello che può essere scoperto di oscuro e inquietante.

L’impatto con un piccolo mondo in brusio d’ombre, percepito in trasparenza, affondato nei frammenti ed esposto nella sua articolata decifrazione, produce quello “scatto” in più, quel fotogramma che il vettore del romanzo isola per segnalare i particolari sfuggenti, anche i “lievi segni di insofferenza”, i dettagli fermi nella loro distonia, quell’insignificante movimento espressivo che può fare di una figura la “smorfia di un sorriso”.

Rigano la pagina riflessioni sintoniche, come incollate sulla realtà, ma al contempo, diffuse per coprire uno spazio in più di scena, per allargare il confine, in avvio millimetrato, e per ottenere un visione mitica, una sorta di fermo immagine teso, sì, a bloccare le figure ma non a impedire che si diffonda una oscillazione di sensi, come il respiro di un mistero.

Tutto ha inizio da un globo di ricordi di fanciullezza che si ripresentano all’anziano protagonista Carlo, al quale succede un giorno di smarrire d’improvviso la dimensione del presente e di cercare con lo sguardo “ciò che non è più”. Dal fondo del passato sale invece, lucidissima, la memoria di una grande famiglia e di una casa che “si adattava senza problemi a tutte le novità”e nella quale anche i morti sembravano non allontanarsi mai definitivamente.

Un transito  di corpi alla moviola, subito in primo piano e poi nello specchio di luce che imprigiona:  la madre, “ballerina dentro un carillon”; il padre che “non si fermava mai”; la sposa Angela, quella fanciulla dagli occhi verdi, vagheggiata, in giovinezza, in chiesa, alla domenica e nelle passeggiate festive scandite dal  “ritmo del pensiero”; e i componenti della famiglia (Il nonno Aronne, i figli Antonio ed Elena), ciascuno con la sua avventura, e  le consuetudini, il dominio delle leggi eterne dell’esistere, le libertà negate e le finzioni, gli ideali consunti e le correnti che attraversano gli uomini ma che non devono “risalire in superficie”.

Su un registro espressivo di notevoli “sperimentazioni” (Aldo Morace) s’avvolge su se stessa una non-vita, in un obliquo scenario respirante. Ma passare ad altro, alla realtà che oltraggia e corre via, è “come precipitare senza protezione” nell’ignoto. La risposta viene da quel “tragico sortilegio” dei ricordi che ha patito la “ferocia” di tenere insieme tutta la famiglia.

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