Torino svela il gioco perverso delle istituzioni italiane: scaricare sui singoli la fatica dell’antifascismo [di Vito Biolchini]

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www.vitobiolchini.it 9 maggio 2019. La questione del Salone del Libro di Torino si è chiusa nell’unico modo possibile, cioè con l’esclusione della Altaforte dalla manifestazione culturale dopo che il suo editore Francesco Polacchi ha dichiarato di essere fascista e che il problema in Italia era l’antifascismo.

A mio avviso la vicenda, nata dal dibattito degli scrittori se partecipare o meno al Salone, ha avuto il merito di mettere in evidenza i limiti e la debolezza dell’antifascismo italiano: cioè il suo essere essenzialmente antifascismo dei singoli e non delle istituzioni. Perché quella delle istituzioni non è una semplice assenza ma un gioco perverso, in quanto queste scaricano sui singoli un peso e un compito più grande di loro, cioè quello di rappresentare da soli i valori dell’antifascismo nella nostra società.

Ed ecco dunque Michela Murgia e Wu-Ming su sponde opposte; ma è una contrapposizione solo apparente, creata ad arte dalle istituzioni che ottengono così il loro massimo risultato: spostare in maniera opportunistica dal piano politico (e dunque collettivo) a quello personale la militanza antifascista; e così facendo, lavarsene le mani. Perché dichiararsi antifascisti oggi in Italia continua ad essere un problema e fonte di imbarazzo, soprattutto per chi politicamente si riconosce nel centrodestra. E Salvini, sia chiaro, c’entra fino ad un certo punto perché tutto è iniziato con Berlusconi oltre vent’anni fa.

È dal 1994 che il centrodestra italiano, nelle sue rappresentante politiche e attraverso i suoi esponenti culturali e financo nella magistratura, cerca infatti di liquidare l’antifascismo, che non è altro però che sinonimo di democrazia e di libertà, e si fa portatore di un autoritarismo latente che non sfocia in fascismo (e in questo non sono per niente d’accordo con la Murgia e con le tesi del suo libro) solo perché oggi un regime politico fascista in occidente sarebbe d’intralcio al regime economico neoliberista che governa ovunque. L’autoritarismo è dunque un buon compromesso che viene tollerato in Europa (e infatti nessuno muove un dito per lo scandalo turco o la situazione in Ungheria).

L’antifascismo in Italia (e torniamo a noi) talvolta è ancora una pietra di intralcio per le istituzioni e la pubblica amministrazione in generale, e lo sforzo dei singoli è speso in gran parte a ottenere un riconoscimento pubblico dei valori dell’antifascismo. Di ciò si ha dimostrazione ogni 25 aprile, quando ritualmente (ma anche significativamente) ogni manifestazione locale assume un senso diverso se partecipano rappresentanti istituzionali e non solo singoli cittadini.

E non dappertutto sindaci o prefetti partecipano al 25 aprile. La questione da porre non era dunque se si era più antifascisti andando o non andando al Salone del Libro di Torino (non c’è risposta a questa domanda: e infatti Wu-Ming e Michela Murgia hanno espresso posizioni a loro modo entrambe condivisibili) ma per quale motivo il Salone del Libro ha accettato una casa editrice evidentemente fascista. Solo perché questa ha pagato lo stand?

Questo è stato e resta intollerabile. Perché è dalle istituzioni che dobbiamo pretendere risposte nette e l’adesione ai valori di libertà incarnati dall’antifascismo, non necessariamente dai singoli. Come è intollerabile che una parte della magistratura ormai abbia di fatto abolito il reato di apologia di fascismo, derubricando a semplice “manifestazione del pensiero” le adunate, i saluti romani, le dichiarazioni pubbliche intollerabili come quelle di Polacchi (che vedrete che anche lui alla fine sarà prosciolto).

I cittadini possono avere tutte le opinioni politiche del mondo, possono scrivere tutti i libri che vogliono, ma le istituzioni hanno il dovere di essere concretamente antifasciste. Purtroppo lo sono quasi sempre solo se costrette o sollecitate dall’opinione pubblica, ed è quello che è avvenuto a Torino. E questo è il problema.

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