Jack Lang e i due significati della cultura. L’impegno del presidente dell’Institut du Monde Arabe ed ex ministro [di Anael Picciat]

Lang

https://www.ilgiornaledellarte.com edizione online 7 maggio 2020. Laureato in giurisprudenza e specializzato presso l’Institut d’Etudes Politiques di Parigi, Jack Lang è autore di numerose pubblicazioni ed è stato professore di diritto pubblico e scienze politiche presso la Facoltà di giurisprudenza di Nancy, l’Università di Parigi 10-Nanterre e il Conservatoire National des Arts et Métiers.

A lui si deve nel 1963 la nascita del Festival International de Théâtre Universitaire di Nancy. Nel 1972 ha diretto il Théâtre National de Chaillot e dal 1989 al 2000 è stato sindaco di Blois. Jack Lang è però noto soprattutto per essere stato ministro della Cultura sotto la presidenza di François Mitterrand complessivamente per dieci anni, dal 1981 al 1986 e dal 1988 al 1993. Per due volte ha anche ricoperto la carica di ministro dell’Educazione (dal 1992 al 1993 e dal 2000 al 2002). Dal 2013 è presidente dell’Institut du Monde Arabe.

Molto presto i suoi studi hanno preso due strade: scienze politiche e teatro. Come è entrata l’arte nella sua vita? È successo spontaneamente, avevo 7 o 8 anni, mi piacevano soprattutto il teatro e il cinema. All’età di 11 anni, ero interno in collegio a Lunéville, di tanto in tanto proiettavano dei film, che portavano un po’ di luce in un mondo piuttosto grigio. «La bella e la bestia» di Cocteau mi aveva particolarmente commosso. Volevo trascrivere il film per il teatro e scrissi un maldestro copione che interpretammo in famiglia con alcuni amici.

Frequentava molto i musei? Vengo da Nancy, dove il Palazzo dei duchi di Lorena ospita un museo che ha meraviglie, tra cui notevoli incisioni di Jacques Callot, alcune legate alla commedia dell’arte e al teatro, oltre a due dipinti di Georges de La Tour, nativo di Lunéville. Benché abbia promosso il rinnovamento di molti musei, nutro anche nostalgia per i musei vecchi e bui, come quello del Cairo. Sono un po’ preoccupato per il nuovo museo in preparazione ai piedi delle piramidi.

Lei è stato consigliere comunale a Parigi, parlamentare, ministro in diverse occasioni, portavoce del Governo, sindaco di Blois, consigliere generale… C’è un evento in particolare che ha determinato il suo ingresso in politica?
Sì, è quello che raccontava la mostra «Football e mondo arabo» tenutasi lo scorso anno presso l’Institut du Monde Arabe: è la guerra d’Algeria e, in generale, le lotte per la liberazione nazionale in Algeria, Marocco, Tunisia e Indocina. La mia coscienza civica si è formata di fronte all’oppressione dei popoli e alle violazioni delle libertà commesse dai Governi francesi, sia in questi Paesi sia in Francia, contro gli attivisti anticolonialisti e la stampa indipendente. Erano gli anni 1954-55, partecipavo a dimostrazioni e incontri… Nell’Assemblea Nazionale c’erano due personaggi che mi affascinavano e mi davano speranza: Pierre Mendès France e Francois Mitterrand, che ho entrambi potuto incontrare in seguito.

Come li ha conosciuti?
Pierre Mendès France rispondeva a tutte le lettere. Al liceo, e poi all’Università, gli scrivevo regolarmente e lui mi rispondeva. Nacque un rapporto di simpatia. Poi lo invitai a Nancy a una riunione pubblica. Più tardi, partecipai con lui e molti altri, nell’ambito di un movimento chiamato «La pace ora», a una riunione a Tel Aviv sulla pace. Stimavo moltissimo Mendès France per le sue qualità morali e intellettuali e per la sua intelligenza, che lo rendevano un uomo eccezionale. È un vero peccato che non abbia potuto diventare presidente della Repubblica.

Per quanto riguarda François Mitterrand, è stato attraverso la cultura che l’ho conosciuto. Quando, nel 1974, venni esonerato dalla direzione del Palais de Chaillot dal governo di Valéry Giscard d’Estaing, François Mitterrand mi dimostrò la sua simpatia e mi sostenne. Poi lo invitai al festival teatrale d’avanguardia che avevo ideato a Nancy. Ci venne due volte e in entrambi i casi rimase affascinato da questa forma di teatro per lui nuova. Poi, per fortuna o per caso, mi ritrovai candidato per il consiglio comunale di Parigi nel 1977 in una lista guidata dal suo migliore amico, Georges Dayan.

Conosciamo l’immensa cultura di François Mitterrand, il suo gusto per la letteratura. Si interessava anche di arti visive?
Si, certo. Era particolarmente appassionato di architettura antica e contemporanea. Molto prima del 1981, ci scambiammo opinioni sull’architettura e in particolare su Ieoh Ming Pei, che entrambi avevamo incontrato a Washington quando scoprimmo le sue opere alla National Gallery. Più tardi, ci dicemmo che bisognava trovare un modo per coinvolgerlo nei nostri progetti. In fatto di pittura Mitterrand aveva gusti piuttosto classici, anche se la sua prima uscita pubblica come presidente della Repubblica fu una visita al Centre Pompidou, dove era ovviamente già andato in veste privata per visitarlo da cima a fondo. Amava molto l’architettura del Beaubourg.

La maggior parte dei socialisti parigini era piuttosto scettica, ma io ero a favore, e Mitterrand anche. Per quanto riguarda la scultura, è stato lui a darmi l’idea di rilanciare le committenze pubbliche con una politica ambiziosa. Pensava principalmente alla scultura in senso tradizionale; avevamo anche pensato di incaricare degli artisti di «popolare» le nicchie vuote del Louvre, ma questo non avvenne mai. Io ero più concentrato sulla modernità, un impulso che mi ha portato verso artisti più contemporanei, come Daniel Buren per le colonne del Palais-Royal.

Mi sono anche rivolto a Jean Ipoustéguy per il monumento ad Arthur Rimbaud di fronte alla biblioteca dell’Arsenale (recentemente trasferito nel Musée de la Sculpture en plein air di Port Saint-Bernard). Abbiamo anche commissionato ad Arman gli «orologi» («L’Heure de tous») che si trovano di fronte alla stazione di Saint-Lazare, e «Hommage à la Révolution française», un insieme di duecento bandiere di marmo bianco ancora oggi nell’atrio d’onore del palazzo dell’Eliseo. È gratificante il fatto che, per il momento, nessun presidente abbia ancora pensato di far sparire quest’opera!

Lei è stato spesso paragonato ad André Malraux, ma in generale in contrapposizione. Quando lei era giovane quale opinione aveva dell’attività di Malraux? E come definisce oggi il proprio posizionamento rispetto al suo?
Malraux apparteneva ovviamente a un’altra generazione; era un grande scrittore, io non sono un creatore. Lui è una figura storica che ha avuto il merito di essere il padre fondatore del Ministero della Cultura, il che è di per sé un risultato importante perché fino a quel momento l’amministrazione della cultura dipendeva dal Ministero dell’Educazione Nazionale di cui era il «parente povero». Malraux ha fatto cose eccellenti per la conservazione del patrimonio culturale, ha dato vita alle case della cultura, ha contribuito alla salvaguardia di antichi quartieri che correvano il rischio di essere distrutti, ma non era molto aperto all’arte contemporanea. Preferiva la storia e i personaggi consacrati, come dimostrano le sue commesse ad André Masson, a Marc Chagall.

Dalla musica nei giardini, dal cinema all’architettura, dalla salvaguardia del patrimonio culturale a quella dell’audiovisivo, che cosa arriva ad abbracciare la sua personale definizione di cultura?
Il termine cultura ha due significati. Definisce l’espressione creativa, artistica e scientifica, ma anche lo stato di una civiltà, i suoi costumi, le sue credenze, la sua ideologia, la sua filosofia. È importante che un Ministero della Cultura non ignori nessuno dei due significati. Ho cercato di guardare alla cultura nel senso più ampio.

Ma dobbiamo stare attenti a non ridurre l’impegno intellettuale con il pretesto di tenere conto dell’insieme dell’immaginario collettivo. Allo stesso tempo dobbiamo descrivere e comprendere questo immaginario. Se fossi in carica oggi, cercherei di capire meglio la società e soprattutto la gioventù, il suo rapporto con la scrittura, la letteratura, le immagini… Se vogliamo progredire, non dobbiamo adattarci, ma conoscere la realtà. Dobbiamo trovare le vie del cuore, dell’immaginazione e dell’intelligenza delle nuove generazioni.

Per compiere tutte queste azioni, lei ha beneficiato dell’eccezionale sostegno di François Mitterrand. A suo parere questo appoggio è mancato ai suoi successori?
Ogni Paese ha la sua storia. In Francia l’intervento dello Stato è decisivo in molti settori, non solo nella cultura. Attualmente siamo in un regime che non gode del mio favore perché è ultrapresidenziale, senza una vera e propria opposizione. Tuttavia, anche se sono molto critico nei confronti delle istituzioni, che vorrei fossero riformate, i miei progetti hanno beneficiato di questo sistema in cui il presidente della Repubblica ha tutti i poteri.

François Mitterrand era determinato a considerare la cultura una priorità assoluta. In questo la pensavamo allo stesso modo. Non era predeterminato, ma il duo che abbiamo formato ha reso possibile la realizzazione di mille e una iniziativa. È stata un’opportunità straordinaria. Faceva anche parte della filosofia che entrambi abbracciavamo, quella del socialismo dell’epoca: la cultura, l’educazione, la ricerca scientifica dovevano essere al centro della società, non erano parole. E le misure sono state prese in armonia con quella volontà.

Ha anche avuto l’idea di mettere gli artisti al centro della sua attività. Quali sono stati gli incontri che l’hanno maggiormente segnata?
Ci sono stati così tanti incontri…

Ad esempio, ha affidato a Pierre Alechinsky un salone del Ministero della Cultura. Aveva il tempo di frequentare gli atelier? Naturalmente, mi sono recato personalmente nello studio di Alechinsky, di cui amavo molto il lavoro, così come quello dell’intero movimento CoBrA. Poi ho affidato a Pol Bury la creazione delle fontane del Palais Royal. Lo si può definire un factum principis, ma lo accetto. A volte è meglio la decisione arbitraria di uno solo che quella di un collegio più o meno irresponsabile che segue ciecamente le leggi del mercato.

Ha avuto l’opportunità di collezionarne personalmente opere d’arte?
No, ne ho qualcuna a casa, ma non ho mai collezionato. Fortunatamente non tutti sono come me, perché i musei si arricchiscono anche con le donazioni di collezionisti privati!

Con la creazione del Centre national de la photographie lei ha anche contribuito a inserire la fotografia tra le arti. La fotografia ha conosciuto periodi fortunati, ma quando sono arrivato al Ministero della Cultura lasciava le autorità indifferenti. Grazie a un amico, abbiamo anche scoperto dei negativi di Nadar abbandonati nel seminterrato del Ministero! La fotografia esisteva soprattutto nella coscienza collettiva, nella storia e nella memoria… C’era una sola galleria specializzata in fotografia in tutta la Francia, quella di Agathe Gaillard. Era facile fare delle cose su un terreno così.

Quali obiettivi aveva il Centre National des Arts Plastiques?
L’ha ideata Claude Mollard per rilanciare la politica nazionale delle arti plastiche. Ha anche voluto garantire la proliferazione di questa politica in tutto il Paese con la creazione dei Fonds Régionaux d’Art Contemporain (Frac). È stata una piccola rivoluzione.

Per lei, che è anche un uomo sul campo, questo radicamento delle arti plastiche nelle regioni tramite i Frac era essenziale?
Era vitale. Anche se ho trascorso moltissimo tempo a Parigi, vengo dalla provincia. Parliamo spesso dei grandi successi conseguiti a Parigi, ma ciò che è accaduto nelle province è ancora più importante. In passato, si parlava di un deserto culturale francese. Oggi con le biblioteche, i centri d’arte contemporanea, i cinema e le scuole non esiste più una piccola città che non sia raggiunta dal movimento culturale.

In un Paese in cui il denaro privato è stato tradizionalmente poco associato al denaro pubblico, lei ha dato un contributo significativo allo sviluppo del mecenatismo. Forse è un aspetto un po’ meno conosciuto della sua attività. Ha dovuto lottare molto per imporre il suo punto di vista a questo proposito?
Quando ho creato il Festival Mondial du Théâtre di Nancy potevo contare su modesti finanziamenti pubblici, quindi dovevo trovare ulteriori fondi. Il mecenatismo l’ho vissuto nei fatti. Mia moglie andava a bussare alla porta delle aziende in Lorena per far quadrare i nostri budget. Quando sono diventato ministro della Cultura, ho ottenuto risorse pubbliche senza precedenti: il raddoppio del budget per la cultura nel primo anno e un graduale aumento dell’1% negli anni successivi.

Volevo anche che la cultura avesse il sostegno di città, dipartimenti e regioni. Poi ho pensato che non c’era alcun motivo per cui le imprese e i privati non dovessero partecipare. Avrei dovuto lottare molto se lo Stato non avesse dato l’esempio ma, dal momento che lo Stato stava diventando un grande mecenate, non avevo difficoltà a rivolgermi alle imprese o ai privati non per chiedere loro l’elemosina, ma per farne dei partner. Jacques Rigaud, che ho stimato molto e che è stato capo di gabinetto di Jacques Duhamel (ministro degli Affari Culturali dal 1971 al 1973), seguiva questo principio: «Il mecenatismo non dovrebbe essere utilizzato per arrivare alla fine del mese in uno Stato in dissesto». Così sono riuscito a ottenere alcune misure fiscali e altri argomenti incoraggianti per le imprese. Nel 1988 ho fatto approvare una legge sulle fondazioni aziendali. Ma non sarei potuto andare oltre la legge Aillagon…

Per quale motivo?
Perché era troppo… In particolare, avrebbe dovuto essere introdotto un sistema per concedere questa importante possibilità di deduzione solo nel caso in cui l’istituzione incoraggi realmente la creatività giovanile. Oggi non c’è nessun criterio.

Nel campo della formazione e della ricerca la sua attività ha visto sviluppi anche relativamente recenti, quali la creazione dell’Institut
National de l’Histoire de l’Art (Inha) come vera e propria istituzione. È stato un lungo percorso. Ero consapevole, ancor prima del 1981, del fatto che le autorità pubbliche dovessero agire a favore della storia dell’arte, che era paradossalmente maltrattata in un Paese con la fortuna di ereditare quasi 40mila monumenti storici e musei d’eccezione…

Appena arrivato, ho chiesto a Pierre Mauroy di affidare un incarico ad André Chastel. Quest’ultimo, che aveva un carattere vulcanico che mi piaceva molto, mi disse: «Non ci riuscirà mai, tutti si opporranno, ma il primo passo che dovrebbe fare è il raggruppamento di tutte le collezioni di manoscritti che si trovano nelle Università, a partire dal fondo Doucet». Io gli risposi: «Farò di tutto per dimostrarle che si sbaglia!». Ci sono voluti anni, ma tutte queste collezioni sono ora nella sede Richelieu della Bibliothèque Nationale de France.

La decisione del 1988 di costruire nel quartiere Tolbiac (XIII arrondissement) la Grande Bibliothèque su progetto di Dominique Perrault è stata determinante. Avevo proposto a François Mitterrand di trasferirvi tutti i libri riservando alle arti la sede Richelieu. Qui abbiamo proceduto al restauro della sala Labrouste. Ho iniziato il progetto nel 1982 e ho firmato il decreto di creazione dell’Inha nel 2001 con Catherine Tasca. Questo è stato possibile perché ho avuto la fortuna di tornare al Governo e perché avevo in mente l’idea di Chastel.

A suo parere in che modo aumenta la posta in gioco per i musei francesi l’apertura di istituzioni come il Louvre Abu Dhabi?
Ho sostenuto il Louvre Abu Dhabi fin dall’inizio perché ho pensato che fosse una buona cosa per gli Emirati Arabi Uniti, per il Louvre e per l’influenza della Francia. Anche il Museo Nazionale del Qatar costruito da Jean Nouvel a Doha è una meraviglia. È meglio che questi Paesi spendano i loro soldi in questo modo piuttosto che in colate di cemento, come hanno fatto i Paesi europei in aluni momenti della loro storia.

 

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