Il capitalismo? Va ridiscusso, ora serve radicalità [di Giacomo Russo Spena]

galantara

Micromega 1 aprile 2019.  intervista a Fabrizio Barca di Giacomo Russo Spena
Qualcuno se lo sarà chiesto: che fine ha fatto Fabrizio Barca, l’ex ministro ‘illuminato’ che doveva rigenerare i circoli Pd e rilanciare la sinistra? La risposta è arrivata quando, lo scorso 25 marzo, ha illustrato a Roma un rapporto con quindici propste programmatiche che mirano a modificare i principali meccanismi che determinano la formazione e la distribuzione della ricchezza: dal cambiamento tecnologico al salario minimo, dal concetto di sovranità collettiva al campo della ricerca.

L’ingiustizia sociale e la percezione della sua ineluttabilità sono all’origine dei sentimenti di rabbia e di risentimento dei ceti deboli verso i ceti forti e della dinamica autoritaria in atto”, evidenzia Barca. Lontano dai riflettori, ha ideato il Forum disuguaglianze e diversità collaborando con le migliori menti in circolazione ed aprendo a volti noti come l’ex presidente dell’Istat Enrico Giovannini, il direttore del Servizio Analisi statistiche di Bankitalia Andrea Brandolini e a diverse onlus come la Fondazione Lelio Basso, ActionAid, Cittadinanzattiva, Caritas e Legambiente.

Partiamo dai numeri: i dati Oxfam evidenziano come nell’era della crisi ci sia stata un’accumulazione delle ricchezze nelle mani di pochi a scapito di molti. Ciò dimostra che la crisi non è stato un fenomeno generalizzato?

Da come si evince dal grafico relativo al periodo tra il 1995 e il 2016, la quota di ricchezza dell’1% più ricco della popolazione adulta è passata dal 18 al 25%, quella del 10% più ricco dal 49 al 62%: l’andamento, quindi, è cominciato vari anni prima della crisi economica. Il problema era strutturale. Possibile che la politica ha impiegato 20 anni per capire che, persino in una società capitalistica, quel trend era insostenibile?

Mentre le diseguaglianze crescevano, la politica non si occupava minimamente del tema: scelta strategica o semplice svista?

Di mezzo ci sono gli interessi di una classe dirigente – sempre più intrecciata ai poteri economici e finanziari – che ne ha tratto beneficio. Esiste, secondo me, anche una seconda ragione che gli studi di Anthony Atkinson ci sottolineano: alla fine degli anni ‘70 è cambiato il senso comune su parole chiave come povertà e merito.

Ci faccia capire meglio…

Prima il merito era legato al visibile impegno di una persona nell’aggiungere valore, anche privato, che avesse delle ricadute sociali. Oggi viene vincolato al risultato patrimoniale che una persona esibisce nella vita. Quindi il solo aumento di ricchezza viene inteso come segno di successo. Lo stesso discorso vale per la parola povertà: una volta si pensava – finanche con pietismo – alle sciagure capitate al povero disperato, adesso si tende a colpevolizzarlo. Questo cambiamento gramsciano del senso comune ha sviluppato una distorsione culturale.

Il sociologo Luciano Gallino parlava di una controffensiva neoliberista iniziata da Reagan e Thatcher che aveva portato ad un pensiero unico dominante, riducendo le differenze tra destra e sinistra. Questo dato rimane, però, centrale?

La svolta avviene quando si accetta in maniera dogmatica il motto “There is no alternative”. Ma la crisi che la socialdemocrazia incontra alla fine degli anni ‘70 non è casuale: quel modello evidenzia i propri limiti in quanto burocratico e top-down. L’idea straordinaria di Olof Palme e Willy Brandt di celebrare la redistribuzione delle ricchezze e la partecipazione democratica vacilla perché l’intervento, a monte, sul come si formasse la ricchezza era stato insufficiente.

Sta criticando il pensiero keynesiano?

Certo, la diseguaglianza non si può contrastare soltanto con la redistribuzione. Bisogna assumere il dato che la socialdemocrazia viene spazzata via da Reagan e Thatcher perché il modello keynesiano, in quegli anni, manifesta i suoi limiti.

Il miliardario Warren Buffett è il terzo uomo più ricco al mondo e qualche anno fa ha detto: ‘‘la lotta di classe esiste da vent’anni e la mia classe l’ha vinta’’. Che ne pensa? È ancora sensato parlare di lotta di classe?

A lui piace il paradosso, però coglie una verità all’interno del processo finora descritto: l’arroganza degli Mark Zuckerberg di questo mondo che si permettono di non recarsi nemmeno davanti al Parlamento britannico. I potenti dettano legge e si sentono intoccabili.

Passiamo al rapporto del Forum, le vostre 15 proposte si possono considerare liberal-socialiste?

Dal punto di vista culturale riflettono le tre componenti – liberale, socialista e cristiano sociale – che sono nell’articolo 3 della Costituzione che sancisce come “compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”. Sono due le parole che ci contraddistinguono. La prima è “persona”, termine che rappresenta un valore comune a tutte le culture politiche. Una seconda parola è “radicale”. Non ci interessa il riformismo perché non sfrutta i grandi spazi non capitalistici che puoi guadagnare dentro il capitalismo. Si deve ricominciare ad incidere sui meccanismi di formazione della ricchezza.

Un Barca rivoluzionario che mette in discussione il capitalismo?

È stato già messo in discussione tra gli anni ‘50 e ‘70. Poi abbiamo lasciato per 30 anni che la società si adattasse al capitalismo, ora dobbiamo invertire la rotta: pretendiamo che la società riprenda il governo del cambiamento tecnologico e del passaggio generazionale ridando potere negoziale al lavoro.

Tra le proposte, alcune mirano a contrastare i giganti del web. Come si possono combattere i vari Amazon, Google e Facebook?

Sono almeno 4 anni che una letteratura globale ha la consapevolezza di aver abbandonato il web nelle mani di pochissimi e questa consapevolezza parte da intelligenze femminili perché le donne hanno sempre lottato contro il lavoro gratuito ed hanno intuito la sussunzione dei giganti del web insita nel caricamento dei nostri dati. Per questo bisogna riconquistare una sovranità collettiva sui dati personali e sugli algoritmi, pur sapendo che sarà una battaglia lunga e non facile. Siamo agli inizi.

Cosa significa, in pratica, costruire nuove sovranità collettive?

Innanzitutto reclamare la possibilità di esprimerci sul modo in cui vengono utilizzati i nostri dati. In secondo luogo, significa chiedere l’aumento del numero di open data in modo tale da far accedere ai dati web nuove Comunità di Innovatori.

Quali sono le altre problematiche che avete riscontrato nel mondo della Rete?

In una logica di pricing l’amministrazione pubblica regala i numeri alle grandi multinazionali senza passare per la Rete per cui il cittadino si ritrova a pagare i propri stessi dati. Capisce bene l’assurdità.

Nella proposta 2 si parla del “modello Ginevra per un’Europa più giusta”. L’idea è dell’economista Massimo Florio, in che consiste?

Si va oltre il pensiero di Mariana Mazzucato, non sono sufficienti le mission strategies. I grandi monopoli sicuramente vengono infastiditi dal lavoro dal basso, ma vanno contrastati in altro modo. Come? Creando un gigante ex novo che entri in competizione con loro. È una vecchia idea geniale di Enrico Mattei. E questo gigante deve essere pubblico. In Europa già esistono 300 infrastrutture pubbliche governate da manager con autonomia di bilancio. Si fermano alla ricerca di base. Con il modello Ginevra chiediamo che a partire da quelle stesse strutture si dia vita a hub tecnologici pubblici o pubblico-privati che si spingano a realizzare innovazioni di prodotto e commercializzarle.

Nell’era delle privatizzazioni selvagge, Barca va controcorrente e si schiera per il ritorno alle nazionalizzazioni?

Mettiamola così: l’Italia detiene molte imprese pubbliche, dalle Casse depositi e prestiti a Leonardo, per intenderci. Esse non ricevono dallo Stato una trasparente missione strategica sulla competitività, sull’ambiente e sulla giustizia sociale. Noi chiediamo che ciò avvenga, introducendo regole che garantiscano da un uso distorto di tale ruolo.

Parlate anche del salario minimo fissato a 10 euro l’ora…

È una battaglia fondamentale e il salario minimo legale deve riguardare tutti perché ci dobbiamo prefissare l’obiettivo di raggiungere anche il lavoro dipendente ma non riconosciuto, oggi, come subordinato o la vasta area del precariato giovanile.

A tal proposito come giudica il provvedimento del M5S e il niet dei sindacati?

La proposta pentastellata ha un pregio: intuisce che non è realizzabile il salario minimo in Italia se prima non è stato risolto il problema di rendere validi erga omnes le condizioni minime sindacali dei contratti nazionali. Questa è la via maestra.

Come replica a chi le dice che al Sud costa meno la vita e, quindi, fissare il salario minimo a 10 euro ha valore diverso a seconda dell’Italia che si abita?

Che è una follia, se da un lato in alcune zone del Mezzogiorno costa meno la vita dall’altra si hanno meno servizi pubblici garantiti (trasporto, sanità, scuola). Il provvedimento deve essere su scala nazionale.

Un’altra proposta è quella di introdurre un’eredità incondizionata di quindici mila euro per tutti i giovani che raggiungono la maggiore età. Dove si trovano le coperture economiche per un provvedimento simile?

La proposta viene associata ad un’altra che riguarda la trasformazione delle imposte di successione, che ad oggi coinvolge circa 110mila persone. Il meccanismo attuale infastidisce il ceto medio e fa il solletico ai ceti abbienti. Noi vorremmo che 80mila persone cessino di pagare ogni imposta sui lasciti delle donazioni e che gli altri 30mila benestanti paghino quello che è dovuto. La proposta di una robusta progressività viene caldeggiata persino dall’Economist, la potremmo considerare liberale e di destra.

Le aggiungo una sedicesima proposta: la patrimoniale. È favorevole o meno?

La patrimoniale appartiene ad un’altra storia, al passato. In queste 15 proposte noi vogliamo cambiare i meccanismi di formazione della ricchezza e guardiamo al futuro. Come ha detto Franco Ippolito, il presidente della fondazione Basso: siamo convinti che ognuna di queste proposte sia realizzabile fin da subito. Aggiungo che se si attuassero tutte e 15, il Paese verrebbe così radicalmente trasformato che non ci sarebbe bisogno di una sedicesima proposta.

Quale partito guarda al futuro e può fare sue queste 15 proposte?

Noi siamo un piccolo gruppo – o forse neanche così troppo piccolo – che si è dato lo scopo di lavorare subito con 12 alleati nella società e poi di essere usati dai partiti per iniettare idee nel loro lavoro. Non vediamo un progetto ma vediamo molti giovani in partiti diversi che cercano una strada.

Al momento non ci sono chance per costruire un’alternativa al salvinismo ma sono necessari tempi lunghi?

In atto ci sono due partite. La prima è nell’immediato: a breve ci saranno le elezioni Europee ed ognuno voterà secondo coscienza nella consapevolezza che siamo nell’ottica del “meno peggio”. La seconda partita è, invece, sul lungo periodo: bisogna mettere insieme le conoscenze dei mondi della ricerca e della cittadinanza attiva. Vanno costruiti nuovi luoghi che possano acquistare egemonia culturale e politica nel Paese, penso al frammentato, ma ricco, mondo dell’associazionismo alle campagne sociali, ai movimenti, alle alleanze contro la povertà. Per fare questo lavoro ci vorranno almeno 3-4 anni.

Non siete, quindi, soltanto un semplice think-thank utile a rielaborare idee e teorie?

Siamo un misto di “ricercazione”. Abbiamo rispolverato questo termine nobile perché abbiamo mescolato teste e braccia delle organizzazioni di cittadinanza con teste e braccia dell’accademia.

Quali sono i prossimi passi del Forum?

Abbiamo posto la base programmatica, nei prossimi mesi gireremo l’Italia per dibattere e sperimentare queste proposte. Ci interessa realizzare campagne sociali e radicarci sui territori. Riteniamo che non ci sia nulla di ineluttabile nelle disuguaglianze: se i poteri, le opportunità e i risultati non vengono riequilibrati, è perché si è scelto di non farlo. Un’alternativa esiste ed esistono le condizioni per trasformare i sentimenti di rabbia nella leva di una nuova stagione di emancipazione che accresca la giustizia sociale.

 

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