Due politiche: solo per sé o per il paese [di Marcello Fois]

Mattarella

La Nuova Sardegna 22 agosto2019. Per quanto possa sembrare incredibile, c’è stato un tempo in cui, persino in questo Paese, la Politica è stata una cosa seria. Una stagione cioè in cui la forma custodiva la sostanza. Perché la politica non è la disciplina dei contenuti bensì quella dell’espressione dei contenuti.

Ora quei contenuti possono essere, a seconda di chi li accoglie, alti o bassi, ma il modo di esprimerli, in Politica, non può che essere alto. E cioè formale. Rispettoso del punto di vista altrui, giustamente critico, educatamente franco. Tutte faccende di cui, in questa specie di asilo nido che è diventato il nostro Parlamento, ci siamo dimenticati. Chi, come me, ha potuto seguire l’intero dibattito parlamentare seguito alle annunciate dimissioni del Presidente del Consiglio, da noi il “primo ministro” si chiama così, forse si sarà fatto un’idea vaga dell’abisso di inconsistenza in cui siamo caduti.

Lì la cosiddetta nuova politica ha di nuovo che si è livellata verso un basso viscerale da cui è difficilissimo sollevarsi. Il nostro Presidente del Consiglio, si è giustamente stufato di dover controllare un Ministro degli Interni che, come da quattordici mesi in qua avevano capito tutti, era interessato esclusivamente alla sua personale, e perenne, campagna elettorale. Dunque va in aula, e gliene dice di tutti i colori. Educatamente beninteso. Con l’assetto formale di un insegnante che debba rimproverare un alunno che fa assai meno di quello che potrebbe.

Insomma Salvini Matteo è bravo ma non si applica. Il Salvini Matteo, dal canto suo, si comporta come tutti gli studenti arrogantelli di ultima generazione: sostenuto da un genitore persino meno attrezzato di lui, che si chiama consenso secondo sondaggi, torna a casa e, lungi dal prendersi qualche responsabilità, lamenta che “il prof ce l’ha con me” e minaccia blitz, col “genitore” in questione al seguito, per malmenare quel prof. Intanto dal terzo, quarto, banco alza la mano quel secchione antipaticissimo di Renzi Matteo, che sa discettare, è sempre preparatissimo, ha la sicumera di chi si trova a dover accettare una posizione arretrata fingendo di averla scelta.

Solo l’anno prima era lui il capoclasse e oggi, che non lo è più, ci spiega che ci perdona tutti per l’errore commesso e che è disposto a mettersi ancora in gioco anche se non ce lo meritiamo. Di Maio Luigi, dall’ultimo banco armeggia col telefonino. Lui è un giovanotto fortunato, di quelli che fanno il minimo indispensabile ma millantano le fatiche di Ercole. Il Prof lo conosce bene: è un bravo ragazzo che fa quello che può. Vive degli appunti altrui, fa interrogazioni appena sufficienti.

Cosa farà da grande? Mistero.  Finora, in questa metafora deamicisiana della scuola come espressione di chi ci rappresenta, contenuti zero: tuttalpiù un ravvedimento tardivo e una conseguente dimostrazione di fastidio per chiunque sia tanto temerario da ridimensionarci. In realtà c’è stato un tempo in cui fare politica significava temere di apparire tanto legati al proprio interesse personale.

Ma, fuori da ogni metafora, siamo un Paese in cui il Ministro degli Interni parla di Democrazia e poi invoca pieni poteri; in cui un ex Presidente del Consiglio, oggi membro di spicco dell’opposizione, di fatto si oppone soprattutto alla sua compagine; in cui il partito di maggioranza è un coacervo di dilettanti assoluti; in cui il Presidente del Consiglio in carica ingrana la prima marcia dopo aver viaggiato in folle per quattrodici mesi.

La forma in Politica richiede un atto estremo di autocoscienza, l’applicazione di una deontologia grazie alla quale si ascolta chi parla, onorandolo del nostro interesse, guardandolo negli occhi, esponendo dei progetti e dei contenuti. In pratica dimostrando alla nazione qual è la differenza tra chi vive la politica solo per sé e chi la vive con spirito di servizio.

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