Oggi 17 aprile è la Giornata internazionale della lotta contadina [di Giusi Angioni]

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Ogni anno, il 17 aprile ricorre la giornata internazionale della lotta contadina, istituita in ricordo della strage di Eldorado Dos Carajas, avvenuta nello stesso giorno del 1996, in cui 19 contadini che manifestavano pacificamente furono uccisi dalla polizia brasiliana. Una giornata che nasce per ricordare che il cibo non è merce ma è vita e che ci induce a riflettere, mai come in questo momento, sull’inderogabile necessità di optare per   un’agricoltura che rispetti ambiente e contadini, abbandonando un sistema dissennato di sfruttamento delle risorse.

All’interno di ciò che mangiamo, non ci sono solo i nutrienti, le sostanze di cui ha bisogno il nostro corpo e quelle che lo rendono “buono”, ma ci sono anche relazioni, valori sociali, risorse come energia, acqua, suolo. E’ a partire dagli anni ’70, con la diffusione dei supermercati, che ci siamo allontanati sempre di più dall’origine dei nostri alimenti, nonostante siano il nostro bisogno primario. Non ci chiediamo più cosa stiamo effettivamente mangiando e perché acquistare prodotti alimentari coltivati a migliaia di chilometri di distanza possa essere così semplice e poco costoso.

Il distacco cognitivo dal cibo che mangiamo ha favorito l’ignoranza e il disinteresse per le conseguenze che può causare il modo con cui viene prodotto.

Quale è il vero prezzo che paghiamo per il cibo che mangiamo?  Il cibo a basso prezzo è un’illusione, non esiste. Il vero costo del cibo alla fine viene pagato da qualche parte. E se non lo paghiamo alla cassa, lo paga l’ambiente”. (Michael Pollan)

Il sistema industriale, che attualmente prevale, non tiene conto di stagioni, lavoratori, risorse da consumare in maniera più responsabile. L’agroindustria ci consente di acquistare cibo di bassa qualità, in grandi quantità e a un prezzo basso. Ma un sistema di questo tipo sacrifica, in nome ella resa e del profitto, l’ambiente e la salute delle persone. Sono sempre più accreditate le ipotesi che collegano la pandemia Covid-19 alla distruzione della biodiversità da parte dell’uomo e alla produzione industriale del cibo, in particolare della carne. La situazione attuale di emergenza non è capitata per caso o per sfortuna, ma è il risultato delle scelte quotidiane che facciamo e di cui tutti siamo responsabili.

Già nel 2004, l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), segnalava come l’incremento della produzione industriale di carne potesse portare all’insorgenza e propagazione di zoonosi (patologie trasmesse dagli animali agli esseri umani). Basti considerare che solo in Asia il numero animali allevati si è praticamente triplicato nel giro di 30 anni. La Cina è la maggiore produttrice di animali allevati del mondo e se nel 1980 solo il 2,5% degli allevamenti cinesi era costituito da macro-fattorie (allevamenti intensivi al chiuso), nel 2010 queste hanno raggiunto il 56%.

C’è, quindi, un evidente legame tra epidemiologia ed economia politica, ed è per questo che occorre interrogarsi sulla sostenibilità di uno stile di vita capace di scatenare devastazioni così drammatiche e approfittare di questo tempo sospeso per chiederci quali conseguenze possano scaturire dalle nostre scelte alimentari e per rivoluzionare le nostre abitudini.

Quale tipo di sistema di produzione-distribuzione del cibo si sta rafforzando durante la pandemia?

E’ un dato acquisito che nel corso di queste settimane di lockdown, le vendite nella grande distribuzione siano aumentate costantemente rispetto agli stessi periodi del 2019. E’ dunque evidente che tutto il sistema di produzione-distribuzione industriale di cibo che pure ha contribuito all’emergenza di oggi, esce rafforzato dalla pandemia, mentre viene ulteriormente affossato un sistema più sostenibile quale quello della piccola agricoltura.

Negli ultimi dieci anni l’Unione Europea ha perso un terzo delle piccole aziende: solo in Italia sono  diminuite del 68%, passando da 2.376.440 nel 1990 a 764.740 nel 2013. A causa della pandemia le piccole aziende fanno ancora più fatica. Infatti le chiusure dei mercati cittadini all’aperto, dei bar e ristoranti, alle quali si aggiungono le nuove norme sul controllo della mobilità, l’aumento dei costi per la sicurezza dei lavoratori, rendono la vita ancora più difficile alle piccole realtà produttive.

Perché è importante aiutare la piccola agricoltura a sopravvivere e resistere allo strapotere dell’agroindustria?

Tra lo spreco di risorse determinato dall’agribusiness, c’è quello del suolo. L’agricoltura industriale determina in Europa una perdita di 970 milioni di tonnellate di suolo ogni anno. Anche il nuovo rapporto di Greenpeace sostiene che tra il 2010 e il 2020 almeno 50 milioni di ettari di foresta (un’area delle dimensioni della Spagna) saranno distrutti per fare spazio alla produzione industriale di materie prime agricole.

La distruzione di ecosistemi e la perdita di biodiversità non risulta nemmeno giustificata dall’esigenza di produrre cibo perché buona parte di esso viene sprecato. La FAO, nel 2016, infatti stima che ben il 30% di quello che produciamo, lo buttiamo via. Ma lo spreco di cibo non è solo un problema morale (oltre due terzi di questo cibo sarebbe ancora riutilizzabile e circa la metà basterebbe a risolvere il problema della fame nel mondo), ma anche un problema ambientale.

La quota di cibo sprecata corrisponde a un consumo di acqua (250 km3, circa 5 volte il volume del Lago di Garda) e suolo (1,4 miliardi di ettari, circa il 28% delle terre agricole), ad una produzione di gas serra (7 volte le emissioni dell’Italia) e ad un aumento della quantità di rifiuti prodotti, non solo organici. Basti pensare alla quantità impressionante di imballaggi che contengono la maggior parte dei prodotti alimentari presenti in commercio (un’inchiesta del Guardian nel 2018 ha testimoniato che i supermercati inglesi producono in media 800 mila tonnellate di rifiuti in plastica ogni anno, solo di imballaggi).

Solo in Italia la quantità di cibo sprecata costa tra i 13-16 miliardi di euro(1). E’ un dato che conferma la necessità di un radicale cambiamento del modello produzione-consumo, che dovrebbe portare a produrre meno cibo ma più sano attraverso il sostegno alla piccola agricoltura più virtuosa e sostenibile. Questa invece soccombe a causa dello strapotere di un sistema di distribuzione e produzione del cibo insensato e pericoloso.  Tutto ciò porta inevitabilmente all’abbandono delle terre che finiscono per essere soggette a degrado (incendi, alluvioni) e speculazione. Solo in Sardegna se nel 1960 (con una popolazione 85% di quella attuale) la superficie coltivata a grano duro era di circa 186.000 ha, nel 2013 risultava poco più di 35.000 ha.

Nella nostra Isola negli ultimi anni si è avuto un incremento del numero di occupati nel settore agricolo (31.678 nel 2013 e 34.000 nel 2014), un dato che segnala l’aumentato interesse verso questo tipo di attività che andrebbe maggiormente incoraggiato dalla politica, anche mediante una maggiore celerità nell’espletamento delle pratiche e nell’erogazione dei finanziamenti destinati al settore. Invece a giugno di quest’anno 900 milioni di fondi europei per l’agricoltura rischiano di svanire se, entro aprile, l’Agenzia Regionale Argea non provvederà a espletare le domande presentate per i contributi del Piano di sviluppo rurale 2014-2020. Delle 50mila pratiche presentate alcune sono bloccate addirittura da anni e questo ritardo rischia di far chiudere molte aziende esistenti e di impedire a quelle nuove di insediarsi.

E’ lampante che occorra riprendere a produrre localmente la gran parte del proprio cibo (in Sardegna l’80% del cibo viene importato), e ciò non solo è possibile ma anche conveniente, perché comporterebbe un minor inquinamento per il decremento del trasporto e costituirebbe occasione di lavoro e reddito per le comunità locali. E’ di fondamentale importanza, dunque, incentivare un sistema di produzione agro ecologico più rispettoso della terra e delle persone che ci abitano, ma soprattutto un sistema che ci consente di avere a disposizione cibo salubre.

Quale è ruolo della grande distribuzione organizzata (GDO) nella distruzione dell’economia agricola?

Si stima che circa il 70% del cibo venga acquistato prevalentemente attraverso il canale della grande distribuzione dove l’offerta speciale è diventata il motivo principale dell’acquisto. Lo conferma il fatto che il consumatore si sposta da un supermercato all’altro in base alle super offerte.

Numerose inchieste hanno portato alla luce cosa si nasconde dietro il business dell’offerta speciale. La grande distribuzione impone ai fornitori molteplici contributi (“tassa” per stare sullo scaffale, contributi in merce per l’apertura di nuovi punti vendita e altri sconti sui prodotti imposti a posteriori), che complessivamente, secondo un’indagine Antitrust del 2013, costano alle singole aziende fornitrici circa il 24% del fatturato. Grazie, poi, al meccanismo delle doppie aste elettroniche la GDO riesce a comprare a prezzi ancora più bassi alcune tipologie di prodotti alimentari (es. passata di pomodoro, formaggio). Questo sistema fa sì che l’industriale sia spinto a comprare dai produttori la materia prima (pomodoro, latte) a un costo inferiore a quello di produzione.

A loro volta i produttori per sopravvivere sono costretti a utilizzare pratiche poco sostenibili per aumentare le rese (manodopera a basso costo, utilizzo di fitofarmaci, antibiotici). Questo perverso meccanismo consente alla GDO di fare mercato attirando la clientela attraverso la strategia del sottocosto, ma nello stesso tempo spinge l’intero comparto produttivo verso produzioni industriali scadenti da un punto di vista qualitativo e non sostenibili. Come consumatori dobbiamo dunque essere consapevoli che, se i prodotti sono offerti a basso costo, non solo viene meno la qualità del cibo, ma si distruggono l’ambiente e le economie locali.

Quale potere è nelle mani dei consumatori?

Nel 2018 – ci dice l’ISTAT – il valore della spesa alimentare domestica in Italia è ammontata a 142,5 miliardi di euro, con una spesa pro capite di 2.428 euro, la più alta in Europa. Poiché, come detto, circa il 70% del cibo viene acquistato attraverso il sistema della grande distribuzione (supermercati/ipermercati), dobbiamo prendere coscienza di avere un potere enorme tra le mani che potremmo usare per spingere il sistema verso una produzione/distribuzione del cibo non solo più salutare per noi e per il pianeta, ma anche più giusta per i lavoratori del settore.

Non è sufficiente solo comprare cibo etichettato come biologico o locale, è fondamentale acquistarlo prevalentemente al di fuori del canale della grande distribuzione, tagliando la filiera, quando possibile direttamente dal produttore oppure tramite i gruppi di acquisto solidale o nei mercati cittadini.

Fare la spesa dovrebbe diventare la prima azione di solidarietà e sostegno per quei lavoratori della terra e quei produttori che tentano di costruire sistemi più sani di produzione del cibo. Dovrebbe essere chiaro ormai a tutti che la solidarietà sociale, economica, generazionale debba essere l’unica chance che ci possa portare fuori da questa crisi dei sistemi geopolitici e averlo voluto ignorare per così lungo tempo ci sta costando un prezzo altissimo, non confrontabile né economicamente né eticamente con i pochi spiccioli risparmiati sul carrello della spesa.

Da questa esperienza pandemica possiamo (e dobbiamo) certamente imparare che bisogna prepararsi ad affrontare le eventuali zoonosi del futuro (più posti letto in ospedale, più mascherine, più formazione del personale sanitario). Ma è ugualmente importante che non basta arrivare a gestire il rischio solo in termini di emergenza, occorre fare prevenzione mettendo in discussione nei fatti le cause economiche e socio-culturali che periodicamente portano a queste crisi. In sintesi, dovremmo imparare a “passare sulla terra leggeri”!

*Delegata Alimentazione Responsabile – Italia Nostra Sardegna

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