Accogliere conviene di più che segregare [di Antonietta Mazzette]

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Il ministro dell’interno ha disposto il trasferimento dei migranti che vivono a Riace per “palesi irregolarità” nella gestione del sistema di protezione per richiedenti asilo (SPRAR). Il ministro ha anche dichiarato che “non si possono tollerare irregolarità nell’uso dei fondi pubblici”, per cui “chi sbaglia paga”.

Com’è noto, il sindaco Mimmo Lucano è agli arresti domiciliari. Nonostante queste irregolarità e, aggiungo io, una buona dose di sprovvedutezza, la Procura esclude che il sindaco si sia mai appropriato di denaro pubblico.

Questo provvedimento, al di là della polemica che sta scatenando, merita una riflessione sul complessivo sistema di accoglienza dei migranti e su che cosa abbia rappresentato Riace, considerato che in Italia l’esperienza di questo piccolo paese calabro – divenuto noto ai più nel 1972 a seguito del ritrovamento dei bronzi, di Riace per l’appunto –  è diventata elemento divisivo tra quanti la considerano un modello mediterraneo di immigrazione e quanti, invece, la ritengono pericolosa e da chiudere.

È evidente che il suddetto ministro sta dando ampiamente voce ai secondi, ma chiediamo quali effetti concreti produca questo provvedimento, al di là dei tweet, e quali alternative di accoglienza vengano avanzate in sostituzione.

L’esperienza di Riace può essere sintetizzata in questo modo: un’intera comunità (e non solo il sindaco) che stava scomparendo per via dello spopolamento ha deciso di accogliere qualche centinaio di migranti, per lo più nuclei famigliari, nelle loro case abbandonate e ha trasmesso loro i cosiddetti saperi locali. Ecco che questo borgo ha ripreso vita sia dal punto di vista delle attività artigianali, sia da quello sociale e comunitario.

Questa scelta, nei fatti, è stata anche ragione di attrazione di turisti che hanno trovato ospitalità presso le case degli abitanti, dando luogo, così, a una sorta di albergo diffuso. Non entro nel merito delle vicende giudiziarie del sindaco, mi limito a ricordare che in Italia la responsabilità penale è ancora individuale e non può essere estesa alla comunità di appartenenza.

Ma mi pare di poter sostenere che questo modo di intendere l’accoglienza sia comunque preferibile alla segregazione nei centri straordinari o di prima accoglienza. In questi centri ai migranti vengono assicurati un riparo, del cibo e dei vestiti, ma raramente si va oltre questi servizi primari, tranne casi in cui gestioni più “illuminate” organizzano corsi formativi, a partire dall’apprendimento della lingua italiana.

Il risultato di questo sistema è sotto gli occhi di tutti: giovani che stazionano nelle vie delle nostre città e che cercano di racimolare qualche spicciolo. Si tratta di persone che stanno per così dire nella terra di mezzo, non appartengono più ai Paesi che hanno dovuto abbandonare e neppure all’Italia, dove continueranno comunque a stare, nonostante i vari proclami del tipo “li rimandiamo a casa loro”: ogni anno solo poche migliaia di stranieri vengono riportati nei loro Paesi e solo se vige un accordo bilaterale in tal senso. E allora, ripropongo il quesito: quali politiche sostitutive di accoglienza sta elaborando questo governo?

Concordo con il ministro che chi “sbaglia paga” quando fa un uso irregolare del denaro pubblico. Molti cittadini, infatti, sono in attesa che il suo partito restituisca i circa 50 milioni di euro scomparsi nel nulla.

Perciò, se il sindaco ha sbagliato pagherà, ma lo smantellamento del modello Riace ha un duplice scopo: impedire che si diffonda l’idea che in Italia un sistema di integrazione è possibile, perché minerebbe alla base tutta la politica leghista sulla migrazione; tenere alto il clima di tensione tra autoctoni e stranieri, anche a rischio di scatenarlo là dove si intende trasferire i migranti.

Ecco che si capisce perché è così urgente smantellare un buon esempio di accoglienza sostenibile, anche a costo di inasprire il conflitto, ma forse è proprio il conflitto che questo ministro va cercando.

*La Nuova Sardegna 15 ottobre 2018

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