Per essere libere bisogna cambiare i simboli [di Maria Giovanna Piano]

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L’Unione Sarda 19 febbraio 2019. Dibattito. Per anni le donne hanno approfittato dell’assenza dai luoghi della politica istituzionale per moltiplicare gli spazi pubblici di presa di parola, di pensiero e di pratiche che tessevano un’idea “altra” di politica.

Lontane dai recinti della rappresentanza hanno dato vita a una rappresentazione di soggettività sgombra delle pastoie dell’identità, capace di modificare i contesti materiali e di spostare gli assetti simbolici della cultura e delle relazioni. Hanno fatto la “differenza” nell’epoca che neutralizza le differenze.

Grande il guadagno in termini di libertà con esiti impensabili per via giuridico/normativa. Libertà ottenuta con forza propria che ha  sparigliato l’ordine della polis, mandando fuori sesto un sistema che parassitava la vitalità delle donne e ne sanciva il loro svilimento. Alla stessa messa in campo con un lavoro di risignificazione del senso di sé e del proprio stare al mondo, occorre riandare per capire i nuovi movimenti delle donne nella scena internazionale come ha ricordato Maria Antonietta Mongiu il 3 gennaio attivando il dibattito in questo giornale.

Movimenti come il Metoo, che ha tenuto in scacco il sistema ricattatorio, che presidia le realtà del mondo del lavoro, dello spettacolo e della politica, hanno mostrato a livello planetario l’esistenza di una parola pubblica autorevole sui temi del corpo, della sessualità e non solo. Come esito non trascurabile, si è evidenziata la rottura di complicità maschile prodottasi come conseguenza della presa di parola delle donne che in prima persona si sono esposte a partire da sé. Si è incrinata, a beneficio di tutti, la rappresentazione monolitica di un maschile graniticamente compatto nei sistemi vessatori che condizionano la vita di molte donne.

Occorre dunque agire il vantaggio, dato da un protagonismo femminile che ha invertito il processo di vittimizzazione e superato la postura rivendicativa e questuante, che agitava ossessivamente lo svantaggio, riproducendolo con la mediazione di autorappresentazioni immiserenti.

Anche lo svilimento o la negazione degli aspetti più fecondi della tradizione culturale locale è operazione miope, se non autolesionista, che fa capo all’impulso di interpretare il passato proiettandovi gli sfaceli del presente. Nella stessa rilettura, non scevra di implicazioni misogine, della nostra storia antropologica emergono preoccupanti indicatori della difficoltà a stare in presenza del valore femminile.

Molte delle cose che sconvolgono e sfregiano le comunità, in primo piano la violenza alle donne, più che il portato di una storia ancestrale, sono un esito di sconsiderati processi di omologazione della modernità, abbracciati con entusiasmo, ignari che il Mito da cui guardarsi era l’emancipazione omologante che scambiava benessere materiale e promozione sociale con lo svilimento dei migliori valori della nostra cultura.

L’ossessione per gli stereotipi ha reso stereotipato lo sguardo, contribuendo alla mortificazione di una tradizione culturale che con l’autorità femminile era comunque venuta a patti. Appare chiaro che al nostro presente non serve rivendicazionismo, serve piuttosto indipendenza simbolica. Checchè se ne dica abbiamo di fronte un dominio maschile che per l’essenziale ha perso la sua presa, ma mantiene violentemente la sua pretesa.

Lo stesso fenomeno del femminicidio, della violenza sulle donne, a volerlo vedere, sta, per quanto paradossale sembri, dentro la crisi di un dominio che ha cessato di essere percepito come naturale. Un potere maschile a cui le strategie di assoggettamento tornano ormai indietro come giocattoli rotti. Una donna che tiene testa ad un uomo violento con parole e fatti non è una donna assoggettata, ma una che sceglie da sé cosa fare della propria vita ossia una donna che agisce il desiderio di dare un senso libero allo stare al mondo.

C’è in tutto ciò il portato migliore del lavoro politico che le donne hanno fatto insieme da decenni che, come quello prezioso dei centri antiviolenza, va sostenuto con rappresentazioni adeguate al cambio di civiltà che si vorrebbe. Non si può negare il permanere di uno iato tra la politica che le donne fanno e la politica comunemente intesa. Eppure le donne che si fanno avanti chiedendo per sé l’accesso allo spazio decisionale, sono portatrici di un potenziale che può rivelarsi dirompente se ha a che fare da un lato con la messa in mora del tacito patto di esclusione su cui si regge un sistema politico pensato dagli uomini a propria misura, dall’altro con il rifiuto di un’idea di inclusione meramente spartitoria.

Il problema infatti è come ridisegnare lo spazio istituzionale con uno sguardo più attento alla qualità delle fondamenta piuttosto che ai quattro passi che separano dal tetto.

*Filosofa

 

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