Il PPR non è solo un Piano ma il Progetto di una visione moderna della nostra terra che ha come fulcro la conoscenza e la tutela della Sardegna [di Gian Valerio Sanna]

Sardegna-turismo

Si è fatto in questi giorni tanto clamore sulla bocciatura del progetto di Funtanazza dell’ex governatore Soru da parte degli uffici regionali e tutto questo è avvenuto dentro il dibattito sulla proroga del Piano casa e di alcune norme urbanistiche e in contemporanea con alcuni pregevoli riflessioni giornalistiche di professionisti che stimo.

Alcuni amici mi hanno sollecitato ad una mia riflessione su questi fatti, riflessioni che ho dismesso da un po’ di tempo sia perché non mi pare sensato parlare al vento, sia perché la visione del territorio e del paesaggio da parte delle attuali classi dirigenti, è rientrato rapidamente nella logica antecedente la Convenzione Europea del Paesaggio e non in quella prospettica che si proponeva, e cioè di un territorio e di un paesaggio non più dipendenti e esclusivamente funzionali al benessere degli uomini o meglio declinando, alle “utilità degli uomini”.

Lo faccio perché sono molto contrariato dalla insipienza dilagante che, anche di fronte alla tragedia del Covid 19, alle ragioni di stupidità umana e di irragionevole egoismo delle classi politiche, non pone un freno all’idea che il territorio debba essere oggetto sistematico di incuria, di degrado, dall’essere merce di scambio per il consenso politico di pochi contro l’interesse del futuro di molti.

Ho letto le parole di un giovane dirigente della destra che in questi giorni ammoniva: “il PPR non è vangelo, dobbiamo cambiarlo”. Un giovane non più giovane in effetti, uno in contro tendenza rispetto alle nuove generazioni mondiali, sensibili all’idea di difendere il mondo in cui dovranno trovare ancora le proprie ragioni di vita. Un giovane che si è perso evidentemente nel vortice di un unico dogma della politica di oggi: fare, dire e operare per accaparrare il consenso, i voti. Il sistema regolatore delle scelte è diventato questo, il consenso.

Cosa serve la cultura, il sapere, il conoscere, lo studio, la meritocrazia? A nulla e per ciò, la deriva di una visione settaria, razzista e violenta avanza libera dal condizionamento della conoscenza e dall’ingombro della generosità verso il prossimo nella lotta mai sopita contro le disuguaglianze.

Parlerò dunque di quello che è stata la materia che mi ha occupato per qualche anno e che è diventata la musa ispiratrice di una più complessa visione della storia, dell’umanità e dei doveri delle classi dirigenti che ha conquistato la mia coscienza già dai tempi del PPR.

Parto con l’affermare che sono da anni che proclamo apertamente e mai ascoltato, che il PPR per la sua stessa dignità e funzione, ha bisogno di essere aggiornato e rilanciato in una chiave di contesti e di scenari che non sono più quelli di 12 anni fa. Bisogna farlo tuttavia con metodo e con una logica di merito che non è certo quella di accontentare gli insaziabili costruttori.

In ordine: il metodo. Cambiare il PPR della Sardegna, applicazione di una delega dello Stato alla Regione e come tale atto avente valenza Costituzionale perché applicazione e trasposizione dei doveri imposti dall’articolo 9 della Carta Costituzionale, deve essere fatto attraverso un confronto con lo Stato a cui appartengono quelle norme, secondo un criterio che non sia semplicemente togliere i vincoli dove mi danno fastidio, ma aprire un ragionamento su molti fattori di merito che possono essere facilmente condivisi e accettati.

Non aver mai chiesto formalmente l’apertura di un tavolo di co-pianificazione con lo Stato sul PPR è il segno di una scarsa consapevolezza dei diritti e dei doveri che anche l’autonomia speciale ci impartisce. Poi sarà pure necessario che chi siederà a quel tavolo condivida con la Regione un percorso ma in quelle sedi la prepotenza non vince e dunque chi non si attrezza di competenze ed autorevolezze non avrà vita facile.

Definito il metodo bisogna costruire il catalogo delle cose che dovranno essere oggetto delle modifiche. Un primo fatto ineludibile è spiegare che il PPR nasce in un contesto politico, istituzionale e sociale particolare, segnato da una cultura in cui il PUC era in Sardegna l’oggetto principale dello scambio politico, base di conflitti e di lotte fra chi amministrava e i pochi che volevano capitalizzare i propri profitti costruendo e costruendo, non importa secondo quale logica o necessità. In questo clima negli ultimi decenni su 840 mila case censite, circa 220 erano vuote, ovvero registravano una occupazione media annua inferiore ai 15 giorni.

Questo vuoto, frutto della politica del costruire senza ragione, ci ha regalato circa 55-60 milioni di metri cubi di cemento senza alcuna utilità ma che hanno prodotto una devastazione gratuita e colposa del nostro territorio senza darci un briciolo di vantaggio. Il contesto di questo processo era una Sardegna in perenne e continuo calo demografico e un trend non equivalente del flusso turistico che quasi sempre non usufruiva di tali volumi, a beneficio di campeggi e delle strutture alberghiere quasi sempre mai piene.

L’inurbamento della Sardegna negli ultimi trent’anni è stato caratterizzato dal rafforzamento della fascia costiera a scapito dell’interno, con squilibri anche ambientali nella sostenibilità dell’agro e del mare aggrediti dai contesti urbani con carichi e scarichi fuori dimensionamento che in estate subivano il gravame di una popolazione, nella migliore delle ipotesi, 10-15 volte superiore a quella che vi svernava abitualmente.

Questo quadro ci ha messo di fronte nel 2004 un esito di culture e di abitudini che andavano ripensate secondo una visione di lungo periodo, applicando per quanto possibile una definizione Degasperiana mai smentita:” Un politico guarda alle prossime elezioni. Uno statista guarda alla prossima generazione.”

Cambiare paradigma nell’uso e nel governo del territorio ed avendo contemporaneamente contezza del valore unico e irrepetibile del paesaggio della Sardegna quale bene indisponibile all’uso privatistico e selvaggio, ci ha posto di fronte alle nostre responsabilità di classe dirigente moderna che doveva prendere atto che la stessa comunità internazionale ci richiamava a pensare ed usare differentemente i beni di cui disponevamo.

Nasceva così un Piano, che attraverso le norme fredde che presiedevano il governo del territorio, introduceva anche un regime giuridico che aveva un compito ulteriore, quasi maieutico, cioè quello di aiutare rapidamente i sardi ed i loro amministratori a cambiare approccio e comportamenti culturali nell’uso del territorio. Da qui una sua evidente rigidità che si spiegava solo con questo obiettivo e cioè con quello di far percepire agli stessi amministratori locali il vantaggio della tutela rispetto agli svantaggi competitivi della devastazione sul lungo periodo.

A distanza di più di un decennio è necessario tirare una linea di valutazione sulla opportunità di mantenere queste rigidità a fronte di una evidente evoluzione del sistema sociale e culturale, sicuramente più idoneo a gestire e auto controllare i processi di trasformazione del territorio. Una ragione di una immotivata rigidità che ancora persiste è quella della incompletezza nella predisposizione dei PUC adeguati al PPR che di fatto pone il controllore regionale nella condizione di bloccare qualunque cosa e spesso senza una oggettiva ragione. Il PPR, può sembrare assurdo affermarlo, è nato per superare il controllo della Regione e rimettere ai Comuni, attraverso un PUC che si sia adeguato al PPR, l’esclusiva attuazione degli interventi e la loro autorizzazione.

Il recepimento del PPR nei singoli PUC doveva rappresentare non tanto l’estensione su base locale delle rigidità e dei divieti, ma al contrario, l’interpretazione didascalica delle specificità che distinguono luogo da luogo generando ricchezza, e la capacità di intervenire sui luoghi e nel territorio valorizzando e resuscitando l’esistente decaduto o in disuso per restituirlo allo sviluppo, facendo sempre un bilancio fra necessario ed esistente in rapporto all’evoluzione demografica delle singole comunità, comprendendo e negoziando con lo Stato l’applicazione del diritto a non mandare nell’oblio la storia, il diritto allo sviluppo e al bello.

In questa lunga strada molto ha fatto in negativo la burocrazia regionale, senza che il PPR in se c’entrasse nulla, attraverso la cancellazione di un Ufficio del Piano che avrebbe dovuto evitare visioni oblique e particolaristiche nell’applicazione delle norme e non formando professionalità specifiche, maggiormente dotate sul terreno dell’interpretazione e della modernizzazione delle visioni territoriali, al posto dei “vecchi scarponi” che anche se giovani anagraficamente, obbediscono maggiormente al dettato di non decidere nulla per non rischiare mai qualcosa.

Una delle grandi colpe dei governi regionali che si sono succeduti all’esperienza del governo Soru, di tutte le ispirazioni politiche, è quello di aver ripreso a ragionare come nel passato con metodo mercantile e con in più un intento quasi punitivo nei confronti di chi ha avuto il coraggio di cercare oltre gli ostacoli, la strada della modernità e del futuro.

Le vicende di oggi, perseguono ancora quell’intento punitivo, e se da un lato propugnano una liberalizzazione indifferenziata, dall’altro chiudono agli avversari, mettendo lo stop ad interventi che al contrario sono coerenti con il PPR perché rilanciano strutture esistenti che proprio il PPR non intende mantenere allo stato di rudere ma che vuole ricollocare in un contesto antropico già compromesso ed improduttivo in chiave attiva e produttiva.

Quando offrivamo ai costruttori di tutta Italia la possibilità di trasformare le cave dismesse ed i siti minerari in villaggi turistici e strutture recettive invece che intaccare l’intonso, facevamo esattamente lo stesso ragionamento.

Ma capisco che la rabbia del giovane dirigente, non ha a supporto l’obiettivo della fatica di lavorare e del confrontarsi, di convincere e persuadere ma ha la fretta e l’ansietà di accumulare nel tempo più breve possibile i voti sulle promesse e sulle aspettative di pochi, senza l’ingombro di analisi antropologiche, di un po’ di sociologia e di economia della competizione, che in effetti sono un po’ troppo per le classi dirigenti di questo tempo.

Il PPR non è solo un Piano, è di più il progetto di una visione moderna e futuristica della nostra terra, l’idea che l’uso e la tutela della Sardegna comporta coerenti e conseguenti visioni nei campi della tecnologia, della cultura, della sociologia e dell’economia.

Ecco, io sono uno di quelli che vuole cambiare il PPR, per esaltarne il valore, per darne il senso esatto nel tempo in cui viviamo, per capovolgere il concetto dei poteri locali rendendoli responsabili delle scelte e non subirle solamente, sono uno che non ha paura neppure di questo tempo di decadenza pubblica e politica perché ho avuto la fortuna di intravedere la luce di un possibile cambiamento.

One Comment

  1. Mario Pudhu

    Mi ndhe allegro meda de cust’interventu de Gianvalerio Sanna!
    Ma “sono uno che non ha paura” est tropu pagu: Corazu! Ànimu patriotos!!! Ca sos chi tenent contivizu pro unu torracontu míseru e miseràbbile pagu prus de personale pro su lúcuru nessi de votos e de carriera, e no su contivizu de su políticu chi ponet in contu s’ideale assolutamente netzessàriu e generale de s’istatista, no sentit ne birgonza e ne dannu, ne de totugantos e mancu sou etotu, a fatza manna fossis in númene de su “vangelo” sou o de cambarada.
    Totu sos “Gianvalerios Sanna” unídebbos!

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