Il vaso di Pandora, il Coronavirus e gli ospedali “fabbriche della salute” [di Giorgina Barbara Piccoli]

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https://ilgiornaledellarchitettura.com/web/2020/03/04/il-vaso-di-pandora-il-coronavirus-e-gli-ospedali-fabbriche-della-salute/ Una riflessione sulla diffusione del contagio e sull’industrializzazione dell’offerta curativa, che chiama in causa le tipologie edilizie

Tra minimalismo e catastrofe annunciata, l’epidemia del nuovo Coronavirus non passerà senza avere stravolto l’economia, dimostrato la fragilità della società globale e dato il via ad una serie di riflessioni sulla medicina attuale. La vicenda dimostra come sia facile, e inappropriato, dimenticare la storia. Se le armi contro le malattie infettive sono sempre più efficaci, i “microbi” non sono ancora domati e la globalizzazione ne favorisce la diffusione in maniere mai prima conosciute.

Il Coronavirus (SARS-Cov2) è un nuovo virus; per quello che sappiamo, la contaminazione porta ad una vera malattia in metà dei casi, con un’ampia varietà di segni e sintomi: sindrome simil influenzale, congiuntivite, banale raffreddore, sino ad una polmonite gravissima e potenzialmente mortale.

Anche in assenza o con sintomi blandi, la malattia è infettiva, e questo rende improba l’identificazione delle catene di trasmissione. L’utilizzazione del test “rapido” è controversa: dove il test è diffuso, come in Italia, l’inclusione di molti casi non sintomatici può portare al panico, ed alla paralisi economica; dove il test è eseguito in casi molto selezionati, può non essere possibile mettere in atto misure preventive efficaci. La caccia alle mascherine e altre protezioni, a loro volta di varia efficacia, rende la situazione ancora più complessa.

Per citare un recente articolo sul più importante giornale di medicina interna, il “New England Journal of Medicine”, il vaso di Pandora è scoperchiato. In un tentativo di frenare l’avanzata del contagio, scuole ed università vengono chiuse, spettacoli, congressi ed eventi sportivi sospesi; si giunge fino a consigliare alla popolazione di evitare ogni contatto ravvicinato. È in questo contesto che, in linea con la precauzione di limitare i contatti interpersonali, alcune società richiedono di limitare l’accesso in ospedale ai soli pazienti gravi.

Il paradosso dei nuovi ospedali. Fino a qui, tutto sembrerebbe seguire una logica inoppugnabile. Peccato che numerosi ospedali europei abbiano spinto una politica di “industrializzazione” dell’offerta di cure, con la costruzione di ampie aree dotate di servizi comuni, in cui decine di medici di differenti specialità offrono centinaia, se non migliaia, di consulenze al giorno. Lavorare in grandi open space, con segreterie, assistenza infermieristica, portantini, ausiliari in comune, può garantire un certo numero di vantaggi economici.

Il guadagno clinico è meno chiaro: le “fabbriche della salute” sono lontane dall’auspicata medicina personalizzata e, cruciale in particolare per le malattie croniche, la centralizzazione in grossi sistemi “efficienti” non permette di rispondere alla necessità di un contatto rapido e personale tra paziente e curante.

Così, la vicenda di SARS-Cov2 identifica un paradosso: nel tentativo esasperato di “razionalizzare” le attività, abbiamo dimenticato le malattie infettive. Per esempio, nel progetto del nuovo ospedale di Le Mans, uno dei tre ospedali non universitari più grandi di Francia, 19 postazioni di segreteria dirigono i pazienti a 120 ambulatori differenti. Ogni giorno centinaia, se non migliaia di persone si mettono pazientemente in coda davanti alla segreteria, si siedono su una panchina in sala d’aspetto, entrano in una minuscola sala visita, ritornano a prendere un appuntamento e, spesso, aspettano su un’altra panca l’arrivo di un taxi o un’ambulanza per rientrare a casa.

Peccato che questo sistema industrializzato non sia compatibile con la fuga delle malattie dal vaso di Pandora. La globalizzazione accelera i processi: non sono più i topi delle navi che portano la peste, sono gli aerei che trasportano migliaia d’individui tutti i giorni, ad abolire i confini per le malattie. In questo contesto, l’atteso vantaggio economico di una medicina ad alta velocità rischia di portare l’intero sistema al collasso. La guerra alle malattie infettive non è vinta: l’abbiamo rimossa troppo presto.

Ospedali a padiglioni, che nostalgia…È dunque il momento di pensare, con elegante e probabilmente inutile nostalgia, agli ospedali a padiglioni del secolo scorso? Alcuni di essi sono meravigliose costruzioni di architetti visionari, primo di tutti l’Ospedale de la Santa Creu i Sant Pau a Barcellona, riconosciuto sito Unesco [nel disegno di copertina], e mettono in pratica una serie d’intuizioni folgoranti, come il potere risanatore della bellezza, attraverso un’attenzione ai particolari, dalle terrecotte disegnate (una fabbrica di terracotta dedicata era stata costruita al ciglio della collina dell’ospedale), ai colori delle pareti, alle piante officinali scelte per l’associazione con le malattie curate nel padiglione limitrofo.

Per rispondere alle malattie infettive, piaga dell’epoca, il grande architetto del modernismo catalano Lluís Domènech i Montaner propone un modello efficace: ogni malattia, ogni organo, ha un padiglione specifico, con vie di accesso di pazienti e curanti e di uscita di prodotti di scarto o potenzialmente contaminati, separate e differenti.

L’epoca degli ospedali a padiglioni comincia qualche decade prima, con il Royal Navy Hospital a Stonehouse, in Inghilterra, e continua con l’ospedale Lariboisière a Parigi o l’ospedale Édouard-Herriot a Lione, e resta a lungo un modello per gli ospedali infettivologici, come l’Amedeo di Savoia a Torino. Gli eleganti, anche se non sempre pratici, ospedali a padiglioni, cederanno il posto, a partire dagli anni ’30, agli ospedali a “monoblocco”, poi progressivamente trasformati nelle attuali fabbriche della salute.

È venuto il momento di ritornare all’utopia di guarire con la natura e la bellezza, ed all’eleganza degli ospedali a padiglioni? Per quanto possa apparire affascinante, un ritorno alle origini non è probabilmente possibile. Tuttavia, la lezione dell’epidemia è una salutare doccia fredda alla ricerca frenetica dell’industrializzazione della produzione in un mestiere in cui un individuo, il medico, ed un altro, il paziente, si devono confrontare.

Il limite dei grandi spazi condivisi può indurre a riconsiderare un’organizzazione delle attività che privilegi il contatto diretto, un ospedale come casa, riconoscibile e rassicurante, in cui il paziente possa identificare come riferimento non solo il medico, ma anche la segretaria, l’infermiere, e perché no, i muri stessi. Una gestione più facile delle epidemie ne sarebbe solo uno, e forse non il maggiore, vantaggio.

 

One Comment

  1. Mario Pudhu

    Bisóngiu de arrisparmiare ispesas (e mancari “massimizzare” su profitu cun is maladias puru!), bisóngiu assolutu de no ‘consumare’ àtera terra/terrenu carrargiandho totu a ciumentu e asfaltu, necessidade de no fàere de sa “indústria” (!!!) sanitària una “macedónia” industriale de maladias infetivas e ‘bellesa’ e profetu de is ispidales (po nàrrere, che a su chi connoscheus in Castedhu in Via Is Mirrionis), si iat a pòdere fàere no che a sos macos “o totu o nudha”, ma solu is repartos de is maladias infetivas bene separaos, abbandha, fintzes in su matessi logu ma a fàbbricu distintu, a manera chi no dhue siat peruna possibbilidade de fàere ammisturitzos chi moltíplicant is infetziones e is malàdios.

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