Apocalisse culturale [di Maria Antonietta Mongiu]

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L’Unione Sarda 4 novembre 2018. Le immagini dei danni inferti dal maltempo denunciano assenza di manutenzione, abuso dei luoghi per l’arbitrio dei decisori politici, ma anche disconoscimento delle popolazioni.

Una complicità che, per reciprocità e rispecchiamento, traccia un’interdipendenza assai tenace tra l’urbanistica del cemento, abusivismo e condoni. Indizio della stravolta percezione di suolo, paesaggio, ambiente ed esito di un processo che anche in Sardegna ha come denominatore l’assenza di competenze e di cultura.

Comportamenti coerenti coi dati OCSE Pisa che collocano all’ultimo posto delle graduatorie internazionali i nostri quindicenni per possesso di competenze. Quelle che, difficilmente, saranno recuperate perché derivano dalla fragilità della comunità educante; dall’assenza dello spazio pubblico; dalla latitanza del contesto in cui si vive. Dati pietrificatesi negli anni e in linea con quelli altrettanto sconsolanti sul livello di conoscenze degli studenti sardi, ultimi nelle classifiche INVALSI. Openpolis non dice cose diverse sull’abbandono scolastico. La Sardegna è la prima in Italia.

C’è un filo rosso che tiene tutto al ribasso malgrado le narrazioni su iscola@ o la buona scuola.  Sarebbe come rispondere alle statistiche su una patologia endemica con smaglianti divise per infermieri e medici piuttosto che con le profilassi utilizzate nei luoghi dove è stata debellata. Vero è che le foto con belle divise sono più accattivanti di un oscuro lavoro in corsia, di cui peraltro in Sardegna ci sono esemplari testimonianze.

La CEI parlò di emergenza educativa. Oggi si è oltre perché quanto è accaduto a Nule e Macomer, non diversamente da Roma o da Cagliari, impone di ridiscutere i paradigmi tracciati, a partire da quelli spregiudicatamente elettorali.

Ecco perché le immagini dei danni provocati dalla pioggia sono la metafora di un’apocalisse antropologica che riguarda contesti urbani e zone interne; decisori e opinione pubblica. Le responsabilità sono diverse ma nessuno può sottrarsi, e non solo per la potenza visiva della natura matrigna e di adolescenti, con volti di pasoliniana memoria, diventati disumani in una sera d’autunno. Materia prima per sociologi e storici di domani, sono oggi, nella contemporaneità sarda, carta d’identità dell’irreparabile frattura tra urbs e civitas.

Urge allora che le declinazioni della cultura si interroghino non diversamente dai decisori politici. Possono? O sono impedite dalla totale dipendenza dai finanziamenti pubblici? Michelangelo Pira vide giusto nel pericolo di una Regione in Sardegna finanziatrice esclusiva? A ragione non è più dilazionabile l’elaborazione di luoghi indipendenti e di nuove geografie, culturali  e socioeconomiche, che declinino, oltre i conformismi e gli etnocentrismi imperanti, un’autocoscienza critica.

La Costituzione ne traccia l’orizzonte nel riconoscimento dei valori ambientali e paesaggistici, delle stratificazioni e dei processi che li hanno governati, ed insieme del ruolo della formazione, della pedagogia sociale, della governance. Il “Codice dei beni culturali” nel  2004 definì quell’orizzonte nel Piano Paesaggistico Regionale di cui ogni regione deve dotarsi.

La Sardegna lo fece nel 2006. Oggi un fantasma avvolto da fraintendimenti perché ignoto ai più mentre attende da 12 anni di essere esteso a tutta la Sardegna, che, con quello strumento costituzionale, riconobbe il senso di una millenaria vicenda antropica e dei tanti paesaggi conseguenti.

Rubando una battuta a De André, i sardi smettevano di fare i sardi per esserlo, consapevolmente, facendo sintesi di decenni di studi e di impegno culturale e ponendo la memoria e la conoscenza come costitutive  del futuro.

Fanno riflettere le pagine scelte de L’Unione Sarda per il 130° anniversario. Fotografano una borghesia urbana o che si fa tale anche quando non lo è. Sempre latamente compradora, si rispecchia nel quotidiano, istituzione laica, che intanto attraversa tre secoli, due guerre mondiali, industrializzazione, Nobel, Gramsci, sconvolgimenti sociali e antropologici.

Filo rosso è la percezione della Sardegna come problema e mai come valore o opportunità; percezione che diventa una pedagogia svalutativa malgrado il giornale sia contestualmente decisivo nella costruzione della modernità.

Le immagine dei luoghi e delle persone di questi tristi giorni cambieranno le narrazioni e le iconografie altalenanti, da troppo tempo, tra mitopoietica e disconoscimento? Necessariamente.

C’ è urgenza di tematizzare il tradimento ai danni dell’urbs e della  civitas che ciascuno ha l’obbligo di riconnettere con le pratiche della dialettica del riconoscimento di luoghi e di persone. Quotidianamente. Salveremo noi e la terra, in prestito pro tempore brevi.

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