Un nuovo inizio? Ma quando e quale? (2) [di Franco Mannoni]

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Italia e Sardegna. In Sardegna si è verificata la saldatura fra due spinte. Una determinata dall’estendersi della tendenza populista salviniana, l’altra derivante dal precipitare dell’istanza all’autogoverno e/o all’autodeterminazione, nel crogiuolo sardista. Per apparente paradosso, il battere la gran cassa dell’autodeterminazione da parte di Partito dei Sardi e Autodeterminazione stessa, ha portato fieno alla cascina del Psdaz.

Il Psdaz è il più vecchio partito sulla scena sarda e mantiene forte la sua caratteristica di forza nella quale si identifica l’istanza autonomista e indipendentista, a prescindere dal come, nell’attualità, i suoi rappresentanti ne interpretino la gestione. D’altronde questo partito ha una storia piena di svolte, anche di contraddizioni, di crisi e di impennate.

La sua forza, diceva Mario Melis, sta nella circostanza che il sardismo è anima e sentimento, che ha valore in quanto diffuso al di là dei confini del PSdAZ. Perciò è in grado di risorgere dalle crisi e riproporsi come protagonista della storia sarda. Fu così che determinò il governo di sinistra nel 1984, ed è la risorgenza del suo flusso che determina oggi la vittoria del centro destra e porta il suo leader alla presidenza.  Con il nove per cento dei voti è risultato determinante per la vittoria. Senza l’avanzata sardista il centro destra non avrebbe conseguito il margine che gli ha procurato la vittoria. Da notare che il Psdaz ha mantenuto, anche nei simboli, la sua distinzione dalla Lega.  Chapeau!

In sostanza in Sardegna non ha vinto Salvini, come si insiste ad affermare nell’ambito del centro sinistra, forse per sminuire i meriti degli avversari autoctoni e, nel contempo, nascondere le proprie insufficienze. Il successo dell’area di Forza Italia, Riformatori, Fratelli d’Italia, Udc e Sardegna 2000 ripete quello del 2009 che diede vita alla Giunta di Cappellacci. Salvini e la Lega hanno fornito a quell’area la spinta nuova di cui il centro destra aveva bisogno, ma altrettanto determinante è stato però il successo del PSdAz.

Il centro destra sardo è stata la spugna che ha assorbito i populismi nazionali e li ha tradotti in sardo. Al netto dell’apporto sardista, la situazione isolana non ha alcunché di originale e specifico, ma sta nel solco della tendenza oggi prevalente in Italia.

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 A Roma l’operazione, in parte politica e in parte culturale, nella quale sono impegnati Lega e 5 Stelle, al di là dei conflitti di potere e di consenso, tende a demolire il senso comune democratico come prassi e come costruzioni normative, per sostituirli con il senso comune di una società dominata dai valori liberal mercatisti e dalle pulsioni autoritarie.

Il pericolo concreto è che riescano a consolidare una loro egemonia, quella del populismo nazionalista, autoritario, intollerante e xenofobo, collocando il paese sul piano inclinato dell’instabilità nei rapporti internazionali e della dialettica distruttiva dell’Unione Europea. Ne sono segnali conclamati le norme che hanno approvato, quali il decreto sicurezza, le disposizioni per la legittima difesa, la politica di chiusura nei confronti dell’emigrazione, l’invasione della RAI, l’attacco all’indipendenza della Banca d’Italia.

E’ in atto una strategia che si maschera dietro procedure di distrazione di massa, quali l’esaltazione dei timori per un’invasione di clandestini che non esiste, per la sicurezza pubblica, mai così normale, che si attua enfatizzando la propaganda di governo alla quale piegano persino eventi tragici come il crollo del ponte di Genova.

Il populismo della destra non affronta i problemi della compressione dei diritti, dell’impoverimento delle classi medie, della contrazione degli stock di lavoro, perché prevale, nella sua azione, la scelta per la via facile, della banalizzazione dei problemi, della retorica del nazionalismo, del lascar fare, in sostanza ai potentati economici e agli stati autoritari, con i quali amoreggiano.

Riesce a suscitare consenso, facendo leva su quella parte oscura di ciascuno di noi alla quale ho fatto cenno. Ma anche incentivando una narrazione del mondo e del futuro che dei loro temi e delle loro banalizzazioni si nutre, facendo intravvedere in uno stato dominato dall’ordine poliziesco e dall’elargizione a carico delle risorse pubbliche, la prospettiva che consentirà di risolvere i gravi problemi dell’oggi.

Esemplare di tale intreccio è la proposta di riaprire le case chiuse (chiuse da oltre sessanta anni), in una logica dell’ordine e del decoro apparente e, nella sostanza, con la riesumazione di una pratica fondata sulla schiavitù di fatto inflitta alle donne.

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Il tempo della metamorfosi. L’interregno. Tutta questa confusa fenomenologia italiana va però ricondotta e compresa dentro una tendenza più generale che va attraversando l’intero pianeta. Siamo nel tempo della metamorfosi, avvertiva Ulrich Beck, nel tempo in cui il mondo si modifica oltre i termini del cambiamento e diventa altro.

” Il vecchio ordine sociale e politico va incontro alla metamorfosi mentre si muovono i primi passi verso la produzione e riproduzione di un nuovo ordine, che è ormai, letteralmente, mondiale.”

Siamo in quella fase che lo stesso Gramsci definiva come interregno, nel senso che il vecchio ordine è tramontato mentre il nuovo non si è ancora definito. “La metamorfosi del mondo è un territorio ignoto” (Beck), per cui nessun determinismo l’attraversa, nessuna magnifica e progressiva sorte è garantito che debba apparire.

A nessuno sfugge che la dimensione della metamorfosi è il globale. Tuttavia il terreno di confronto e di lotta fra le forze in campo si articola e si frammenta nelle realtà locali. Nelle quali si aprono nuovi terreni di azione politica e di riforma.

Dall’interregno non si esce, comunque, tornando indietro, tentando inutilmente di restaurare ciò che è stata la modernità novecentesca e tutto ciò che era ad essa collegato, come la democrazia dei partiti, l’internazionalismo di classe, la crescita economica e lo sviluppo continuo, il lavoro nella fabbrica e il welfare garantito. Anche perché la metamorfosi ha proprio la caratteristica dello smarrimento di quei connotati, pur nella nebulosità attuali degli sbocchi futuri.

Pensiamo alla metamorfosi della genitorialità. Essa ha cambiato radicalmente le caratteristiche della maternità e della paternità nel momento in cui il concepimento può essere plasmato dalla tecnologia medica, perché la novità dei procedimenti resi possibili dalla tecnica ha cambiato i ruoli tradizionali, ha reso fungibile la coppia maschio e femmina, ha reso possibile la fecondazione derivante da un non vivente. Nascerà una nuova etica della genitorialità e della procreazione.

Il cambiamento climatico pone alla collettività il dilemma fra catastrofe e salvezza del mondo, e lo propone, di conseguenza, come necessità di edificare un nuovo modello del vivere, produrre e organizzare la vita. “Il cambiamento climatico, è ancora Beck, è l’incarnazione degli errori di una intera epoca di industrializzazione galoppante”. Ma la coscienza del risultato di una modernità suicida può essere la molla capace di generare una spinta positiva al cambiamento di direzione.

Le disuguaglianze sono il frutto avvelenato della modernità. Non che esse siano cresciute rispetto al passato. E’ vero forse il contrario, nel senso che nel corso del Novecento esse sono diminuite nel mondo occidentale in conseguenza dello sviluppo e, in seguito, la globalizzazione ha consentito l’emergere dall’indigenza a masse sterminate.

Però l’aumentata possibilità di confronto fra i diversi livelli di benessere, la persistente miseria di popolazioni intere, come molte dell’Africa, nonché la diversa distribuzione del rischio conseguente al progresso tecnico, hanno reso meno accettabili le diseguaglianze ed attivato processi di diverso segno come reazione.

Le emigrazioni di massa dalle aree della miseria verso le città dell’Europa, o quelle all’interno dell’Asia, sono la conseguenza delle diseguaglianze. Le quali attivano per un verso processi di chiusura nazionalistica come anche, su un altro fronte sociale, una spinta anti élites e comunque una pulsione cosmopolita.

L’interregno, possiamo dire, a conclusione di questa parte del discorso, tiene in sé intrecciati gli elementi di metamorfosi e di crisi, come anche il formarsi di una volontà di segno opposto, che tende al cambiamento. Vanno sorgendo nuovi antagonismi, sociali e politici, che non si traducono ancora in alternativa di idee e di programmi, che sono lontani cioè, dal costituirsi come alternativa potenzialmente egemonica. Ma esistono e mostrano capacità di sviluppo e aggregazione, muovendo dai temi coinvolgenti della democrazia e dei diritti.

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Perché la sinistra ha difficoltà ad assumere l’iniziativa di un nuovo ensemble democratico e socialista riconoscibile come reale e concreta alternativa al populismo della destra? Semplicemente perché la sua cultura è radicata nella modernità novecentesca, nel sistema della crescita continua, seppure ottenuta a spese dello sfruttamento e del dominio coloniale.

In secondo luogo perché l’evoluzione della sinistra nel mondo occidentale, quella che ha avuto accesso al potere, ha avuto luogo abbandonando non solo ciò che si era dimostrato caduco e superato, ma anche le sue motivazioni ispiratrici, quelle che puntavano all’eguaglianza, alla liberazione dal bisogno e dalla malattia, alla difesa del lavoro dall’offensiva egemonica del neo capitalismo.

Anziché affrontare faticosamente la via della revisione del marxismo leninismo, la cui esperienza realizzata aveva generato il totalitarismo e il gulag, per imboccare quella del socialismo democratico, la sinistra, e il comunismo più specificamente, hanno scelto la via della gestione dell’esistente e del rapporto di compromesso con i partiti conservatori.

In Italia l’avvicinamento dei comunisti al potere alla fine del novecento ha coinciso così con la fase dominante del capitalismo finanziario rispetto al quale i governi di centro sinistra del tempo si sono proposti come i migliori possibili gestori dello status quo.

E’ mancata, in Italia come nel resto d’Europa, la cultura politica sulla quale poggiare la critica sociale necessaria alla confutazione dell’essenzialità dello sviluppo così come si è realizzato, attraverso il progresso tecnico imponente, la finanziarizzazione dell’economia, l’aumento delle diseguaglianze, la diminuzione dello stock di lavoro e la compressione dei salari. No alternative, il motto dominante.

E’ venuto così il tempo di quella che è stata chiamata Postdemocrazia, il tempo in cui la politica è diventata una mera questione di gestione dell’ordine costituito, un campo riservato agli esperti.

Un contesto nel quale è venuta a mancare la possibilità di lotta agonistica fra due idee di società. E’ prevalsa la linea secondo la quale la competizione fra sistemi, conseguente alla globalizzazione, impone una modernizzazione distruttiva del sociale, pretende politiche liberiste, la sospensione di quelle redistributive, la riduzione del ruolo delle politiche pubbliche.

I partiti socialdemocratici, a partire da quello inglese, hanno accettato queste condizioni imposte dal capitalismo finanziario. Doveva succedere, prima o poi, ciò che è avvenuto. Che non solo la plebi diseredate delle periferie urbane, come i lavoratori espulsi dalle fabbriche europee in chiusura, ma anche il ceto medio preda della insicurezza e dell’impoverimento, trovassero le risposte alle loro ansie, all’insicurezza, alle diseguaglianze crescenti, al riparo dei messaggi rassicuranti e consolatori del populismo di destra.

FINESTRA N°3  La Sardegna conservatrice.

L’andamento delle elezioni e del post elezioni relative al rinnovo del Consiglio regionale della Sardegna mi suggeriscono l’oscura idea di una terra arresa, per costrizione, alle voglie altrui. Inerte, rassegnata, impossibilitata a reagire e difendersi. Nel mentre i responsabili della sua umiliazione, si giocano a sorte il potere di soddisfare su di essa i loro desideri. Disputano sul controllo del corpo inerte della vittima, al sicuro da ogni reazione e incertezza, resi insensibili dall’esercizio e dall’abuso del potere.

No, non c’è neppure un grido di indignazione, ma l’assuefatto cedere a un gioco abusato. Altro che laboratorio di innovazione, al più stanca ripetizione di un rito della tarda democrazia in declino.

Lo stesso populismo, vissuto e gestito con le vecchie regole (legge elettorale maggioritaria, centralismo assessoriale, continuità delle classi dirigenti) rende l’esercizio dell’autonomia una procedura rituale, di cui si giova un’area sociale definita e limitata. Non c’è né cambiamento, né autodeterminazione, né vera alternativa. Vige, al più, l’alternanza fra simili, la democrazia depotenziata.

La politica sarda è sostanzialmente conservatrice, rispecchiando la tendenza largamente prevalente nella società isolana, fortemente statica. Alla prima il segno della conservazione è garantito dai programmi politici preventivi e dai consuntivi delle giunte regionali che, a partire dal 1994 e fino a oggi, hanno seguito il meccanismo dell’alternanza fra centro destra e centro sinistra. Lo schema è quello in vigore a Roma fino al 2018 fra i due schieramenti.

Non è mai emerso con chiarezza un conflitto fra autonomismo forte e unionismo integrale. Al massimo la competizione si è incardinata sul come atteggiarsi o come attuare con maggiore successo politiche sostanzialmente omologhe. La competizione si è incentrata sulla efficacia della gestione e sull’essere o apparire più idonei a gestire programmi tendenzialmente equivalenti. La crisi dei partiti della sinistra e del centro sinistra, a partire dal 1994, ha contribuito notevolmente a questo declino.

 In mancanza di nettezza delle alternative politiche e programmatiche, si è cercato, anche a questo proposito importando tendenze nazionali, di dare corpo alle differenze con il ricorso a leader di forte caratura, magari acquisita fuori dal campo politico. Una tendenza più marcata in seno al centro sinistra: si pensi a Palomba, a Soru, a Pigliaru. In qualche modo il centro sinistra, carente di elaborazione, di iniziativa e di solido radicamento sociale, ha tentato di rimediare con il ricorso a figure attrattive.

Il meccanismo ha funzionato, in fin dei conti, finché non è intervenuto l’elemento che ha modificato lo schema: anche in questo caso l’elemento di novità è giunto dal centro, ad opera della Lega di Salvini. Che ha fornito il motore capace di portare al traguardo una formazione disomogenea, frammentata e di fornire al Psdaz il trampolino dal quale prendere lo slancio verso la presidenza.

La forza dell’espansionismo salviniano ha frantumato la resistenza della leadership di Zedda che, ci si illudeva, avrebbe potuto supplire alla debolezza della coalizione e, soprattutto, a quella del PD, non in grado, in quel momento, di adempiere alla sua funzione di perno e guida dell’alleanza. Oggi, comunque si voglia argomentare, nulla può nascondere la debolezza politica dello schieramento di centro sinistra in Sardegna. (Seconda parte)

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