Sant’Efisio, nulla è cambiato [di Maria Antonietta Mongiu]

s.efisio

L’Unione Sarda 7 Maggio 2020. La città in pillole. “Stupenda e misera/città che mi hai fatto fare/esperienza di quella vita/ ignota: fino a farmi scoprire/ciò che, in ognuno, era il mondo”. I versi di Pier Paolo Pasolini da “Il pianto della scavatrice”, in “Le ceneri di Gramsci”, chiariscono quanto è accaduto a Cagliari. Specie a chi abbia intravisto, quasi in fuga su un camioncino, un esile Efisio.

Quante percezioni da quei fotogrammi. La più eclatante? Un assoluto straniamento, nel senso propriamente brechtiano. Forse perché è il sacro la prima rappresentazione che l’uomo allestì con sciamani/mediatori che, per agire da taumaturghi, come veri primi attori, dovevano essere stranianti e quindi distanti dalla finitezza e dal limite.

Replicabilità del rito e ossessione della stagionalità, sono state garanzia ed efficacia. Carattere circoscritto, di luogo e di tempo, e azione sempre in fieri degli addetti al sacro, hanno consentito, nella lunga durata millenaria, adattamenti, tanto più marcati quanto più la scena pretenda di essere immutabile. Le variazioni, plasmate sempre e comunque su necessità salutifere, hanno garantito i nuclei fondanti e ogni contemporaneità che abbia voluto abitare l’antico canovaccio senza detronizzare alcuno e alcunché.

Questa densità è Cagliari, specie nel suo baricentro più oscuro, misterioso, e irriducibile.

Da millenni pratica il sincretismo tra culti, confessioni, etnici come sua identità fino a produrre un fulcro invariante, condizione imprescindibile dello straniamento che, appunto, non è di quest’edizione della festa ma della città, da sempre.

Il sacro, di cui Efisio poderosu è potente epifania di interminabili genealogie divine, non è mai stato diverso e distante da quello di questo tempo. La narrazione che lo vuole inedito, rasenta l’inconsapevolezza di cosa i suoi luoghi significhino. La bulimia di chiese, rupestri e sub divo, spesso insieme, nel quartiere sono la punta dell’iceberg di una sacralità evidente già nel Neolitico ed erede di tempi più remoti.

Quest’anno è stata solo silenziata la convenzionale, forse ininfluente, scenografia che nella storia della peregrinatio è un’aggiunta. Enrico Costa ne “La bella di Cabras” capì che fosse una superfetazione e ne fece un ricalco nella Cavalcata sarda.

La teatralità più notturna di Efisio, anch’essa ormai una funzione sociale più che sacrale, esorcizza dal Seicento la morte che, nelle città come palcoscenico, abita la modernità, come scrive Walter Benjaminin nel “Dramma barocco tedesco”, senza conoscere Efisio.

 

Lascia un commento